Ferrara, o cara

7 Novembre 2022

Conduttrice: A Ferrara con Gianni Celati, all’angolo di piazza Ariostea con corso di Porta Mare. Un punto dove lo sguardo s’incanala in una griglia d’angoli retti e l’immaginazione rievoca il senso passato della dolcezza del vivere.

[Dopo uno stacco musicale, Celati legge la novella Traversata delle pianure, tratta da Narratori delle pianure]

Conduttrice: Era Gianni Celati, che ha letto Narratori delle pianure, una storia dal suo libro, una storia che s’intitola?...

Gianni Celati: Traversata delle pianure, e racconta l’arrivo di mia madre nella città di Ferrara.

Questo è il punto di Ferrara che Celati ha scelto per incominciare il suo racconto: piazza Ariostea.

Allora, qui siamo nel Bar Ariosto. Anzi, credo che si chiami Bar Ariosto-Paninoteca… E siamo sotto un bellissimo palazzo del Cinquecento, sotto i portici di un palazzo del tardo Cinquecento, che non so come si chiami però è proprio bello. Davanti c’abbiamo questa piazza Ariostea, che è una piazza che è stata fatta dal fascismo, ma è bellissima anche quella… Somiglia un po’ alla piazza di Siena, ma molto più vasta. È concava, e c’è la statua di Ariosto in centro, ed è tutta contornata da grandi platani. È una piazza molto armoniosa, con gradinate che scendono verso una pista, sul fondo. Ecco, questa piazza costeggia una lunga strada, che è quella di cui parlavo in quel racconto che ho letto. La strada si chiama corso Porta Mare, cioè il corso che porta al limite delle vecchie mura, dove c’era la Porta Mare, che era la porta attraverso cui si andava verso il mare. 

Questo corso Porta Mare, per me, come quasi tutte le strade di Ferrara in questa zona, è affascinante, perché è fatto tutto di casette, una diversa dall’altra. Qui davanti a noi ci sono case a tre piani, ma di solito le vecchie case ferraresi sono a due piani, tendono a essere a due piani; e una delle caratteristiche è che, al livello della strada, anche adesso, hanno tutte le finestre con delle grate in ferro battuto, alcune un po’ panciute, altre semplici. Molto spesso la grata ha anche una funzione decorativa, molto bella. E poi c’è questa tipica porta, una porticina d’ingresso sempre ad arco, e ognuna di queste porte aveva un batacchio… In molte il batacchio sussiste ancora, credo.

Perché, Celati, ha scelto una Ferrara “minore”? Non so, Ferrara viene in mente per il Palazzo dei Diamanti, viene in mente per la Certosa, viene in mente per il museo Schifanoja… Perché ha scelto di parlare di questo punto di Ferrara in particolare?

Beh, è quel punto di cui parlavo nel racconto, perché è legato al fatto che, quando mia madre è venuta a stare in città, la sua famiglia è venuta ad abitare in una di queste casette – io non so quale, francamente, ma so che era una di queste case. E ho immaginato, ho sempre cercato di immaginare com’era la vita di mia madre da bambina; e in quel racconto cercavo di immaginare cosa si vedeva in questa strada la sera, agli inizi del secolo.

Poi questo punto è un punto strategico di Ferrara, e non è un punto minore: anzi, io direi che è un punto maggiore, perché qui si vede molto bene un impianto di Ferrara che risale alla grande riforma urbanistica di Biagio Rossetti, che è della fine del Quattrocento. Qui si vede, in piazza Ariostea e corso Porta Mare, questo impianto ortogonale. Cioè, alla fine del Quattrocento, a Ferrara è stato ridisegnato un piano urbanistico della città, che consentisse di mantenere intatta la zona medievale, che infatti esiste ancora. Questo piano urbanistico è stato fatto da Biagio Rossetti, ed è un piano come quello di New York, cioè di strade che s’incontrano tutte, s’intersecano tutte ortogonalmente.

Bene, qui dove siamo noi, esattamente all’angolo di piazza Ariostea con corso Porta Mare, vediamo questo impianto perché di fronte c’è la prospettiva che porta a Porta Mare; e sono strade tutte larghe, quelle disegnate da Biagio Rossetti, come questa. Dietro, alle nostre spalle, questa prospettiva continua dall’altra parte, in un corso che poi diventerà, in fondo, corso Porta Po: qui vediamo il Palazzo dei Diamanti, e di fronte c’è il bellissimo Palazzo Massari, dove adesso c’è la Galleria d’Arte Moderna e il Museo Branzini; e poi qui sul lato, ortogonalmente a corso Porta Mare, c’è questo viale che porta alla Certosa. E anche la Certosa, soprattutto nella parte esterna, nelle mura, nell’ingresso, è uno dei più bei cimiteri d’Italia, [così] come mi sembra che piazza Ariostea sia una delle più belle piazze d’Italia. 

Celati ha scritto, in un libro di fotografie dedicato a Luigi Ghirri, quello che Ghirri e Celati pensavano di questa pianta ortogonale di Ferrara.

Ghirri aveva quest’idea che in una città come Ferrara ogni sguardo è diretto, non ci sono sguardi liberi. Ogni sguardo è come assorbito da una prospettiva. Infatti è vero: se ci si mette sull’angolo del Palazzo dei Diamanti, quest’angolo – che è un angolo retto – ti dà la direzione di tutti gli sguardi possibili, che sono sempre degli sguardi nell’ambito di novanta gradi. Ecco, questo è proprio vero: è una città dove tutto quanto è organizzato per la visione. È molto italiano, tutto questo impianto di città. Anche dove siamo, qui: dovunque si guardi, c’è l’occhio che è portato verso l’infinito, cioè in tutti impianti di visione basati su un’idea prospettica.

Ritornando al luogo del racconto, al luogo della casa della madre di Gianni Celati. I luoghi rispetto alle cose della vita, rispetto ai ricordi, rispetto alla memoria, rispetto a quello che ognuno di noi porta con sé: che peso hanno i luoghi nella storia dell’uomo?

Beh, appunto, adesso ritorno a quel racconto che ho cercato di scrivere, che è molto sommario, in cui cercavo di immaginarmi cosa fosse la prima sera che la famiglia di mia madre era arrivata ad abitare in questo posto. Quello che immagino io di questo posto – anche perché ci ho abitato qui vicino, per tre anni – è questo senso della vita serale: d’estate per esempio, quando la gente esce e se la spassa, i bambini giocano, le vecchie madri stanno a fare delle chiacchiere, gli uomini di solito andavano al caffè a giocare. Ecco, qui trovo che i luoghi, se dettano qualcosa, dettano il senso possibile di una dolcezza della vita, che dovrebbe esserci, dietro cui corriamo. Nei luoghi, appunto, dov’è il desiderio di sentirsi a casa propria. E quindi, quello che vedo in questo luogo è il ricordo di uno spazio comunitario, dove ci si sfiorava magari, di sera, la gente stava sulle porte delle case. In questo, voglio dire, è il senso della dolcezza del vivere, cioè che se arrivi in un posto, e questo posto è un po’ un grembo, un ambiente…

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… Ci si torna volentieri?

Ma io non lo so, io sono di tutt’altra generazione e razza. Io sono straniero dovunque vada, non c’ho un posto del genere a cui tornare, non esiste più per me tutto questo. 

Quanto di nostalgia c’è in questo pensiero?

Non è un sentimento che io provo, la nostalgia. Non l’ho mai provata. Credo però che, quando parlavo dell’aspirazione a una dolcezza della vita, fa parte della nostra immaginazione, fa parte di un continuo confronto che noi facciamo, anche se non ce ne rendiamo conto, fra come stiamo adesso, in questo tipo di mondo dove siamo sempre più buttati nello spazio aperto e sempre più allo sbaraglio; e un altro tipo di mondo che noi non possiamo capire come fosse, decisamente: un mondo ritualizzato, dove appunto esisteva il senso di un tessuto sociale, di una comunità, di un’accoglienza. Non è un problema di nostalgia, è un problema dell’immaginazione: se smette di fare questi confronti diventa un’immaginazione puramente tecnologica, cioè lanciata su questa pazzoide conquista del potere che adesso circola dappertutto, con queste figure che adesso sono al governo, dobbiamo dirlo. Queste facce tecnologiche, questi mostri tecnologici che son venuti al governo, dove tutto ciò che è passato è stato spazzato via, totalmente. Non esiste più l’immaginazione, non esiste più questo continuo confronto fra ciò che noi siamo e ciò che noi siamo stati. 

Questo sono i luoghi: non è un problema di nostalgia, non è un problema sentimentale, è un problema immaginativo.  

Questa bellissima descrizione dei colori delle case, degli intonaci, dei colori sbiaditi del racconto di Celati, corrisponde al vero. Perché qui le case che ci sono davanti hanno dei colori smorzati: sono rosa, verde chiaro, grigio chiaro…

Sì, ecco, questa è una cosa che mi impressiona, una cosa che ho tentato varie volte di immaginare: la percezione dei luoghi di una volta; e quello che credo di sicuro d’aver capito è che la percezione dei colori era tutta diversa – e qui si vede un po’. Qui noi abbiamo davanti, proprio sull’angolo della strada che porta alla Certosa, una meravigliosa palazzina settecentesca: bellissima, a due piani, e conserva un colore, probabilmente dell’epoca, che è una specie di grigio-verdino. Bene, quello che voglio dire è che adesso questa percezione dei colori noi non l’abbiamo più, perché abbiamo il senso dei colori che ci sono nei campionari dei venditori di colori, cioè dei colori che non esistono, che non sono mai esistiti. 

Una volta non c’era il senso del colore distaccato dalla cosa colorata: i colori erano quelli della polvere, quelli dei mattoni… I colori, per esempio, che si mettevano sulle case di campagna erano il verderame che si usava dare sull’uva. Una volta non c’erano i colori staccati dalle cose, come invece è venuta nella mentalità tecnologica, col fatto che ci sono i campionari di colori, si scelgono i colori… Ecco, questa è una cosa che in questa piazza si vede molto, si vede ancora come sopravvivenza in queste facciate, che hanno ancora il colore del mattone, il colore della polvere, il colore di vecchie tinte che si mettevano sulle porte e che chissà da dove venivano – per esempio, il coppale si metteva sulle porte spessissimo, invece di colori. 

E che poi sono destinate a cambiare nel tempo…

Come tutte le cose, questi vecchi colori erano sempre mutevoli, non avevano una fisionomia precisa. E in questo senso, quando si immagina il passato, ho sempre cercato di partire da lì: immaginare una situazione coloristica. Per esempio, adesso noi siamo venuti dentro questo palazzo cinquecentesco che dà sulla piazza Ariostea. Io non so come si chiama questo palazzo, dentro c’è un loggiato…

Possiamo chiedere però.

(Celati si rivolge a un passante) Scusi tanto, lei lo sa come si chiama questo palazzo qui, questo palazzo dove siamo?

Passante: Dunque… Palazzo Mazzucchi!

Ah, Palazzo Mazzucchi, ecco, grazie.

Passante: Prego.

Ecco, quasi tutti questi palazzi cinquecenteschi avevano sul retro un giardino di questo genere, che poi è lo stesso tipo di giardino che si trova descritto nei poemi cavallereschi. Quando nei poemi di Boiardo e di Ariosto il cavaliere arriva – non so – in un castello incantato, si descrive sempre il “verziere”: il verziere era proprio fatto così. E in tutti questi vecchi palazzi incantati c’è sempre anche la questione del loggiato, come quello che vediamo lì su, questo loggiato in cotto cinquecentesco, dove c’erano sempre degli affreschi. Quindi, insomma, tutto il fatto coloristico di una volta era completamente diverso, e le cose e i colori non erano due entità separate: i colori erano colori di cose. Voilà.

Siamo arrivati al Boiardo e all’Ariosto. Perché non si può parlare di Ferrara, non si può venire a Ferrara e non parlare di Ariosto.

Eh sì… Questa statua qui non so quando l’hanno messa su, è una statua molto brutta: c’è Ariosto lassù, con una corona di lauro in testa e una cetra in mano, un po’ vestito da romano… Io ho paura che questa statua l’hanno messa su nel ’32 quando c’è stato questo grande convegno ariostesco sponsorizzato dai fascisti, particolarmente da Italo Balbo, che era il capo della mafia fascista a Ferrara. Il convegno aveva un nome che adesso non mi ricordo, che non c’entrava… Comunque, insomma, la statua è un po’ così, ma va bene lo stesso. A me piace lo stesso.

Ad Ariosto sarebbe piaciuta?

Ah, lui, poveretto, era sempre così triste e disgraziato che gli sarebbe venuto da ridere a pensare che lo mettevano su una statua, così, per far la parte dell’aedo… Lui aveva dei tali problemi, ha avuto tali problemi per tutta la vita, che non credo abbia mai pensato alla sua statua.

Ma chi era Ariosto?

Era un povero impiegato, un povero impiegato di questi duchi ormai diventati un po’ arroganti, che lo trattavano male, che gliene facevano fare di tutti i colori; e lui doveva essere sempre al seguito… Insomma, un povero impiegato-segretario di questi due arroganti, questo Alfonso e questo Ippolito. Erano le nuove generazioni degli Este, dopo quella di Ercole I d’Este, che è stato un po’ l’iniziatore, il patrono di tutte le grandi cose artistiche a Ferrara: è stato quello che ha sollecitato Boiardo a scrivere l’Orlando Innamorato; è stato quello che ha raccolto i pittori, che si è occupato dell’architettura… Insomma, Ercole I d’Este è stato un po’ l’iniziatore di una situazione ferrarese. Dopo, arrivati a quegli altri due di cui Ariosto era al servizio, le cose si erano un po’ stabilizzate, c’era meno fervore ed erano, si direbbe, un po’ più realpolitik. E allora lui, insomma, era un povero impiegato: aveva pochi soldi, perché c’aveva questo fratello ammalato a cui lui doveva badare, a cui ha dovuto badare tutta la vita; questo amore nascosto, questa signora che lui andava a trovare di notte…

Che rapporto c’è stato fra il “povero impiegato” Ludovico Ariosto e l’Orlando Furioso, questo poema cavalleresco dove succedeva di tutto, cose che nella vita di Ariosto non sarebbero mai avvenute… Tutto prodotto della fantasia?

Beh, è stata tutta la sua vita. L’ha fatto, rifatto, scritto e riscritto per tutta la vita… La sua vera vita è stata quella, non la vita da impiegato. Ma è stata una vita che lui ha succhiato un po’, perché l’Orlando Furioso che lui ha scritto non è altro che la continuazione dell’Orlando Innamorato di Boiardo. Quindi prima di lui c’era quest’altro signore, che veramente più fantasioso di così non si può immaginare, che comincia questo poema, Orlando Innamorato, che doveva essere poi un poema per dimostrare che i duchi d’Este discendevano da Ettore di Troia. L’Orlando Innamorato è stato cominciato a Ferrara, quando Boiardo abitava a Ferrara. Boiardo era conte di Scandiano, una rocca in provincia di Reggio Emilia, ma in giovinezza aveva abitato qui, era appunto un grande amico di Ercole I d’Este; ed è di lì che cominciano queste grandi fantasie cavalleresche, che Ariosto poi continuerà nel suo poema.

Prima di Lasciare Ferrara alla guida della sua Peugeot rossa, Celati fa un’ode al Canale Volano.

A quel tempo dei tempi, quando c’erano i duchi, c’era questo canale, che si chiamava Argine Ducale. Il Canale Volano era uno dei canali che serviva per la navigazione interna; e faceva parte, al tempo dei tempi, di questo reticolo di canali per cui uno poteva venire da Milano fino a Ravenna, fino al mare: come un reticolo autostradale attuale. Il Canale Volano, che adesso passa in questa zona meravigliosa di Ferrara, che è la piazza di San Giorgio, fuori dalle mura, è un punto glorioso di questo reticolo fluviale, attraverso cui si attraversava tutto il nord dell’Italia. Voilà.

Radio Rai, 19 giugno 1994.

L'intervista è raccolta in Gianni Celati. Il transito mite delle parole. Conversazioni e interviste 1974 - 2014, a cura di Marco Belpoliti e di Anna Stefi, Quodlibet storie: sessantasette incontri apparsi su giornali, riviste, libri o registrati nel corso di trasmissioni radiofoniche e televisive.

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