Lo spazio, la memoria, i fantasmi
La memoria come una casa abbandonata, a causa della vecchiezza, del decadere delle facoltà mentali, della morte. Sarà perché l’invecchiamento della popolazione è un dato di fatto con cui sempre di più fare i conti, sarà perché i teatranti, in cerca di pubblici nuovi, specie dopo la pandemia lavorano con le età fragili e da quelle traggono ispirazioni, sarà perché il tema della memoria, di come abitiamo le “stanze” del nostro passato, ha da sempre appassionato l’arte, negli ultimi tempi, nelle ultime settimane, mi sono trovato davanti a ben tre spettacoli che mettevano in scena quei passaggi faticosi, dolorosi.
Due spettacoli li ho visti a Colpi di scena, un bel festival con la direzione artistica di Claudio Casadio, realizzato a Forlì da Accademia Perduta / Romagna Teatri in collaborazione con Ater Fondazione, che ha dedicato alle nuove drammaturgie una formula sperimentata in molti anni per il teatro per ragazzi. Una scorpacciata durata quattro giorni con diciannove spettacoli, alcuni finiti, altri nella fase di studio o in anteprima, alcuni che hanno già debuttato, altri alla prima prova assoluta con gli spettatori, per un pubblico fitto, formato principalmente di operatori. Era una bella carrellata di cosa si muove nel contemporaneo, sia con spettacoli più classici di narrazione o di intreccio, ma anche con altri che mescolavano i piani linguistici, i corpi e testi più o meno frammentari – post-drammatici – con immagini, video, partiture sonore, apparati scenici drammaturgicamente importanti, affrontando temi spesso urgenti. Tra questi ne segnalo due che avevano, con soluzioni sceniche diverse, appunto per tema lo smarrirsi della memoria verso la fine della vita.
Un altro lavoro l’ho visto al Festival Internazionale del Teatro (Fit) di Lugano diretto da Paola Tripoli, sulla caduta nell’oblio con l’età che avanza e la lotta per resistervi. Aggiungerò un quarto spettacolo, sempre visto a Lugano, che in comune con gli altri ha solo la modulazione di uno spazio che serve a evocare fantasmi, letterari e personali, e introduce una variante tematica che dialoga con la memoria e l’oblio: l’imitazione e la trasmissione.
Lo spazio è un centro nodale di tutti questi spettacoli. In Album di Kepler-452, visto nello spazio Ex Atr di Forlì, Nicola Borghesi ed Enrico Baraldi, con la complicità di Riccardo Tabilio e di altri, dispongono il pubblico su sedie, poltrone, divani sistemati in cerchi più o meno concentrici. Tra gli spettatori ci sono vecchi televisori, un giradischi, una radio, cartoline, album di fotografie, libri, scatole di cartone. Borghesi inizia parlando della memoria delle anguille, che tornano a morire nel Mar dei Sargassi, dove sono nate.
La narrazione si fa divagante, annuncia, sospende e intreccia fili diversi, percorre fatti e storie provenienti da luoghi lontani, accompagnata da immagini, da pezzi di video, da brani musicali che accendono la nostalgia. Borghesi si aggira in mezzo al pubblico, imponendo a chi guarda di cambiare continuamente punto di vista, facendo prendere in mano poveri oggetti, interrogandosi, ricordando l’alluvione che in Romagna ha spazzato via campi coltivati, oggetti, mobili, case, ricordi, seppellendoli in uno strato denso di fango. Interroga su quello che ricordiamo e ai frammenti di vita che tutti noi perdiamo, delegando un improbabile ruolo memoriale a oggetti che riponiamo in scaffali, cassetti, scatole.
Presto ci si rende conto che sta parlando della fine di un padre che a poco a poco smarrisce la memoria, che scivola nell’Alzheimer, che infine cade nelle morte. Cosa resta di lui? Vecchi oggetti, da guardare un attimo per rievocare storie piccole e grandi, da affidare poi a scatoloni. Per sbarazzarsene.
Due vecchi in scena arrivano con le buste della spesa davanti a una piccola auto in Il grande vuoto di Fabiana Iacozzilli, con la drammaturgia di Linda Dalisi, produzione Cranpi, visto in anteprima per Colpi di Scena al teatro Goldoni di Bagnacavallo, prima del debutto a Romaeuropa Festival (15 novembre). Lui (l’attore Ermanno De Biagi) fa cadere tutto: rotolano le arance, prova a raccoglierle e qualcos’altro finisce sul pavimento. I due non riescono a entrare in macchina e a partire, punteggiando le azioni e i rimbrotti con il fumo di sigarette, che alla fine riempirà l’abitacolo della vettura.
Nella seconda scena siamo nella casa dei due, con i figli (Francesca Farcomeni e Piero Lanzellotti). Il vecchio scompare, muore. Rimane l’anziana moglie (l’attrice, straordinaria, è Giusi Merli), in preda a una malattia neurovegetativa che la scarmiglia, la deforma: ricorda sempre meno, si fissa su certe qualità dei figli, rammenta bene solo che era un’attrice, con il desiderio di rappresentare la scena di re Lear nella tempesta, quando le facoltà del sovrano si sono obnubilate e grida sfidando la furia degli elementi, distrutto dal rifiuto di accoglierlo delle figlie che aveva beneficato.
L’interno domestico viene scavato con una telecamera, che proietta scene e retroscena su uno schermo in alto, mentre la badante che si prende cura dell’anziana madre (Mona Abokhatwa) narra un apologo sul desiderio che si assottiglia col tempo, come una matrioska che ne rivela di sempre più piccole. L’ambiente anche qui è ricco di oggetti di memoria, di storie, che vanno sempre di più svuotandosi di senso.
Lo spettacolo dichiara di aver tratto spunti da Una donna di Annie Ernaux e da Fratelli di Carmelo Samonà, ma mi sembra che guardi molto anche all’iperrealismo di Milo Rau e pure a quel meraviglioso testo sulla vecchiaia che il Minetti di Thomas Bernhard, la sfida estrema alla società di un artista che sta perdendo con gli anni relazioni e facoltà, e che finisce sotto la neve, con il desiderio di incarnare lo svuotarsi di Lear, come la vecchia di Il grande vuoto in una spettacolare scena conclusiva di proiezione del desiderio sotto scintillanti fiocchi. Ma aspettiamo di vedere questo promettente spettacolo nella versione definitiva.
Inizia con un filmato Alcune cose da mettere in ordine di Rubidori Manshaft, ossia Roberta Dori Puddu, artista che ama lavorare su varie linee di confine, con la drammaturgia realizzata con Angela Demattè e l’interpretazione di Roberta Bosetti e Giacomo Toccacieli. La protagonista è una donna appena sopra i sessanta, ancora fisicamente prestante, che inizia a tracciare un bilancio di una vita che comincia sfuggire. All’inizio, nel video, si veste per uscire. Poi l’attrice entra, dal vivo, in uno spazio astratto, un rettangolo scuro inscritto in uno più chiaro, con alcune sedie, una poltroncina, un tavolo e una cassa disposti sui lati. È la solitudine che cerca di tenersi in vita, che ci fa partecipare al ronzio dei suoi pensieri in unisono con flebili, persistenti rumori di memorie, intrecciate con un presente fatto di assenze e mancamenti, prima appena percettibili, poi sempre più laceranti. Il tempo passato è ingannatore come il suono del mare che sembra di ascoltare dentro le conchiglie, come un precipitato di vite racchiuso in una cassa.
La donna è come in un ufficio, davanti a un giovane che la interroga sui suoi dati anagrafici, che le fa domande che rivelano le sue mancanze di memoria. Sullo sfondo appare ancora un video, che ritrae l’interno di un istituto per anziani, sedie vuote, sul fondo un tavolo con altre sedie, qualche presenza che appare e scompare, come fantasmi. Ma la lotta contro l’ansia, per ritrovare un corpo che si sente dissolversi, si incarna nel contenuto della cassa. Tante mani, tanti calchi di mani, mani ridotte a fossili, ultimo resto di vite disperse nella dimenticanza. Una Pompei di esistenze che fremevano, amavano, soffrivano, immobilizzate come sotto la cenere di un disastro.
Alcuni di questi lavori sono nati da incontri con anziani in centri sociali o in case di riposo. Kepler-452 coinvolge abitualmente nei suoi spettacoli le persone reali di cui mette in scena, traspone in scena, i problemi. Così qualche anno fa in provincia di Bologna ha lavorato con alcuni anziani in circoli e case del popolo.
Rubidori Manshaft ha creato il suo spettacolo dopo un lungo lavoro in case di cura per anziani, riprendendo temi già presenti nella sua ricerca come l’interrogazione sul corpo e sul suo significato politico, sulla solitudine, sulla paura, sul tempo.
I tre spettacoli narrati mi sembra colleghino il dissolversi della memoria, del desiderio, della vita, e la loro cristallizzazione a spazi multipli, complessi, che con la loro struttura labirintica diversamente rimandano alle circonvoluzioni cerebrali, traducendo anche spazialmente la crisi delle facoltà mentali, il perdersi, il lottare disperatamente con il tentativo di ritrovare la strada, bloccata, reificata nelle cose che accumuliamo, nell’incapacità di tenere insieme noi stessi e gli altri fino a ridurci a resti, a sogni sfuggenti, a fantasmi.
Elogio della vita a rovescio si svolge in una scena vuota, ingombra solo in un punto da alcuni sacchi. Sull’impiantito pendono alcuni microfoni. Una sola attrice in scena, Giulia Scotti (il nuovo teatro è spesso monologante, per necessità espressive o produttive?), e una regia prestigiosa, quella di Daria Deflorian. Saranno la parola, l’uso dei microfoni, le posizioni assunte e poi il contenuto dei sacchi, svuotati di tanto sale, bianchissimo, a disegnare diversi luoghi, che si caratterizzano come stazioni di una memoria, che come in altri spettacoli di Deflorian, svaria tra il ricordo o il pensiero personale e il racconto letterario.
A specchio della performer sta l’opera della scrittrice coreana Han Kang, in una tappa di avvicinamento al suo impressionante romanzo La vegetariana (Adelphi), la storia della metamorfosi di una ragazza in pianta, di uno svuotamento e della proiezione in qualcosa di diverso dalla vita pensante, verso una forma di esistenza puramente senziente. Abbandonare qualcosa. Rifiutare la violenza del far sanguinare. Spostarsi in altre dimensioni. Voler rinascere uccelli, prima che piante, e cinguettare. Provare a volare. Con un cappellino e un suono di pioggia creare un altro spazio ancora, un altro tempo, percorrere in un autobus affollato la città fino all’ospedale, alla fine delle case, per andare a trovare la sorella.
Sale come neve. Come un poemetto di Han Kang, The White Book, scritto a Varsavia: tutto bianco, come un fazzoletto che cade da un balcone. Polvere. Due sorelle. Una sorellina morta poche ore dopo la nascita. Ragazzi uccisi dalla polizia nella grande repressione in Sud Corea del 1980, che ritornano, come fantasmi. Tempi, spazi diversi, evocati con piccoli spostamenti, calzando il cappellino, stendendosi in terra, con un controluce (luci di Giulia Pastore)…
Letteratura e vita che evocano fantasmi, mentre Giulia stessa sembra un involucro posseduto da altri spiriti. Recita, si muove, cadenza le frasi come la sua maestra, Daria Deflorian. Ricordandoci, così, che la memoria è esperienza fisica, trasmissione, imitazione, pudore, possessione, metempsicosi, vita in un’altra vita. E che le grandi tradizioni teatrali mettono alla base dell’invenzione – del “fiore sublime” del Teatro Nō per esempio – un lungo lento lavoro di apprendistato, di imitazione, di osservazione, reincarnazione e variazione delle qualità del maestro. In quella lotta fisica, reale, contro l’oblio, tappa imprescindibile della creazione, che si può chiamare anche, umilmente, trasmissione.
L’ultima fotografia, di Andrea Pizzalis, è un’altra immagine di Elogio della vita a rovescio.