Country dark / Il sogno cupo di Offutt

5 Luglio 2018

“La linea degli alberi era sparita e la cima delle colline si confondeva con l’arazzo scuro della notte. Era nero come la pece, com’è sempre in campagna. Chiuse gli occhi sentendosi al sicuro.”

Capita, se siamo particolarmente fortunati, durante la lettura di un libro di commuoverci o di avvertire – ad esempio – un dolore fisico; quasi mai non sapremo collocare quei momenti in un punto preciso del racconto, è più facile che arrivino a coacervo di una serie di pagine, di azioni svolte dai personaggi, dall’alternanza dei capitoli, dal passo e dal ritmo che l’autore imprimerà alla storia. In Country dark di Chris Offut (trad. Roberto Serrai, minimum fax 2018), la commozione, la pietà e il dolore esplodono in un punto preciso del romanzo. 

 

Ci troviamo nel 1964, all’inizio della seconda parte del libro: una coppia di pubblici ufficiali, Hattie e Marvin (oggi li chiameremmo assistenti sociali), si reca a casa della famiglia di Tucker, il protagonista (noi lo abbiamo lasciato un paio di pagine prima e una decina d’anni più indietro quando sta per sposare la sua Rhonda) e vengono accolti da Jo, una delle figlie, che li avverte del fatto che la madre non sta benissimo. Entrano in casa e Chris Offutt prende in mano la telecamera e ci fa girare angolo per angolo, con gli occhi di Marvin che in quella casa non c’è mai stato. Esploriamo le stanze e troviamo Big Billy un bambino idrocefalo, steso supino in un letto; Bessie, una neonata che non reagisce ad alcun segnale; Ida e Velmey di cinque e tre anni anche loro bellissime e pulite ma non normali secondo i parametri standard. Esplodiamo di dolore e commozione perché diventiamo Rhonda, sentiamo sulla pelle il suo disagio e il suo amore, il modo in cui cerca di rassicurare e di rassicurarsi, di impedire che i figli le vengano portati via per essere destinati in strutture sanitarie. Avvertiamo il dolore perché abbiamo lasciato Tucker e Rhonda e le loro promesse di felicità per ritrovarli poco dopo in mezzo al tutto il dolore del mondo; l’unica cosa che non è cambiato è l’amore, è forte com’era.

 

 

“Per lui i sogni non importavano granché, ma tutti volevano sempre che i propri significassero qualcosa.”

Tucker invece aveva sognato a modo suo, lo abbiamo conosciuto nel 1954, reduce della guerra di Corea, considerata quasi una guerra minore, nascosta dall’ingombro di quella del Vietnam che sarebbe arrivata non molti anni dopo. I reduci però i segni li portano addosso e sognano il modo migliore per tornare a casa. La casa di Tucker è il Kentucky, terra luminosa e oscura allo stesso tempo, dove ogni baracca è una casa e ogni casa è un confine. Qui ogni essere umano è una frontiera e quando si muove trascina tutto con sé, nel bene e nel male. Tucker fa molte miglia a piedi, tra i boschi, per tornare a casa. E mentre riassapora qualcosa che non aveva dimenticato: “Chi non riusciva a sopravvivere nei boschi non meritava neppure di respirare”, incontra Rhonda, che ha solo quindici anni ed è bellissima, ed è da salvare, da portare via. Tra gli alberi e tanta ingenuità si promettono amore, parlando poco o nulla. Tucker è un silenzioso, Rhonda è una che i silenzi li asseconda, un amore che non li abbandonerà qualunque cosa accada.

 

Chris Offutt è uno scrittore molto bravo, sconosciuto in Italia fino a qualche mese, quando è uscito Nelle terre di nessuno (trad. Roberto Serrai, minimum fax 2017), composto da nove racconti bellissimi, in cui il paesaggio del Kentucky domina insieme a personaggi che sembrano perduti ma con la possibilità di un riscatto anche minimo poco più avanti; e il riscatto può essere anche solo una serata in cui qualcuno ti salva dalla solitudine, e il riscatto può arrivare da un bambino che decide contro l’opinione (e gli sfottò) di tutti di iscriversi a un corso di formazione, e il riscatto è nel rapporto tra uomini e animali, e il riscatto è una birra, è una vendetta, e il riscatto è in una strana saggezza e nel modo in cui ci viene raccontata. Il riscatto è concesso dall’esattezza della lingua con cui Offutt scrive; è molto preciso, i personaggi sono ben delineati, la sua è una sintesi che non è minimalista ma quasi fotografica, quel che scrive balza sotto forma d’immagini davanti ai nostri occhi, come se fossimo al cinema, solo che si tratta di ottima narrativa.

 

La storia di Tucker e Rhonda va dal 1954 e al 1971, si ameranno sempre. Lotteranno ciascuno con le proprie armi per difendere quello che hanno, i figli, la casa, il lavoro, che poi è traffico illegale di liquore, ma da quelle parti è un’attività quasi onesta ed è inevitabile. Riusciranno e falliranno, perché così vanno le cose, e ci faranno sentire come nostro quel piccolo pezzo d’America di cui così poco sappiamo; e con loro scopriremo una serie di altri personaggi duri e complicati, stupidi e geniali. Su tutti spicca Hattie, lesbica alla fine degli anni ’50, che deciderà per tempo che è meglio lottare per quello che sì è e che si vorrà essere anziché accontentarsi di un lavoro sicuro e del silenzio. Decideranno sempre insieme anche quando ci sembrerà che sia solo Tucker quello forte, quello che sceglie. Nei momenti più dolorosi, quelli del distacco dai figli o tra di loro, troveranno sempre qualcosa che somiglia a una speranza nella parte più profonda del cuore e da quella ripartiranno, tutte le sere, una volta da una cella, l’altra da una veranda. 

“«Guarda», le disse. «Le formiche si mettono al riparo e chiudono le porte. Un libro non è l’unica cosa che si può leggere. È meglio muoversi se vogliamo proseguire».”

 

Offutt scrive un romanzo cupo e dolce allo stesso tempo, è quello il suo segreto. La violenza e la vendetta sono bilanciate – e trovano una sorta di giustificazione – dall’amore e dalla fiducia. Tutto si compie dentro un grande miraggio che si risolve prima di ogni alba, nel buio più nero tra il Kentucky e l’Ohio, tra l’America e noi.

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