Visioni d’artista / Dewey Dell e la Caverna Chauvet

“Un ingresso nelle parti cave”. Questa espressione accompagna Ermanna Montanari nello svelare Enter, “chiamata agli artisti in forma di festival” cui l’attrice del Teatro delle Albe ha dato vita a Ravenna questa primavera. Con una dedica a Cristina Campo, tesa a onorare l’imperdonabilità degli artisti nel proprio rispondere a una bellezza verticale, si è guardato a figure e opere seguendo la via di uscita allo scoperto di qualcosa che ribolle nel profondo. Tra le presenze di Enter – oltre a Lucia Calamaro con La vita ferma, a Mimmo Borrelli con Napucalisse, a Yuri Ancarani con The Challenge – la giovane formazione teatrale Dewey Dell (composta dai fratelli Agata, Demetrio e Teodora Castellucci e Eugenio Resta) con il più recente esito della propria composizione sonora e coreografica, Sleep Technique, ispirato alla vertigine generativa emanata dalla celebre Caverna Chauvet, custodia di tracce d’arte paleolitica e senza tempo. 

 

 

Scoperta nel 1994 dagli speleogi-archeologi Jean-Marie Chauvet, Éliette Brunel Deschamps e Christian Hillaire a Vallon-Pont-d’Arch, in Ardèche (Francia), la caverna conserva le pitture rupestri più antiche al mondo per quanto riguarda l’arte rappresentativa, essendo stata perfettamente sigillata da una frana e rimasta dunque murata e inaccessibile a uomini e animali per migliaia e migliaia di anni. I capolavori di questa sorta di santuario ctonio che si estende per cinquecento metri – la caverna viene nominata “la Cappella Sistina preistorica” ed è immortalata, tra gli altri, da Werner Herzog nel documentario Cave of Forgotten Dreams – risalgono a trentaseimila anni fa, al periodo Aurignaziano: si tratta di quattrocentoquarantasette dipinti di animali di quattordici specie diverse. 

Attratti da questo scrigno – incontrato sul sentiero di una ricerca che il gruppo aveva avviato verso l’archeologia del movimento – i componenti di Dewey Dell hanno sentito aprirsi nuove domande attraverso il tempo e lo spazio nell’orbita dell’atto creativo. Ispirandosi alle riflessioni di Hans Blumenberg, hanno guardato alla caverna come antro uterino, luogo di segretezza e atavica organicità, in cui persiste una relazione con l’assente e dove si cova una “nostalgia per l’oceano”. Il loro approccio a questa eredità artistica si è da subito focalizzato sugli aspetti scientifici che negano qualsiasi esoterismo o utilità sociale di quelle opere, a favore di una sorta di ipnosi che potesse scaturire nel “porsi di fronte alla visione per quello che è”.

 

Riportiamo qui alcuni passaggi del racconto che Teodora Castellucci ha intessuto nel corso di incontri pubblici tenutisi tra marzo e aprile al Teatro Comandini di Cesena (per Puerilia, giornate di puericultura teatrale dirette da Chiara Guidi), e al Teatro Rasi di Ravenna (per Enter) in occasione di un dialogo con Silvia Bottiroli. 

 

 

Loro sono stati qui. Tracce di un amore arcano

 

Tra le testimonianze degli speleologi che l’hanno scoperta ci si emoziona nel leggere come, entrando nella Caverna e vedendo i primi segni sulle pareti, questi caddero in ginocchio in lacrime, sapendo che “loro” erano stati lì. 

Loro… è strano come, quando parliamo di homo sapiens sapiens, ci si crei un’idea di relazione familiare. Ed è inevitabile avvertire, dentro le grotte dipinte, un amore arcano, che ci lega a loro come a dei nonni che non abbiamo potuto conoscere. Scopriamo tra l’altro, nel corso degli studi, che l’unico aspetto che oggi ci differenzia da quella dimensione dell’umano è la sfera tecnologica. Non vi è alcuno scarto emotivo tra loro e noi: ci accomuna il medesimo sentire.

 

Il passato ci guarda allo stesso modo in cui noi lo guardiamo

 

Abbiamo deciso di lavorare sulla Caverna Chauvet cercando di restituire l’atmosfera sconcertante di quel luogo capace di far scomparire l’abisso del tempo in un lampo. È come se la Storia, tutto ciò che pensiamo di lontano da noi, lì dentro non fosse esistita. L’unica cosa che persiste sono i disegni: arte che i nostri primissimi familiari ci hanno lasciato. Per assurdo, quel luogo unisce i massimi estremi storici: l’era glaciale e il presente, noi e loro. Tutto ciò che è avvenuto nel mezzo, lì dentro non è mai accaduto. 

Le tracce, le impronte, i segni delle mani, i marchi lasciati dalle torce sulle pareti, le ceneri di fuochi che sembrano essere stati accesi ieri, ci riempiono di emozioni contrastanti. È un luogo in cui il volume del tempo sembra non esistere. 

Il passato ci guarda allo stesso modo in cui noi lo guardiamo. E si innesca per noi un dialogo inesplicabile con quegli artisti. Un dialogo silenzioso, consistente in uno sguardo reciproco, teso, capace di bruciare i millenni.

 

L’arte ha una storia?

 

Le fotografie di questi disegni stupefacenti non rendono a sufficienza la geniale tridimensionalità ottenuta attraverso lo sfruttamento della morfologia delle rocce con esito scioccante. Gli animali sembrano venirti addosso, soprattutto mentre si cammina avanzando verso di loro, sembrano creare un incontro. Possiamo immaginare quanto la luce tremolante delle torce di fuoco desse la parvenza che questi animali corressero, si muovessero, aprissero la bocca, oppure che fossero pronti per attaccare le prede o per girare la testa verso chi li osserva. Di fronte alla perfezione anatomica, le sfumature, il senso (quasi futuristico) di movimento e la prospettiva accurata che caratterizzano questi capolavori non possiamo non chiederci se l’arte abbia mai veramente avuto un’origine, un inizio e, dunque, un’evoluzione. L’arte ha una Storia? E, se anche l’avesse, questa scoperta non ne vanifica ogni logica?

 

 

La cultura come una falla nella selezione naturale

 

Tra le riflessioni di Blumenberg sulla società preistorica ci ha guidato la visione dell’artista come il malato, l’inetto della comunità, che, incapace di procurare cibo per la sopravvivenza, veniva messo al sicuro là dentro e sviluppava immagini attraverso i racconti del fuori che gli venivano riportati dagli altri. Questo fa luce su una questione capitale: la selezione naturale fu messa in crisi dalla cultura. Se il debole, il parassita della comunità, riusciva a farsi valere attraverso azioni che non riguardavano la caccia e la difesa, ecco allora la prima crepa, ecco la cultura come un affronto verso il più forte. La cultura rimarrà sempre una ‘congiura’ contro la standardizzazione esclusiva dell’umano in virtù dei più dotati, dei più utili, i più forti, senza i quali per altro non si potrebbe vivere. E perché allora i forti non hanno ammazzato i deboli? Perché erano figli delle stesse madri. Se non fosse stato per la predilezione delle madri per i loro figli e la protezione di un luogo naturale come la caverna, la permanenza dell’artista sarebbe stata impensabile.

 

Riuscire a darsi all’immagine

 

È interessante capire come l’idea della visione di opere nella caverna sia indissolubilmente legata anche ad altri sensi. Il freddo costante all’interno della grotta, l’umidità, il buio pesto e il pensiero fermo di tenere sempre bene in mente dove si trova l’uscita, sono costanti che accompagnano lo sguardo. Per entrare in questi luoghi si deve strisciare in cunicoli stretti e fangosi e se ne esce completamente ricoperti di fango. Tutto questo porta a un modo di visitare opere d’arte completamente diverso da quello che si pratica in un museo. Nella Chauvet poi, più si entra all’interno della grotta più si inizia ad accusare mancanza di ossigeno, rischiando lo svenimento. Per questa ragione quando si raggiunge la Sala Finale – ritenuta la più sacra, dove è rappresentata l’unica figura umana, altrimenti paurosamente assente – si sentono leggeri capogiri. Molto interessante considerare come questa sensazione fisica di impotenza accompagni la visione del mistero della bellezza. Il tempo trascorso all’interno della grotta si fa sogno.

E il nostro totale ‘darci’ a questi disegni senza essere in grado di avanzare commenti o giudizi di alcun tipo (vista l’impossibilità di avanzare ipotesi di pensiero riguardo a quest’arte) ci pone in un modo completamente nuovo di fronte alle immagini. Forse per la prima volta riusciamo, in modo naturale e spontaneo, a darci all’immagine anziché impossessarcene con postulati o commenti.

 

Rendere presente l’assente: una relazione “pre-extra-postlinguistica”

 

L’immaginazione all’interno della caverna finisce con l’essere insieme un’entrata e un’uscita rispetto alla totalità del reale che è fuori. Quali siano le funzioni magiche o cultuali di quelle immagini non lo sapremo mai, ma il loro riferirsi ad altro, all’assente, è indubbio. Là dentro, come specifica bene Blumenberg, è in atto una relazione “pre-extra-postlinguistica” con il concetto, tale da rendere presente l’assente. 

 

 

Sleep Technique

 

L’ingresso nella caverna è una nascita al contrario, un ingresso claustrofobico in un ventre, un luogo che permette una fuga dalla realtà e dal pericolo; che consente un sonno più tranquillo e dunque di sognare, di ricordare i sogni e immaginare cose mai accadute. Non offre in sé cibo o calore, ma offre riparo e oscurità in cui dar forma a ciò che deve essere sottratto al reale. Proprio come nel teatro, dove il buio iniziale ci permette di fare piazza pulita e creare da capo. Il buio e la cultura del sonno hanno contribuito allo sviluppo dell’arte dentro la caverna. Il titolo inoltre porta in sé la parola ‘tecnica’ che ci ricorda l’antico termine greco τέχνη che significava arte, seppur con connotazioni diverse da quelle contemporanee. 

 

Un viaggio verso l’uscita

 

Le pitture rupestri – cavalli, orsi, rinoceronti e molte altre razze animali rappresentate in complicate scene di caccia, di corteggiamento, di lotta, anatomicamente perfette, con la presenza di un solo disegno raffigurante la parte inferiore di un corpo umano femminile – sono state l’ispirazione principale per la creazione coreografica, ma l'obiettivo non era di riprodurle o di dar vita agli animali raffigurati. Lo scopo della nostra ricerca è stato quello di consentire una coreografia che sorgesse dalla sfera di emozioni che ogni disegno innescava dentro di noi. Vi è poi una profonda esplorazione sociale alla base della coreografia, espressa come una catena di eventi sperimentati da una piccola comunità di persone e articolata attraverso le relazioni familiari. Un’ulteriore tensione è stata quella di attuare una continua trasformazione delle figure sul palco: sono esseri umani della comunità, sono animali e rocce, il tutto mentre la loro vita quotidiana interrompe bruscamente il proto-teatro che questi hanno iniziato. Inoltre, la topografia stessa della grotta è incorporata nella drammaturgia in forma di capitoli corrispondenti alle camere della caverna, creando una sorta di viaggio immaginario dalla parte più profonda verso l'uscita.

 

Il riverbero della roccia

 

Dallo studio dei disegni degli animali è inoltre possibile notare come la maggior parte delle raffigurazioni abbia la bocca aperta, come se emettessero versi precisi. La caverna doveva riempirsi di suoni nei momenti in cui, come spiega Dominique Baffier, la comunità si poneva al cospetto delle scene raffigurate. Per la musica dello spettacolo Demetrio Castellucci – in collaborazione con Massimo Pupillo, bassista del gruppo jazz sperimentale ZU – ha cercato di districare e di decifrare le fittissime raffigurazioni di animali in un percorso in cui la creazione sonora richiama i movimenti e questi a loro volta influenzano la composizione musicale, che si avvale di: corde del basso elettrico, suoni reali di rocce, elementi di acqua, e fenomeni legati alle tecniche del sonno come il suono del phon (che è il suono più simile a ciò che sente il feto, un rumore bianco, che otterremmo se sommassimo tutte le frequenze al mondo e che concilia, appunto, il sonno), così come il vento registrato in modo disturbato, il coinvolgimento di un fischiatore professionista e quello di un cantante death metal alla cui precisa tecnica vocale abbiamo fatto appello per richiamare i graffi degli orsi che si trovano su queste rocce. È curioso sapere che studi di archeologia acustica rintracciano nei luoghi della Caverna in cui ci sono i dipinti i punti di maggiore riverbero sonoro: la consistenza parietale che assorbe meglio il colore è la stessa che riflette meglio il suono.

 

 

Qualcosa che rimarrà sempre sconosciuto

 

La coreografia è ricca di ponti all'indietro. Andare indietro con la schiena rappresenta un’azione verso ciò che è sconosciuto; abbiamo confidenza e familiarità con la nostra parte del corpo frontale ma appena tentiamo di spingerci all’indietro nella posizione del ponte, subito avvertiamo paura. Della nostra parte del corpo posteriore non abbiamo esperienza, ci sorprendiamo sempre dal vederci la nuca o la schiena in una fotografia o in un video: è come se non ci conoscessimo. Il ponte ricorda una sorta di viaggio verso qualcosa che non si conosce e che rimarrà sempre parzialmente sconosciuto: le nostre origini.

 

Sleep Technique andrà in scena al Teatro dell’Arte della Triennale di Milano il 19 aprile, al Teatro delle Passioni di Modena il 4 Maggio e al Teatro Contatto di Udine il 7 maggio.

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