Adelaida: fuga in Italia

1 Maggio 2024

Interprete carismatica e anticonformista del panorama culturale della sua epoca, l’artista italoargentina Adelaida Gigli non ha osservato il mondo dalle quattro pareti di una stanza tutta per sé. Al contrario, la sua esistenza è stata scandita da traslochi e da partenze, fino alla fuga in Italia, da Buenos Aires a Recanati, dove è nata nel 1927 e dove ha deciso di ritornare alla fine degli anni Settanta, dopo avere vissuto in America latina nei decenni del fermento e della repressione. 

Non era ancora trentenne quando, insieme ai fratelli Viñas, Ismael e David, fondò, nel 1954, la rivista Contorno, oggi oggetto di culto tra gli studiosi delle lettere ispanoamericane attenti alla storia della critica letteraria militante. È questa l’epoca in cui Gigli inaugura la sua personale traiettoria intellettuale, caratterizzata dall’impegno politico e da incursioni in ambiti espressivi diversi: è stata autrice di interventi critici, ha scritto poesie e racconti brevi, si è dedicata alle arti plastiche. Eppure non ha lasciato molto di sé e della sua opera, o, per dirla in altro modo, nessuno fino ad oggi aveva provveduto a ricostruire le tracce del suo lavoro per consegnarle all’attenzione degli altri sotto forma di racconto e di memoria condivisa.     

Lo ha fatto Adrián N. Bravi con Adelaida (Nutrimenti, 2024). Il libro è anzi tutto il racconto di un’amicizia, che Bravi sceglie di rappresentare mettendosi in gioco per via diretta. L’autore incontra Gigli a Recanati, anche grazie alla comune esperienza migratoria che li ha portati in Italia dall’Argentina. Le ragioni dell’espatrio sono differenti, eppure il rapporto si consolida attraverso la scoperta di una rete di persone con cui entrambi hanno avuto familiarità. Pur appartenendo a generazioni diverse, Adrián e Adelaida si riconoscono vicini nella condivisione di affetti e di idee; dall’interazione tra le due voci nasce una narrazione stratificata che li accomuna. L’unicità e la specificità di questo incontro produce un travalicamento dei confini stabiliti dal ruolo di chi narra e da quello di chi è narrato; ne scaturisce una scrittura che tiene insieme ricostruzione storica e forza emotiva.

L’inequivocabile aderenza dell’io del narratore a quello dell’autore – “Ho conosciuto Adelaida Gigli nell’ottobre del 1988, quando aveva sessantuno anni” – corrisponde in questo caso a un forte senso di responsabilità nei confronti dei lettori. A loro Bravi si mostra come cronista e portavoce imperfetto che tiene conto degli ostacoli mentre narra dipanando l’irregolare susseguirsi dei ricordi di Adelaida: “Perché, mi chiesi, non l’ho mai registrata? Avrei dovuto domandarle più cose della sua vita, prendere appunti, conoscere più dettagli che la riguardavano”. 

Ma le omissioni, i silenzi e le resistenze della protagonista, che “non amava parlare di sé”, concorrono alla sua caratterizzazione, facendo della ritrosìa del personaggio, forgiato dal dolore ma insofferente alla retorica nostalgica dell’esule, il punto di forza della narrazione: “In fondo, la nostra vita non è altro che una schiera interminabile di buchi”.  

Le vicende biografiche di Adelaida sono avventurose e tragiche. La bambina ha quattro anni quando, nel 1931, il padre Lorenzo – pittore all’epoca già conosciuto e apprezzato sia in Italia sia in Argentina – decide di trasferirsi a Buenos Aires per fuggire dal fascismo: “sono sempre state le dittature il movente principale degli spostamenti di Adelaida”, dall’arrivo della famiglia Gigli in Argentina, qualche mese dopo il colpo di stato del generale Uriburu, fino al regime di Videla, “che la obbliga all’esilio, dopo la scomparsa di sua figlia Mini e, successivamente, di suo figlio Lorenzo Ismael”. Il padre dei due ragazzi, lo scrittore e studioso David Viñas, già fuori dall’Argentina, si trasferisce prima in Spagna poi in Messico, mentre Adelaida trova riparo in Italia, dove sopraggiungono la malattia e la morte, nel 2010.

La dittatura di Videla, con il suo delirio persecutorio, fa da sfondo alla vicenda di Mini e Lorenzo Ismael Gigli. I figli di Adelaida, insieme ad altri giovani montoneros, sono i protagonisti dell’affondo narrativo di Bravi negli anni Settanta. Nelle pagine ad essi dedicate, letteratura e storia si combinano per raccontare la resistenza e la lotta clandestina contro l’asservimento all’arroganza manifesta e alla violenza sotterranea. Il risultato è un racconto di grande valore testimoniale e letterario, con cui l’autore si addentra nel territorio impervio del trauma, delle rimozioni e dei riaffioramenti.  

Adrián N. Bravi dosa invenzione e testimonianza diretta; intende l’indagine storica come forza motrice per la finzione letteraria e si avvale di materiali di diverso tipo: interviste, fotografie, cartoline, lettere, alle quali affianca i versi che la stessa Gigli ha lasciato su carta e che non ha mai pubblicato, “come quasi tutte le sue cose”. Questi materiali concorrono a dare forma a una figura che acquista, pagina dopo pagina, l’intensità dell’emblema: l’Adelaida di Bravi è una donna che ha inteso la Storia come luogo arioso e aperto ai cambiamenti, ma ne ha portato addosso le cicatrici e le contraddizioni. Echeggia, nel racconto della sua vita, l’intenzione di fare i conti con la finitezza per rendere le vicende del singolo qualcosa di più grande, che coincide con l’universale umano e che per questo motivo riguarda tutti: “siamo determinati da tante storie che, a ben vedere, sono la nostra”, Bravi afferma nell’intervista con lo scrittore Angelo Ferracuti apparsa il 15 marzo su Sette (Corriere della Sera). 

Dalla cura nel recupero e nella restituzione delle ragioni di chi ci ha preceduti emerge, con Adelaida, il valore etico della scrittura, che fa dei conflitti di un’epoca il materiale per una parola romanzesca rivolta a chi sappia leggere dentro le storie qualcosa di più che il destino dei morti. 

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