Tra finzione e realtà / Fisionomia dello scandalo

20 Luglio 2018

Che cos’è uno scandalo? Il termine suona oggi un po’ rétro, e questo echeggiare, tuttavia, ha le sue ragioni. Forse, viviamo nell’epoca del post-scandalo, quello in cui nessuno si scandalizza più (ma, attenzione, lo cantava Celentano già negli anni 60), e cioè in tempi in cui s’è introiettata un’indecenza che, divenendo pane quotidiano, non turba manco le anime più sensibili e leggiadre. Se tutto è scandaloso, nulla lo è. Il problema semmai è il post-scandalo, ossia l’aver spostato la passione pubblica verso una sconcezza che, perdendo di significatività, finisce per annullare i suoi nemici storici: l’indignazione e l’esigenza di moralità. Siamo tutti indignati di tutto, siamo abituati a tutto: siamo irrimediabilmente blasés. L’indignazione al potere (marca forte dell’attuale politica in molti Paesi europei e no) genera sonni istituzionali e insopportabili rialzi dello spread

 

Bene ha fatto perciò Clotilde Bertoni, nota studiosa di teoria letteraria e letterature comparate (suoi Percorsi europei dell’eroicomico e Letteratura e giornalismo, come anche la cura dei racconti di Svevo e di molta corrispondenza di Croce), a porre la questione – esplicitamente e implicitamente – nel suo nuovo, bellissimo libro Romanzo di uno scandalo (Il Mulino, pp. 382, € 29), ricostruendo a tutto tondo il caso, topico nella storia italiana, del cosiddetto scandalo della Banca romana: una complessa e torbida vicenda di corruzione della classe politica da parte di alcuni istituti di credito (primo da tutti, appunto, la Banca romana) che scosse l’opinione pubblica nell’ultimo decennio dell’Ottocento, vedendo coinvolti altissimi personaggi pubblici come Francesco Crispi e Giovanni Giolitti, e una miriade di figure di minore spessore ma di fortissima influenza negli ambienti finanziari e parlamentari, finendo per sfiorare anche la Chiesa e i Savoia. Un caso che interessò parecchio anche gli intellettuali europei: Friedrich Engels, attraverso Antonio Labriola, se ne teneva costantemente informato. 

 

 

Leggendo con particolare attenzione i resoconti parlamentari, le carte processuali e i giornali dell’epoca, e incrociando questo materiale con la produzione letteraria che a questo episodio si è ispirata, Tilli Bertoni mostra come dinnanzi a casi del genere (specifici in sé, ma esemplari di tanti altri) occorra assumere una mentalità al tempo stesso aperta e rigorosa. I primi suoi due nemici, diciamo così, epistemologici, sono chiari. Da una parte la “memoria corta” che genera una “vulgata imprecisissima”, da cui derivano le quattro righe che su questa vicenda tutti abbiamo letto a suo tempo nei manuali di storia del liceo o – per chi li ha presenti – in alcuni densi passaggi di I vecchi e i giovani di Pirandello o di Roma di Zola. Sulla vicenda in questione, come spesso accade, s’è detto di tutto e di più, finendo per ammantarla di un’aura tanto leggendaria quanto vaga: “la storia – leggiamo nel libro – arriva alla ricezione sempre mediata da affabulazioni e mitologie”, al punto che “gli scritti di cronaca e quelli di finzione da essa scaturiti spesso seguono logiche narrative affini”. Una ricostruzione attenta dei fatti, pertanto, non può che giovare tanto alla memoria storica quanto al suo valore antonomastico, verrebbe da dire didascalico. D’altra parte, l’intero libro dimostra molto chiaramente l’enorme difficoltà nel tenere separati il discorso letterario da quello storico, o, se si preferisce, il registro comunicativo della finzione da quello che dovrebbe invece restituirci la concretezza dei fatti. Al punto che nel sottotitolo del libro – “La Banca Romana tra finzione e realtà” – il termine più di rilievo è sicuramente il “tra”, il quale indica quell’enorme universo semiotico che, stando a mezzo fra i due estremi polari, finisce per annullarli, o quanto meno per dimensionarli parecchio. 

 

E questo per più ordini di ragioni. Innanzitutto, scorrendo con estremo puntiglio le vicende dello scandalo della Banca Romana e i personaggi che ne furono protagonisti, Tilli Bertoni sottolinea di continuo, e non potrebbe non farlo, come la gravità dei fatti raccontati abbia una natura intrinsecamente teatrale, e assai comica: la magagna diventa vaudeville, le accuse reciproche assumono toni da melodramma, le scelte politiche e giudiziarie appaiono a dir poco surreali. Figure storiche come Cavallotti e Colajanni, da un lato, Nicotera e Grimaldi, dall’altro, finiscono per far sorridere, di modo che la serietà dei fatti e la pesantezza delle colpe finiscono per diventare una gigantesca farsa. Crispi, il celebre garibaldino che, appena al governo, diviene iperreazionario e stronca nel sangue la rivolta contadina dei Fasci siciliani, viene da tutti chiamato don Ciccio, e chiede di continuo soldi alle banche per campare nel lusso innumerevoli amanti. Tutto ciò ha un che di romanzesco e travalica i criteri di verosimiglianza del senso comune. Non a caso, quando gli scrittori decidono di traghettare queste vicende e questi personaggi nel testo letterario, assumono due tipi di atteggiamento: o restano all’interno delle cose, prendendo enfaticamente posizione per gli uni o per gli altri, oppure, paradossalmente, si trovano a dover ridimensionare la realtà effettuale per renderla credibile.

 

Tutto il resto è “tra”, ed è un universo mitico ricchissimo e appassionante costituito da processi comunicativi, enunciati linguistici, forme di discorso e tipi di testo assai variegati. Le strategie del sapere passano per una pletora di mosse e contromosse che fanno dello scandalo un fenomeno intrinsecamente semiotico, un bricolage assai inventivo di segni e segnali che, a partire dalla classica posizione simmeliana di un segreto che s’arricchisce di senso tanto più lo si nasconde, esplode giungendo al siparietto finale dei giudici che assolvono tutti non senza dotarsi, com’è tradizione, del necessario capro espiatorio. Nel corso del libro tornano di continuo parole come (elenco in disordine): inchieste, cronache, interrogazioni, dibattimenti

sospetti, dubbi, imputazioni, indignazioni, proclami, invettive, sussurri, interpellanze, documenti (scritti e secretati), faldoni, carte (compromettenti e riportate alla luce), missive (mal nascoste), denunce, interrogatori, verbali, relazioni, affermazioni e negazioni, attacchi, contestazioni, invocazioni, smentite e contraddizioni, perorazioni, insinuazioni, voci, pettegolezzi, elogi, omaggi, appunti (criptici e disordinati), biglietti, bigliettini, plichi, documenti, dichiarazioni, panegirici, requisitorie, deposizioni, testimonianze, riscontri (incontestabili), confronti, congetture, insinuazioni, arzigogoli, silenzi (assai significativi), ammissioni, lettere clandestine (nascoste in pagnotte), telegrammi, opuscoli, articolesse, metafore (“pesci grossi”, “canarini in gabbia”), vortici surreali, dinamiche teatrali, colpi di scena… e potremmo continuare. L’ondata retorica, dice a proposito Tilli Bertoni, sommerge ogni richiamo alla logica, e il processo si fa spettacolo. Non a caso l’autrice intitola la gran parte dei capitoli e dei paragrafi del libro con frasi fra virgolette, che restituiscono un’enfasi che è nelle cose, o se si vuole: fra le cose, prima ancora di passare nella cosiddetta finzione letteraria: “La piaga orrenda”, “La febbre dei subiti guadagni”, “Qualcosa di grossolano”, “Non possiamo non acchiappare i bricconi principali!”, “Ma che cosa fa il popolo?”, “Le questioni morali non si possono soffocare”, “Campo aperto per gli imbroglioni e i ciarlatani” e, immancabilmente, “La verità, null’altro che la verità”.

 

È l’Italia di sempre, la nostra come quella di allora: cosa tutt’altro che consolante ma dalla quale, quanto meno, possiamo trarre molti insegnamenti e qualche indicazione operativa. Sia sul piano della prassi politica sia su quello dei modelli d’interpretazione dei fatti umani e sociali, politici e culturali. Nelle prime pagine del libro Tilli Bertoni propone di distinguere due tipi di scandali: quelli che riguardano le libertà civili, le regole del costume e la morale sessuale, ripresi e amplificati spesso dalla letteratura (Flaubert, Wilde, Baudelaire, Celine…), che scuotono a poco a poco l’opinione pubblica, finendo per generare trasformazioni etiche profonde; e quelli che riguardano l’economia, la politica, la legge, le istituzioni, i quali vengo rilanciati a fatica dalla buona letteratura, di modo che, dopo un gran rumore iniziale, si rivelano i classici fuochi di paglia e si spengono nel nulla. Ecco, forse una differenza fra quel periodo e l’età del post-scandalo, l’oggi, potrebbe stare nel fatto che la differenza fra queste due forme di indecenza è venuta meno. Nel senso deteriore: il nulla di fatto regna sovrano. E la letteratura fa quel che può.

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