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Sulla “Lettera al padre” / Kafka. La vita è qualcosa di più di un gioco di pazienza

16 Luglio 2018

C’è una ragione per cui all’età di quarantaquattro anni mi sono deciso a riprendere in mano Lettera al padre di Kafka, uno dei testi capitali della letteratura di tutti i tempi, la testimonianza più limpida dell’immenso potere che esercita la figura paterna nelle nostre esistenze. La ragione è legata a un recente fatto privato che ha segnato per me l’inizio di una nuova vita, o se vogliamo che ha ricollegato due pezzi distanti della mia vita… like a bridge over troubled water. Nello scorso dicembre, dopo trentasette anni, ho rivisto mio padre; lo stesso uomo con cui, dal tempo in cui i miei genitori si separarono, avevo chiuso ogni rapporto. E da allora non faccio altro che cercare di riposizionare frammenti, con l’abilità, la pazienza e la pinza del mosaicista, e con l’aiuto di tutto ciò che mi viene incontro dall’arte e dalla letteratura. 

 

Sono consapevole che per comprendere appieno un fatto di tale portata, o meglio per metabolizzarne le conseguenze, ho bisogno di strumenti raffinatissimi. E io, ecco, mi ritrovo in un momento della vita in cui sono al contempo padre e figlio. Una condizione tra le più comuni, certo, che tuttavia nel mio caso è del tutto particolare: sono infatti padre da otto anni, ossia dal 2010, quand’è nato mio figlio, e sono di nuovo figlio da appena sette mesi, da quando cioè, dopo essere stato orfano di padre per trentasette anni, ho riallacciato i contatti con l’uomo la cui ombra ha dominato i miei pensieri, il mio carattere, la mia psicologia e i miei comportamenti fin dagli anni remoti della mia infanzia. 

 

Insomma, nel mio caso è inutile tentare di far quadrare i conti. La matematica serve solo a rendere evidente l’impazzimento dei fatti a cui ho dovuto sottostare per gran parte della mia vita. Ecco allora venirmi in soccorso la letteratura. E Kafka, in particolare. Il primo scrivente a cui ho prestato occhi e attenzione in un remoto autunno di tanti anni fa, quando un giorno confessai a mia madre il desiderio di voler leggere un racconto di cui – non ricordo più come e dove – avevo sentito parlare: la cronaca di un uomo che, una mattina, svegliandosi nel proprio letto, si ritrova tramutato in uno scarafaggio. 

Mia madre disse allora che Kafka non era un autore adatto alla mia età. Le chiesi perché, e lei rispose che era un autore importante, difficile. Ma poiché le cose importanti e difficili erano state fino a quel momento il pane duro di cui mi ero nutrito a causa dei disastri famigliari che avevano funestato i miei giorni, le dissi che non m’importava, e che lo volevo lo stesso. Così mia madre mi procurò La metamorfosi. E quello è stato il primo libro in assoluto che ho letto, il latte materno della mia formazione letteraria. Ed è a Kafka che dovevo indirizzarmi per ricucire il tessuto del tempo, gli innumerevoli strappi che da sette mesi, ossia da quando frequento di nuovo mio padre, sto cercando di rammendare.

Lettera al padre inizia come un trattato sulla paura.

 

Opera di Egon Schiele.

 

La paura è la pulsione dominante che Kafka prova di fronte al padre. È al tempo stesso la molla che lo ha spinto a scrivere. Più che un desiderio di chiarimento interiore, più che un dialogo col padre, la lettera è un’analisi profonda di questo sentimento. Un sentimento che, come una malattia, si è esteso in Kafka ben oltre i limiti del rapporto col padre, che lo ha infettato nelle sue relazioni col mondo, fino a renderlo “un essere malaticcio, ansioso, titubante, inquieto”. Gli aggettivi con cui si autodefinisce investono tanto la sfera fisica quanto quella caratteriale, insistono sul confronto tra il temperamento forte del padre, la sua imponenza, e la propria debolezza. 

 

Kafka riporta a galla un ricordo: l’interno scuro di una cabina al mare, il momento in cui la propria nuda gracilità trova uno spaventoso contraltare nel portamento aitante del padre. E ancora l’insicurezza in spiaggia di fronte all’acqua, l’incapacità di imitare i movimenti del nuoto che il padre tenta di insegnargli, lo sconforto più nero in cui il piccolo Franz precipita di fronte all’evidenza del fallimento. Il disconoscimento di sé e del proprio posto nel mondo avviene quindi attraverso la prima e più antica consapevolezza del corpo. Il suo peccato originale è un peccato di natura: Franz non assomiglia al padre, e la sua diversità biologica è il primo tratto da occultare (“Il sollievo maggiore lo provavo quando a volte ti spogliavi per primo e io potevo restare solo in cabina a differire la vergogna della mia comparsa in pubblico”). 

 

Non sappiamo se il padre fosse la causa del male di Kafka, del suo senso di inadeguatezza, o se piuttosto Kafka cercasse nella figura paterna una scorciatoia per giustificare l’acuto dolore che lo affliggeva al cospetto del mondo. Tutta la lettera è un gioco al rovescio in cui Kafka carica dapprima sulle spalle del padre ogni male, per poi far sì che il padre scaraventi sul figlio l’immane fardello, al solo scopo di rendere evidente la sua incapacità di sopportarne il peso. 

Non si può certo dire che il negoziante Hermann Kafka non abbia avuto un ruolo rilevante nella formazione e nella de-formazione del figlio. Nella lettera le sue brutture caratteriali, i suoi metodi oppressivi, danno ampiamente conto di un uomo che doveva essere orribile sotto ogni aspetto. Le fotografie giunte fino a noi ci mostrano un individuo dal collo taurino, dotato di baffi folti, con la fronte bassa e lo sguardo borioso, un sopracciglio leggermente più alzato dell’altro che conferisce all’espressione del volto un che di spudorato, ma anche di capriccioso. Una certa capricciosità del resto la si intravede anche nel ritratto che ne fa il figlio, soprattutto quando si sofferma sulle regole che il padre imponeva e che a sua volta, puntualmente, disattendeva. “Ai miei occhi assumevi l’aspetto enigmatico dei tiranni, la cui legge si fonda sulla persona, non sul pensiero”, scrive Kafka. Poiché i tiranni hanno questo tratto che li accomuna: sono volubili come bambini le cui leggi valgono per il tempo che gli sono utili. La Lettera al padre è quindi, facile a dirsi, anche un atto d’accusa rivolto al potere, a tutte le forme oppressive di potere. 

 

“È chiaro che i tuoi problemi hanno origine da quello che è successo con papà”, mi ha detto di recente mia sorella, alludendo ai miei guai depressivi e al rapporto interrotto con mio padre. “Non ne sono mica sicuro”, le ho ribattuto, raccontandole dello spavento che provavo, per esempio, molto prima che i miei divorziassero e che io entrassi in guerra col padre, quando le suore costringevano noi ragazzini a riposare al buio, dopo pranzo, sulle sdraio colorate, del senso di oppressione e vuoto in cui precipitavo in quegli infiniti pomeriggi, dell’angoscia e del dolore psichico che mi sconvolgevano la mente e il cuore. E tutto questo non ha nulla a che vedere con mio padre, ma forse mio padre ha solo accentuato ciò che di fatto preesisteva in me: una percezione devastata e dolente di me stesso e del mondo circostante che mi è stata imposta attraverso i geni. 

E così non riesco a giudicare Hermann colpevole di tutti i mali di Franz. È lo stesso Franz a riconoscerlo: “[…] mi guardo bene dall’affermare di essere diventato come sono solo per causa tua; tu rafforzavi soltanto una situazione di fatto, ma la rafforzavi in modo determinante, perché nei miei confronti avevi un grande potere e lo impiegavi tutto”. 

 

In origine Lettera al padre è – sembra banale ribadirlo – una lettera. Voglio dire: una lettera vera. Non un testo letterario, non almeno nelle intenzioni. Un dato che va considerato nel suo estremo realismo. Avrei tuttavia delle difficoltà a giurare sulla sua assoluta sincerità. Poiché Kafka, quando la scrisse nel 1919, aveva già completato, o quantomeno abbozzato, la maggior parte delle sue opere, a eccezione de Il castello. Pur non avendo pubblicato nulla, era insomma già uno scrittore compiuto. Ciò significa che il suo approccio alla lettera, seppur animato da intenti di privatezza, onestà e franchezza, era viziato dal mestiere. Uno scrittore non potrà mai essere pienamente se stesso nella pagina scritta, così come un attore non sarà mai capace di inscenare un monologo nella vita privata che non sia adulterato dalla propria arte e dal proprio talento. 

 

Perciò due cose occorre tenere a mente. La prima: nella lettera Hermann non è solo il padre dispotico di Franz, il tremendo essere umano realmente esistito, il bottegaio di Praga proprietario di un negozio nei pressi della Staroměstské Náměstí, la piazza della Città Vecchia, la cui insegna raffigurava una taccola – la kavka in ceco –, ma è anche e soprattutto il personaggio di un’opera epistolare. La seconda: in conseguenza di ciò, pur essendo dichiaratamente rivolta al padre, la lettera ha come destinatari finali noi lettori, e ciò malgrado le ben note istruzioni lasciate da Kafka a Max Brod di bruciare tutto dopo la propria morte. 

 

Dirò di più: Hermann era il personaggio di un’opera letteraria ancora prima che Franz decidesse di scrivergli la lettera privata di accuse che noi oggi leggiamo. Lo era nella testa di Franz, soffuso di una luce di irrealtà, mitizzato come lo è ogni padre per il figlio, un ologramma sospeso nello spazio e nel tempo. Come lo è stato per me mio padre, fin quando non ho sostituito l’immagine mentale che mi ero costruito con la verità dell’uomo che nel frattempo è diventato: un uomo mite, elegante, dai modi dolci, discreto e ravveduto. E tuttavia, anche adesso che ne scrivo, anche questa sua seconda versione, così diversa dal mio primo padre, dal giovane angosciato e immaturo che ricordo nella caverna del tempo, anche questa è una ricostruzione parziale, come lo sarebbe se lui fosse il personaggio di un mio testo letterario, o il destinatario di una lettera, in questo non c’è alcuna differenza.

 

Nonostante ciò, nella Lettera al padre la qualità che ci colpisce al di là di ogni dubbio è la sua estrema onestà, l’incontrovertibile, pulsante verità che noi lettori percepiamo attraverso le parole di Kafka. Onestà e verità che non significano adesione documentale alla realtà. Potrebbe essere, per esempio, che il famoso episodio del ballatoio dove Hermann lascia Franz in camiciola, di notte, per punirlo della sua insistenza nel chiedere dell’acqua, non sia mai avvenuto nei termini esatti riportati nel testo, ma potrebbe essere la summa degli orribili castighi a cui il padre sottoponeva Kafka bambino. “Nella realtà le cose non possono connettersi come le prove addotte nella mia lettera, la vita è qualcosa di più di un gioco di pazienza”, scrive nell’ultima pagina, curiosamente l’unica, insieme a quella che la precede, interamente vergata a mano, al contrario del resto che è stato battuto a macchina.

 

Ma a conti fatti ben poco cambierebbe. L’infinita battaglia di Kafka col padre non si esaurisce in questa lettera che, ironia della sorte, non raggiunse mai il proprio destinatario (così come le sue opere, finché egli fu in vita, non raggiunsero i lettori per i quali erano state create), ma si ripete all’infinito ogni volta che qualcuno compie l’atto di calarsi attraverso il gorgo limaccioso delle sue pagine. Così come la mia battaglia non si risolve in questa lettura, ma ne trae nuovi stimoli di riflessione, per capire cosa faccio da sette mesi a questa parte, alle prese come sono con la nuova realtà che mi riguarda, la ricostruzione della mia vita, della mia storia, del padre che ho perso e – dopo quasi quarant’anni – ritrovato.

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