Democrazia, élites, neoplebe

30 Aprile 2024

L’uomo democratico, una figura che Alexis de Tocqueville per primo ha analizzato nel suo Viaggio in America Stati Uniti e Canada 1831-32 (a c. di U. Coldagelli, Humboldt Books 2022) guardando stupito la nascente democrazia degli individui e degli interessi, è un’aggregazione di individui indipendenti, insofferenti d’ogni influenza, ma isolati e deboli per il dissolvimento dei vincoli gerarchici. Questa “figura” si è oggi pienamente affermata. E la società di massa oggi oscilla tra le istituzioni rappresentative democratiche e il potere di uno solo, autocrate alla sommità di piramidi sociali. 

La democrazia è oggi minata da più fattori: disordine internazionale e affermazione di regimi autocratici, aumento delle diseguaglianze sociali e territoriali, crisi ingestibili come quella climatica, fattori tecnologici che modificano in profondità l’intelligenza delle democrazie. Alla base di molti di questi fattori vi è un unico aspetto, che vorrei qui trattare: la crescita della “neoplebe” sia nelle società avanzate che in quelle in via di sviluppo.

Il punto è sollevato da ultimo da Alfonso Maurizio Iacono: egli spiega che “popolo” è cittadinanza democratica, mentre “plebe” è soggiacere a un capo-despota. Oggi le élites in competizione usano la partecipazione come strumento, tra ignoranza pubblica e apatia politica. Per le élites siamo tutti, come nel modello antico-romano, clientes. Sottoposti a un patrono. 

Ma il linguaggio comune non riconosce questa differenza: usa altri termini, come “gente”, una inconsapevole traduzione della parola cliente. Élites e gente sono, ad esempio, le categorie usate da uno scrittore influente come Alessandro Baricco nel suo articolo su Repubblica dell’11 gennaio 2019, che voleva discuterne il ruolo e prospettare una via d’uscita dall’attuale impasse. Ma ritengo in modo sbagliato.

Élites non sono il medico, l’insegnante, l’imprenditore, il dirigente, il sindaco, l’avvocato etc. dell’elenco di Baricco. Sono una categoria politica, la classe dirigente di qualsiasi società e in particolare di una società capitalistica complessa. Come si formano e come circolano le élites è questione alla base della democrazia, di ieri e di oggi. Il potere privato delle classi capitaliste, dell’élite economica che se potesse si prenderebbe tutto, viene bilanciato e regolato da rappresentanti politici dell’interesse pubblico: questo è nei padri fondatori della democrazia moderna, come Max Weber e John M. Keynes.

Gente non significa nell’analisi di una società assolutamente nulla: non esiste (se non nell’inconsapevole ripetizione di quanto detto a proposito di “clientela dipendente da un padrone”). La società è fatta di classi, gruppi e ceti (Weber) e strati in permanente movimento e riarticolazione. La società liquida di Zygmunt Bauman – una categoria analitica certo più sofisticata della categoria “gente”, al punto da essere impiegata ormai da molti come un concetto passe-partout che semplifica ogni immagine della società – anch’essa non esiste. La società inglese oggi, per fare un esempio, è composta secondo i più accreditati studi, di 7 gruppi sociali: élite economica, classe media stabilizzata, classe media tecnica, nuovi lavoratori affluenti, classe operaia tradizionale, lavoratori emergenti dei servizi, precariato. Sono le loro variabili alleanze, le loro rappresentazioni e rappresentanze a disegnare la società e orientarne le scelte. Per capire ad es. la crisi della democrazia anglosassone, quindi Gran Bretagna e Stati Uniti, è utile notare che la classe operaia tradizionale si è enormemente assottigliata e indebolita negli ultimi 40 anni (con la deindustrializzazione americana e inglese di intere regioni e città) mentre sono aumentati sia gli strati dei nuovi lavoratori affluenti (finanza, analisti simbolici, servizi immateriali, digitale) soprattutto nelle città, sia i lavoratori emergenti e precari nei servizi materiali (distribuzione, logistica, pulizie, manutenzione urbana, servizi alla persona). La società si è così polarizzata, e i comportamenti politici seguono questa dinamica: schematicamente, i vecchi lavoratori penalizzati sono passati ai partiti e ai candidati populisti che erodono la democrazia o perfino la assediano. Questo punto di erosione è ben spiegato da Carlo Galli che ne è stato da anni il principale studioso. 

Accanto a questa fenomenologia è poi possibile analizzare la Massa, una categoria che da Elias Canetti è stata assunta a fondamento del rapporto con il Potere. E che noi chiamiamo qui “neoplebe”. 

Rispetto al passato Novecentesco ci sono novità, ma non sono quelle evocate da Baricco. Il capitalismo studiato dai classici tra Otto e Novecento è stato superato da fenomeni imprevisti nella dimensione, non nella traiettoria: la finanziarizzazione, globalizzazione e tecnicizzazione del XXI secolo non hanno eguali con il secolo appena trascorso. Eppure, i classici avevano fissato con largo anticipo i fenomeni culturali che attualmente si dispiegano: dall’individualismo guidato dal consumo di massa (la società dei consumi è dominante dal dopoguerra) al dominio della tecnica razionale ma priva di direzione (la lettura che ne fa Heidegger è di un secolo fa). Questi autori avevano visto benissimo la forma esteriore di un punto fisso centrale, il capitalismo come “nuova religione” della società. Il fulmineo testo di Walter Benjamin è degli anni 1920! I sacerdoti della nuova religione sono i padri dell’individualismo moderno Nietzsche e Freud, i credenti sono gli abitanti delle metropoli: non solo gli imprenditori ma un’estesa classe media, e che la maggioranza della classe operaia si affidasse a una religione alternativa (il marxismo) era il rischio da evitare. 

Oggi questa nuova religione del capitalismo ha creato nuove opportunità e nuovi rischi. Le opportunità riguardano un capitalismo finanziario e tecnologico globalizzato in cui tutti possono “democraticamente” guadagnare in modo indifferente ricorrendo ai nuovi strumenti digitali – bitcoin, applicazioni informatiche, derivati, etc. –, mentre i rischi non sono affatto “democraticamente” ripartiti ma colpiscono quelle che erano la classe media, la classe operaia tradizionale e altri strati precari, tutti coinvolti nello scivolamento in corso.

“Mente” finanziaria, pronta a elaborare la religione del denaro, e “corpo” tecnologico del capitalismo, che crea continuamente nuove applicazioni, sono del resto intrecciati. La finanza mondiale – sopravvivendo alla grande alle crisi, come quella del 2007-2008 ormai dimenticata – si sviluppa in ambienti dominati dalla tecnologia dell’informazione istantanea, che rende possibili le transazioni nei mercati ufficiali e paralleli in cui circola il capitale finanziario globale entro sempre nuovi prodotti e veicoli, il cui valore supera di molte volte il PIL mondiale. La tecnologia, a sua volta, per svilupparsi dipende dall’immensa disponibilità finanziaria di capitali di rischio, come dimostrano i casi di successo e di insuccesso, da Amazon a Tesla a Chat-GPT alle cinesi TikTok etc.

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Naturalmente la “società del rischio”, annunciata quasi quarant’anni fa dal sociologo tedesco Ulrich Beck, fa parte di questo orizzonte iniquo. Il rischio in gran parte si basa su errori incalcolabili, aspettative e scommesse su futuri sconosciuti. Esso si situa al centro della sfera individuale e relazionale della persona, in modo diseguale. Oggi gli strati sociali inferiori non hanno protezioni nei confronti del rischio, come era stato invece negli anni centrali (1945-1989) del Novecento, dal dopoguerra alla caduta del muro di Berlino. In quei decenni la democrazia si era rafforzata, fornendo welfare e protezione sociale, sanità pubblica e housing sociale: tutto ora è stato cancellato. Nei tre decenni successivi la democrazia si è per questo “consumata”, non è stata capace di resistere al mercato e anzi lo ha fatto penetrare anche entro le sfere finora protette, dalla scuola alla sanità. Chi ne ha tratto vantaggio è stato solo una piccola minoranza. L’élite, di fronte alla perenne ricerca di liquidità da parte di tutti, la volge a proprio vantaggio e specula sull’incertezza anche a costo della crisi, anzi proprio in ragione di essa. Il resto della società subisce, sta a guardare o non è messo in grado di difendersi. Così nasce una enorme area, che è stata chiamata “neoplebe”. Essa non è assistita e servita dalle istituzioni democratiche, e quindi si trasforma in una platea di “liberi servi” pronti a ogni “clientela”. In Italia l’erosione della democrazia proprio in questo modo si compie nel ventennio berlusconiano, come ha spiegato Maurizio Viroli.

Con queste chiavi occorrerebbe rileggere il pericoloso scenario attuale di crescenti disparità di reddito e di potere, assai diverso dalla “democrazia di massa” del Novecento. Le diseguaglianze sociali sono in forte aumento sia in Occidente, con la crescita dell’1%, che in Oriente: l’1% dei ricchi possiede il 20% del reddito nazionale negli Stati Uniti, il 23% in Russia, il 23% in Cile, il 26% in Messico (fonte: World Inequality Database). In Europa va meglio, siamo tra il 10% e il 13%. La società si sta polarizzando senza che si intravveda un possibile punto di equilibrio. Questa polarizzazione è il frutto di un capitalismo finanziario-tecnologico che distribuisce le chances di ricchezza in modo fortemente diseguale. Eppure, il capitalismo liberale aveva promesso eguaglianza, o almeno eguali chances per tutti, nella gara competitiva. 

I capitalisti della rendita, i detentori di rendite finanziarie guadagnano sempre di più (il debito sovrano degli Stati ne dipende e quindi non sono gli Stati in grado di limitare le rendite finanziarie, in una spirale crescente) e il loro capitale non è tassato in modo sufficiente perché la crescita sia distribuita e avvertita equamente dal resto della società. Di qui i fenomeni di apatia, non-voto, ribellione variamente presenti nelle democrazie, mentre nei regimi autocratici dove pure la “neoplebe” è presente (lavoratori migranti, poveri, fuori-casta, minoranze etniche come in Cina e in Russia, negli Emirati Arabi etc.) essi non si manifestano apertamente.

Ne esce gravemente ridimensionata la capacità regolativa delle istituzioni politiche democratiche nei confronti dei mercati, mentre gli autocrati e i regimi tirannici (Putin, Xi, Modi) possono trarre vantaggio dalle oligarchie economiche da essi create. 

La democrazia potrebbe riprendere il controllo del capitalismo solo se le nazioni si integrassero a scala mondiale, e se questo è impossibile almeno per ora a scala europea. La prospettiva dell’Europa è per questo importantissima ed auspicabile. Si tratta di un auspicio rivolto alla democrazia economica che non sembra raccolto dai decisori politici, e insieme un invito a rimettere al centro dell’economia individui più consapevoli. 

Già secondo Adam Smith, nel XVIII secolo, la cospirazione contro il pubblico e le manovre per aumentare i prezzi sono connaturate al capitalismo, e possono essere difficilmente impedite dalla legge: eppure è proprio quanto hanno fatto tra fine del XIX e XX secolo lo Sherman Act e la successiva legislazione americana, e poi quella europea. Occorre allora interrogarsi sulla nuova fase della diseguaglianza e come fronteggiarla.

La svolta ha coinciso con la piena affermazione del capitale finanziario globalizzato dopo il 1989 – quando non vi erano più avversari al capitalismo – e prima e dopo la crisi del 2007-8 (la Cina entra nell’Organizzazione Mondiale del Commercio-WTO nel 2001). È una mega-macchina quella che si afferma, con proprie leggi e architetture di dominio: la sua governance mondiale è frutto di élites, istituzioni e sedi, WTO, IMF e World Bank, advisors e società di consulenza globali cui gli Stati affidano i propri destini strategici, grandi banche d’affari e società di rating finanziario da cui gli Stati dipendono per avere il finanziamento del debito e vedere garantiti i propri debiti sovrani, e quindi quelli di tutti noi (in termini di erogazione di stipendi e welfare, servizi, protezione e sicurezza). 

Inoltre nella crisi del 2007-8, una “costituzione non scritta d’emergenza” è stata elaborata in Europa: nella gestione della crisi e dell’eccezione si è creata una zona di indeterminatezza tra politica ed economia cui entrambe concorrono, e la distinzione tra pubblico e privato si è largamente disattivata. La prevalenza di questa osmosi tra politica e mercato è stata fatale anche in campo internazionale. Questa fase iniziata nel 1989 si è infatti conclusa nel 2022. L’Occidente, e l’Europa in particolare, dopo l’invasione della Crimea (2014) ha continuato a comperare il gas russo fino all’aggressione dell’Ucraina (2022). Il diritto internazionale assiste impotente, incapace di sanzionare l’aggressore. L’Europa si prepara al voto di giugno in questo quadro preoccupante.

A meno che, a partire dall’Europa, un’inedita alleanza tra regimi democratici e forze economiche e sociali diverse (rappresentanti delle “classi creative”, una nuova “classe ecologista”, strati intellettuali proletarizzati della stessa “neoplebe”) possa aprire una nuova fase: una prospettiva di tregua costruttiva e di compromesso sociale dopo il tramonto del secolo neoliberale. Per ripartire. 

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