Festival di Castiglioncello / Artisti Inequilibrio

12 Luglio 2018

“Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni?”, così cantava rosa dalla nostalgia la piccola guitta Mignon di Goethe, conosci il paese del sole, delle colonne che si rispecchiano in cieli azzurri, delle tarantelle e dei tamburelli, aggiungeva l’ozioso principe Leonce del medico Büchner quando il Romanticismo ormai rivolgeva contro sé stesso la propria coscienza infelice, la propria inconsolabile ironia. “O amato mio, con te vorrei andare!”, concludeva le strofe.

Quel paese insieme reale (come l’Italia classica) e immaginario come l’aura di una tradizione che risuona e incanta attraverso i tempi, nel teatro si materializza ogni anno in un festival che apparentemente si tiene zavorrato ai fondamentali, il testo, la drammaturgia, il corpo dell’attore, del danzatore. Capace in realtà di creare macchine fantasmatiche che – molto meglio di rassegne dedicate all’esplorazione performativa di conflitti o visioni contemporanee d’artista (leggi per esempio il recente Santarcangelo) – entrano in profondità nelle tensioni che ci avvolgono. 

Sono stato tre giorni nella “Costa degli Etruschi”, nella cittadina balneare del Sorpasso di Dino Risi, nella località dove villeggiavano Silvio D’Amico e famiglia, Pirandello e famiglia, e poi Suso Cecchi D’amico e famiglia, Alberto Sordi, Mastroianni eccetera. Di quel fascino fané resta poco, nella bolgia estiva ancora non scoppiata agli inizi di luglio, sotto l’ottocentesco Castello Pasquini, nei luoghi che furono campi e capanni, buoi e paludi di Diego Martelli e della sua utopia di comunità d’arte con i macchiaioli. Armunia, il centro che organizza il festival Inequilibrio, è una struttura teatrale che un po’, forse, vuole rinnovare quella o un’altra utopia: lavora tutto l’anno, non facendo altro (e non è poco) che offrire agli artisti gli spazi del Castello Pasquini per residenze, per creare, con calma, piano, le loro opere, tra pini e macchia mediterranea, scogli e scorci incantevoli di un piccolo golfo che si apre sulle ciminiere e sulle “spiagge bianche” della Solvay (produttore del candido bicarbonato). Poi, per il festival, mostra in anteprima o in prima o in replica i lavori creati durante l’anno, accompagnandoli con una bella selezione di altri spettacoli. 

 

I direttori, Angela Fumarola e Fabio Masi, vanno in cerca di quei “limoni” di cui si diceva all’inizio: momenti di danza e di teatro che non riproducono le seduzioni dello spettacolo diffuso, della merce rappresentativa che consola superficialmente con fraseggi e visioni alla moda, di mera superficie. Cercano, anche nella danza, il “teatro”, quel luogo dello sguardo acuminato che entra nelle cose e nelle persone, crea nessi, congiunge mito e presente, tradizione viva e proiezione, provando a mettere le ali a corpi acciaccati, come suggerisce il manifesto di questa centunesima edizione.

 

 

Difficile sarebbe raccontare tutto il festival, che è iniziato il 19 giugno con un focus internazionale sulla danza del Mediterraneo e del Medio Oriente, si è sviluppato con produzioni nuove o nascenti, quasi sempre piccole, perché questo è il luogo dell’indipendenza, di una precarietà produttiva che cerca di non sottrarsi alla sfida della professione dello sguardo e dell’intelligenza inventiva. Ha ospitato artisti appartati e dissonanti come Gaetano Ventriglia con Silvia Garbuggino, o come Rita Frongia, con una trilogia, come Maurizo Lupinelli, con il suo nuovo Sinfonia beckettiana, un omaggio al grande Samuel e ad Alberto Giacometti con un gruppo di attori diversamente abili (e poi la comicità Antonella Questa, Luca Scarlini, Berardi/Casolari e altri, con alcuni debutti saltati per indisposizioni). Nella danza, ancora, si è vista una piccola personale dedicata a uno dei nomi più creativi della nostra scena, Daniele Ninnarello, uno che congiunge analisi delle possibilità del corpo con forza ritmica e mitopoietica. Sono apparsi Daniele Albanese e la rigorosissima ricerca sensoriale e filosofica più che coreografica di Silvia Rampelli, Habillé d’eau, purtroppo difficile da vedere perché penalizzata da un mercato sempre più in cerca di oggetti da consumare facilmente, strizzando l’occhio più al facile consenso alla moda e alla discoteca che al viaggio interiore. Attilio Scarpellini ha presentato il secondo volume dei colloqui organizzati a Castiglioncello da Claudio Morganti, Tempo, diversi approcci, teatrali, filosofici, antropologici all’idea di tempo e di anacronismo (edizioni Ets).

 

Alessandra Cristiani.


Qui mi saldo con i tre giorni che ho visto di questo festival che poi, a parte tutto, è un incontro di volti densi, di artisti, capaci di emanare già con al loro presenza fisica un fascino, qualcosa capace, etimologicamente, di legare a sé e portare in qualche altrove tutto da esplorare (le illustrazioni dell’articolo, da ora, saranno con i loro volti). Una delle interpreti di Euforia di Habillé d’eau era Alessandra Cristiani, e le luci erano di Gianni Staropoli, recente premio Ubu. Sono due nomi cari alla scena romana più radicale e inquieta: lei, con la sua cascata di capelli rossi ricci come serpenti, con i suoi lineamenti belli, duri, con uno sguardo che sembra rimandare ad altri mondi, con il suo corpo mobilissimo, frantumabile, è stata anche la protagonista di Clorofilla, dai libri Esitazioni e Tenebre di un altro protagonista della scena romana, il poeta e attore Marcello Sambati. Fotografie di Daniele Vita di una performance di Alessandra Cristiani vengono frante su diversi piani di muro nella prima stanza, illuminata con toni freddi da Gianni Staropoli. White Cube, per scorporare il corpo danzante, gridante, cercante. Un passaggio con un acquario verde, come la clorofilla del titolo. Un tappeto, bianco tutto ancora, in un altro ambiente. Qui la danzatrice sprofonda tenendosi agganciata al pavimento, in un lento ansiogeno precipitare in un vuoto cosmico insidiato da voci e suoni dissonanti come richiami o minacce, da scatti di ribellione di un arto, di un altro, di terrore, di abbandono. Un racchiudersi per difendersi, un aprirsi per spingersi, mentre la luce, a volte, è verde, come irrorata o filtrata da elementi vegetali, dal bosco interiore, come un’esasperata fredda visione di sala autoptica. Il buio più nero. Le voci. Sprofondare e ritrovarsi nel leggero volo di batuffoli verdi, nella teca dove il corpo a stento sta. Viaggio. Meraviglia.

 

Marcello Sambati.


Poi Cristina Kristal Rizzo, avviata a essere la maggiore coreografa italiana, che con una decina di danzatori (una produzione del Lac di Lugano), illuminati dalla carismatica potenza di Annamaria Ajmone, destruttura il balletto classico in due tempi. In VN Serenade prima c’è l’avvitarsi dei corpi in loop infiniti che seguono l’incapacità della musica di essere ancora romantica e si fa novecentesca trappola avvolta su sé stessa tra la notte e la luce, tra la tensione e il ritorno, di Verklärte Nacht di Schönberg. Poi gioca ancora più esplicitamente con i fondamentali del balletto, incompiuti deliberatamente, spezzati, destrutturati, in un vorticare di passi a due, slanci, ricadute sulla struggente Serenata in do maggiore per archi di Pëtr Čajkovskij. Un’avviluppante fantasmagoria, una citazione, giacché il secondo pezzo, con tanto di pantaloni larghi e camicioni, riprende il balletto creato nel 1934 da Balanchine per gli studenti dell’American Ballet Theatre, verso i fondamenti della Modern Dance.

 

Massimiliano Civica.


Registi più o meno giovani si confrontano con autori e testi divenuti ormai classici contemporanei, come il Jon Fosse di Cani morti affrontato da Carmelo Alù (lo rivedremo al Metastasio di Prato nel programma di nuove firme voluto da Massimiliano Civica) con un eccesso minimalismi e interiezioni, letteralizzando troppo le sospensioni dell’autore scandinavo e rendendo il gioco delle tensioni prevedibile. O come Giusto la fine del mondo di Lagarce, dolente pièce sull’incomunicabilità familiare e la morte, inscenato da AttoDue/Murmuris, in una regia che ricrea l’ambiente del pranzo familiare, suscitando il pensiero di una moderna recitazione filodrammatica, molto aggiornata, capace di portare in provincia autori di peso e inquietudine.

 

 

Tre sono i lavori teatrali da ricordare particolarmente (a parte la ripresa di Belve di Civica, di cui abbiamo parlato diffusamente al debutto). Lo stesso regista, Massimiliano Civica, firma Andromaca per i pisani Sacchi di Sabbia, riprendendo la sua prova di esordio del lontano 2002, completamente riadattata. Allora la tragedia euripidea era rivelata nella sua struttura da trucida soap opera familiare, da viluppo di intrighi che si svolgono intorno a un uomo assente, affidandola a un solo attore, Andrea Cosentino, che faceva anche il controcanto di un coro abbassante, scoronante, ironico, in abruzzese. Ora sono due serve, dal marcato accento pisano, a entrare nelle storie di rivalità feroce dei nobili, alle pretese di ogni personaggio che aspetta il riconoscimento della giustezza dei propri diritti, a danno degli altri, dal signore Neottolemo, che mai arriverà. Si ride molto, perché tutto è spinto al paradosso, con una asciutta raffinatezza che si permette a volte sgarri scatologici. Tutto passa anche attraverso i volti degli attori, da quelli volutamente sbiaditi delle serve, a quello di una Andromaca in carne e en travesti che rievoca passati splendori dall’attuale condizione di serva, allo spiritato Menelao di Giovanni Guerrieri, un incrocio tra D’Artagnan e uno scapigliato milanese d’antan sull’orlo della tisi. Da morire dal ridere.

 

Elvira Frosini e Daniele Timpano.


Si ride pure, a denti stretti, nel perfetto Gli sposi del francese David Lescot, mirabilmente tradotto, con linguaggio diretto e ritmicamente incalzante, da Attilio Scarpellini, interpretato da una coppia teatrale che a ogni prova si rivela sempre più dirompente. Daniele Timpano, con la sua ari dinoccolata e spiritata, un incrocio tra Celentano (o il suo modello Jerry Lewis) e Cagliostro, diventa Nicolae Ceausescu, il conducator rumeno; Elvira Frosini, con il suo fisico e il suo volto spigoloso, nervoso, la moglie Elena Petrescu. La storia dei due dittatori della Romania diventa un viaggio in una coppia di domestici Ubu assetati sempre di più di potere: lui un po’ tonto, lei ambiziosa e tenace, a poco a poco mettono ai loro piedi il mondo, scegliendo le cose che fanno per caso o per convenienza, spolpando un intero paese, fino alla drammatica fine, alla cattura, all’interrogatorio, all’uccisione. Il testo, come spesso le scritture per il teatro dei francesi, è politico con ironia, decisamente cartesiano e cosmopolita (alla fine, però, non si capisce bene la necessità di riprendere questi due personaggi, in una storia cui manca forse l’esemplarità della parabola). Timpano e Frosini scelgono di rievocare questa farsa che diventa tragedia sulla spinta di una loro (soprattutto di Timpano) ispirazione a fare i conti con personaggi della storia morti e controversi. Ricordiamo un Dux in scatola, sul trafugamento del cadavere di Mussolini, il Risorgimento Pop con Mazzini mummificato, Aldo morto, un dolente viaggio nell’affaire Moro, e perfino uno Zombitudine, dove i morti si moltiplicavano e dilagavano tra noi. Come negli altri lavori, dal grottesco presente scaturisce un senso di desolata pietas finale per i corpi uccisi, offesi, pur senza le identificazioni personali, abissali di Aldo morto. Tutto il ridere o il sorridere con ghigno sulla storia, per Timpano e Frosini, è uno scorticarsi, un ridere di sé e della fragilità umana in genere; il suo dinoccolato stralunamento è una domanda sulla nostra natura umana profonda, ambiziosa e feroce, poco capace di gentilezza amichevole.

 

PierGiuseppe Di Tanno.


Di notte, nella tensostruttura, poi, l’ultimo giorno, è apparso il miracolo, come capita solo ogni tanto. Un attore che indossa un fantasma, tanti fantasmi, con una maschera di Arlecchino che sembra un Morto, o di una Morte che ricorda Arlecchino, la commedia e il furore della tempesta, il viaggio nel vuoto siderale della vita di tutti i giorni. PierGiuseppe Di Tanno è una bomba scenica: alto, asciutto, potente, capace di travolgerti con una tirata, di sospenderti con uno sguardo, di travolgerti con l’ammiccamento, con il parlar sospeso, allusivo. Il suo regista si chiama Roberto Latini in Sei. E dunque, perché si fa meraviglia di noi?, variazione lunare sul finale dei Sei personaggi in cerca di autore, un'altra tappa del corpo a corpo dell’attore e autore di Fortebraccio Teatro con Pirandello (leggi qui sui precedenti Giganti della montagna, ma anche sul pirandelliano Teatro comico di Goldoni), ossia sul dissolversi della fiducia nella rappresentazione, con tutto il dolore per la fine (o lo svuotamento) del consolante, cullante, involucro della maschera. 

 

Roberto Latini.


Recita, Di Tanno, didascalie e battute dello sprofondamento del testo di Pirandello imbalsamato su un trespolo, con un telo bianco di sfondo di tanto in tanto scosso dai turbini prodotti da una macchina del vento, con le luci di Max Mugnai che rivelano altri mondi, retrobottega indicibili, in attesa del finale di proiezioni di scritte, come un angoscioso film muto, e di schiumose salottiere futili sorprese tra i suoni come sempre avvinghianti di Gianluca Misiti. È una bottega ben sperimentata questa pirandelliana di Latini, che a Castiglioncello, luogo di vacanza dello scrittore, sfoggia un aspetto fisico che lo rassomiglia sempre di più. Tale bottega non si esaurisce mai nella maniera, vivificata da un’invenzione che sa di profondo dolore interiore e speranza in quell’arte della menzogna che è il teatro, e dalla luminosa, diabolica, carica di fascinazione, epifania dell’attore, PierGIuseppeDi Tanno.

 

Le immagini sono ritratti degli artisti, in un festival del volto umano. Quella della Homepage è una foto di scena da Sei, scattata da Antonio Ficai.

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