Quattrocento elettroshock / Janet Frame: la vita negli oggetti

12 Giugno 2017

La vita della scrittrice neozelandese Janet Frame è diventata molto nota al grande pubblico grazie al film Un angelo alla mia tavola che la regista Jane Campion, anch’essa neozelandese, negli anni ’90 ha tratto dall’omonimo libro della Frame. Un angelo alla mia tavola non è solo un’autobiografia e non lo è tutta la sua prosa: i suoi sono libri in cui compare sempre la scrittrice come rifratta in cento altre Frame protagoniste perché lei, ancor più che in Virginia Woolf, è stata un’autrice prigioniera della sua biografia.

 

Si potrebbe raccontare la sua vita attraverso gli oggetti che appaiono nella sua prosa: sono oggetti desueti che possono dividersi in oggetti reali o creazioni della sua mente. Più che oggetti potremmo chiamarli cose per la carica simbolica e affettiva che hanno, cose come persone, affetti, visioni talvolta, non di rado feticci dal potere spirituale. Nella letteratura del Novecento di molti paesi alle cose sono riservati lunghi elenchi, come nella poesia di Borges o in Neruda, la loro presenza è massiccia. In Frame compaiono solo alcune cose con una rilevanza di correlativo affettivo.

 

Frame nasce nel ’24 in una famiglia molto povera, il padre lavora nella ferrovia e spesso la famiglia sposta la propria residenza seguendo la costruzione della rete ferroviaria: tutte le casesono piccole baracche desolate in mezzo al verde, baracche che la madre ogni volta rende un luogo di fantasia con accorgimenti poveri ma fiabeschi. Janet è la più piccola dopo un fratello epilettico e tre sorelle; le quattro sorelle dormono insieme in un unico letto.

 

Il primo oggetto che caratterizza la narrativa della Frame è la “corda”, quella che le compagne di scuola girano per saltarci dentro durante l’intervallo. Janet passa gli anni della scuola primaria sognando non di esser chiamata a saltare ma solo di poter tenere la corda e girarla affinché le altre ci saltino dentro. La corda è un oggetto che riverbera tutta l’infanzia della protagonista: povera, molto povera, piena di tic, sporca, spesso additata dalla maestra come quella sporca, con una unica gonna, eredità di famiglia, indossata per anni, grassottella, riccissima, rossa di capelli, piena di efelidi, con un fratello maggiore con frequenti crisi epilettiche a scuola. Janet è una ragazzina che vive in solitudine e che sogna di esser accolta dai suoi compagnucci, sogna di girare quella corda ma nessuno mai la inviterà a farlo.

 

Fino a quando una compagna di scuola le propone di prestarle un libro, e “libro” diventa la seconda cosa della realtà con un profondo significato. Sono le Favole dei Fratelli Grimm che aprono una nuova prospettiva di vita a Janet: quella della lettura, dell’esperienza attraverso la lettura, della fantasia ma soprattutto la strada per ritrovare la sua vita dentro la letteratura: “mentre leggevo la storia delle Dodici Principesse e loro ascoltavano [le sorelle], sapevo e loro sapevano, trionfalmente, che le Dodici Principesse eravamo noi…non dodici ma quattro; e mentre leggevo, vedevo con gli occhi della mente l’armadio dei cappotti nell’angolo della camera da letto da dove avremmo potuto scomparire nel mondo sotterraneo […]”. La vita di Janet si dispiega lettura dopo lettura, prestito di libro dopo prestito di libro dalla biblioteca scolastica fino a quando, dopo aver vinto un premio, ha l’accesso alla grande biblioteca di città da dove porta a casa libri per tutta la famiglia.

 

 

Vince un premio? Sì, perché cambia maestro a scuola, è questo un maestro che non vede Janet come la scolara sporca e povera e inizia a leggere con curiosità i suoi temi di scuola. Janet scrive e scrive, il maestro la segue perché “credeva che ogni bambino avesse qualche dono particolare e spettasse a lui, come maestro, dare a ognuno l’opportunità di scoprirlo”. In questo tempo compare un oggetto di una potenza inaudita per tutto il futuro di Janet: “un taccuino”. Il padre per incentivarla a scrivere le porta “un taccuino delle ferrovie dall’ufficio del capomacchinista perché ci scrivessi le mie poesie”. La scrittura di Janet è inarrestabile, come la sua sete di libri, conoscenza, studio. Diventa una studentessa molto brava, tanto da vincere varie borse di studio e iscriversi, in un’altra città, all’università per diventare a sua volta maestra.

 

Ma gli anni di formazione, trascorsi nella povertà e nell’isolamento, lasciano il segno, soprattutto nel pensiero degli altri; così, nonostante i successi scolastici Janet rimane una ragazza timida, introversa, che fa una gran fatica a relazionarsi. Un’altra cosa-concetto fa capolino per la prima volta ora, o piuttosto si fa nome quell’atteggiamento che lei ha sempre subito dal mondo: “diversità”. Un marchio, una predisposizione, una scelta, una condanna: “[…] e quando quell’idea di «diversità», datami dagli altri, in un periodo in cui non conoscevo me stessa ed esitavo a farlo perché non ero un tipo introspettivo, venne rafforzata dall’osservazione della Signorina Gibson, finii con l’accettare quella diversità; anche se nel mondo della scuola, essere diverse dignificava essere strane, un po’ «matte».

Qualche atteggiamento diverso o strano, un saggio per il suo professore prediletto che aveva chiesto una autobiografia ma che Frame romanza scrivendo di aver tentato il suicidio (omette con tre aspirine) e il ricovero è la strada che l’aspetta.

 

Così come circa quattrocento elettroshock, il “trattamento”, lo chiamano i medici, una “esecuzione” lo definisce lei: il periodo negli istituti è narrato non solo in Un angelo alla mia tavola, ma esiste anche un vero e proprio diario di quegli anni, uscito con il titolo Dentro il muro, per TEA nel ’94, poi Volti nell’acqua, per Neri Pozza nel 2013. In questi due libri gli oggetti della mente affiorano: gli oggetti che Frame immagina non perché pazza ma per la totale assenza di cose con cui dovrà convivere in quegli anni, tanto da doverle così creare. Scrivendo di quegli anni usa spesso la metafora del bambino piccolo che si sveglia in un luogo che non conosce tra persone che non conosce e oggetti non suoi, una metafora resa più atroce quando la riferisce ai suoi risvegli dopo i trattamenti. Il riferimento del bambino nel passaggio dalla notte al giorno, nello svegliarsi, è di virgiliana memoria, di quel presentarsi delle cose con lo sfumare delle tenebre che consente di percepire gli oggetti, la forza della luce che elenca le cose. Solo che in manicomio Janet non ha cose con sé, non può così assistere alla rinascita dell’ordine di parole e cose, dunque le crea. I primi oggetti con una valenza potente sono “perline” e “forcine”: “hanno detto che dobbiamo essere ligi alla Sicurezza perché è quella della Croce Rossa che ci fornirà pomata e bende per le ferite e allontanerà le idee estranee le perline di vetro della fantasia le forcine contorte dell’irrazionale appuntate nella nostra mente”.

 

La “tazza” è invece una cosa reale e diviene un oggetto del quotidiano quasi una prolunga di sé ma anche un segno di distinzione sociale. La tazza è infatti quella in cui le pazienti ripongono la dentiera prima dell’elettroshock e da dove la riprendono quando sono in grado di rialzarsi dal letto. Ma le tazze sono anche quelle del reparto infermieri e medici, contrassegnate appositamente “una tazza speciale che aveva del filo rosso avvolto attorno al manico per distinguere le tazze del personale da quelle dei pazienti, e impedire così lo scambio di malattie come noia solitudine autoritarismo”. Accanto alle tazze, nell’elenco degli oggetti desueti del quotidiano manicomiale, ci sono le “calze di lana” delle quali Janet non può fare a meno durante il trattamento nella convinzione che senza morirebbe di freddo. La calza di lana diviene inoltre un oggetto simbolico del passaggio dalla vita alla non vita dell’elettroshock e del ritorno alla vita, una sorta di oggetto feticcio con un potere accudente molto accentuato: “Metterò delle calze di lana calde ai piedi delle persone in quest’altro mondo, ma non dormo e non riesco a stare sveglia, e vengo scaraventata giù dalla scogliera e resto aggrappata all’orlo con due dita calpestate e schiacciate dal gigante dell’Irrealtà”.

 

Janet cerca di collaborare in manicomio, lava, mette la cera, rispetta i suoi turni, tutto ciò per evitare il trattamento del mattino nel caso in cui fosse disobbediente. Solo che il trattamento arriva comunque, e lei si scervella per capire cosa abbia fatto o non fatto per meritarselo nel piccolo arco spazio-temporale in cui si sta svolgendo la sua triste vita. Allora si consolida nella sua mente un oggetto, l’oggetto a cui si aggrappa e a cui si affeziona per salvarsi: i “guanti”, i guanti che dovrà indossare per fare piano ogni qual volta si affacci ai sentimenti e alle reazioni: “Capii che avrei dovuto essere prudente. Avrei dovuto portare i guanti, per non lasciare tracce quando m’introducevo di soppiatto nella casa stipata di sentimenti e arraffavo esuberanza depressione sospetto terrore”.

 

Il giorno prima della data fissata per la lobotomia il medico di Janet annulla l’intervento e prepara le sue dimissioni dall’ospedale. È un oggetto ancora che la salva: un libro, come quando era piccola. Negli otto anni di manicomio lei continua a scrivere e ogni singolo pezzo di carta lo dà alla sorella durante le rare visite. La sorella invia i suoi racconti a un premio prestigioso e Janet vince: la notizia della sua vincita e del suo libro sono sul giornale il giorno prima della lobotomia. Il medico non la reputa più una persona da manicomio.

 

 

Janet esce, per un periodo vive in un roulotte accanto alla baracca di un noto scrittore dell’epoca, scrivono sempre e si danno consigli. Janet continua a vincere premi in denaro, decide di partire per l’Europa. A Parigi, Londra, in Spagna è una ragazza di nemmeno 30 anni, riccissima, rossa, che cerca di assemblare i pezzi di sé. La contraddistingue, come nella propria infanzia e adolescenza, la “diversità” che sente negli altri come reazione a lei e che sente in se stessa, è una ragazza che “per paura di essere punita o di suscitare reazioni, non osa rifiutare. […], e gran parte della mia vita l’avrei passata a fuggire da una prigione nella quale ero entrata perché “ci ero abituata e l’abitudine è tutto”.

Prima di rientrare in Nuova Zelanda appena trentenne, le restava ormai solo una sorella, Janet a Londra si rivolge a uno psichiatra per capire se la diagnosi di schizofrenia fosse ancora valida. Chiede di essere internata. Lui si rifiuta, la aiuta a cercare un appartamento, a ottenere i permessi per usufruire delle biblioteche londinesi, e le chiede di vedersi a parlare un paio di volte alla settimana. Alla fine di questo periodo le dice che la terapia è finita, che può andare e che “Se non ha voglia di socializzare, non socializzi”.

 

Non è tutto qui il suo messaggio, si amplia consigliandole di scrivere come antidoto al suo passato “avrei dovuto scrivere la mia storia di quell’epoca per ottenere una chiara visuale del mio futuro”. Così l’esigenza del passato, “la più vitale fra tutte le esigenze umane” scrive Simone Weil, da cosa diviene parola e scrittura. Lo scrivere in Janet Frame diviene un congedo dalla realtà che prende attraverso la parola, e al contempo una ricostruzione di una identità frammentata da elettroshock e sguardo degli altri. La scrittura diviene così un modo di riunire tasselli della sua vita e della sua identità, cercando quelle parti di sé che per obbligo alla cura aveva dovuto abbandonare, riassemblando tessere finalmente con le proprie priorità e desideri: “So che alla mia età, allora poco più di trent’anni, la maggior parte delle donne avrebbe avuto l’aiuto di un compagno, di un marito, di un amico. So anche che non esiste «la maggior parte delle donne» e che non essere una di loro, per mancanza di inclinazione o perfino per incapacità non è un fallimento personale: il fallimento sta nelle aspettative degli altri”.

 

Tutta la sua opera continuerà a narrare di oggetti caratterizzanti, di stanze di manicomio, di famiglie numerose e povere, di insegnanti che mortificano o salvano, di bocche di leone e di vestaglie azzurre, di personaggi strani agli altri ma coerenti a se stessi. Un angelo alla mia tavola esce in tre volumi per Interno Giallo Editore nel 1991, la prima edizione di Einaudi esce nel 1996, per Neri Pozza all’incirca dieci anni dopo. Da qualche anno Un angelo alla mia tavola non è disponibile in edizione cartacea. Il libro di racconti con cui vinse il premio che la strappò dalla lobotomia è La laguna, edito da Fazinel ’98 e oggi fuori catalogo. Alcuni suoi altri titoli sono fuori commercio, in Italia la poesia che ha tanto amato e scritto a tutt’oggi non è stata tradotta in volume. Janet Frame muore nella città che l’ha vista nascere, nel 2004. Due volte è stata proposta per il Premio Nobel, è l’autrice neozelandese più nota insieme a Katherine Mansfield. In Italia non la stampiamo e non la leggiamo più, chi l’ha letta e amata continua ad amarla, ma le nuove generazioni non avranno questa grande occasione.

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