Ta-Nehisi Coates. Un conto ancora aperto / L'America (ancora) razzista
Non sappiamo ancora come sarà l’America di Donald Trump, se certe dichiarazioni ostentate in campagna elettorale daranno vita a nuove vecchie pulsioni razziste e xenofobe. Sappiamo però come è stata l’America e soprattutto l’America dei neri fin dalle sue origini e ora a raccontarcelo con una prosa lucida e coinvolgente è Ta-Nehisi Coates, giornalista dell’Atlantic e già autore del bellissimo Tra me e il mondo (Codice Edizioni). In questo suo primo libro Coates raccontava a suo figlio cosa significhi essere neri, incentrando l’attenzione sul corpo, su quel colore che diventa un marchio, indelebile, tragico, che condiziona il tuo modo di pensare, la tua vita intera. Ora, per lo stesso editore, con Un conto ancora aperto ci sbatte davanti agli occhi alcuni secoli di storia degli Stati Uniti alla luce del rapporto tra bianchi e neri (o se si vuole essere politicamente corretti, tra bianchi e afro-americani). Coates è un maestro della scrittura e sa alternare passaggi commoventi a momenti di duro realismo e non esita a dichiarare che la più antica democrazia del mondo si fonda proprio sulla discriminazione e sullo sfruttamento dei neri da parte dei bianchi. In sintesi, sul razzismo. Razzismo che non è solo quello becero e viscerale del Ku-Klux-Klan, della violenza bestiale in nome della superiorità bianca, ma che assume forme molto più subdole e sempre spalleggiate o almeno tollerate dalle leggi.
Quando nel 1955 Rosa Parks si rifiutò di alzarsi in piedi sull’autobus dove era previsto che solo i bianchi potessero sedersi, lottava contro la segregazione dei neri nel piccolo spazio di quel mezzo di trasporto, ma la segregazione è avvenuta (e avviene tutt’ora) a livello molto più ampio. Coates parte raccontando la storia del novantunenne Clyde Ross, nato nel Mississippi in una famiglia di contadini, per ricostruire come fin dalla nascita delle prime città, sia stata applicata una vera e propria politica di segregazione sul piano abitativo. I neri dovevano abitare nei quartieri di neri, la loro presenza in un quartiere di bianchi avrebbe fatto calare i prezzi delle case, si diceva. E si agiva di conseguenza, con la mancata vendita di abitazioni nei quartieri migliori, la non concessione di mutui e a volte, se qualche famiglia, nonostante tutto, riusciva a raggiungere un certo benessere, la si cacciava con la violenza.
Se sei nero devi abitare dove ti dicono i bianchi, questo è il sunto, ma anche qui la prevaricazione ha sempre dominato, in modo assolutamente legale. I contratti per l’acquisto di immobili da parte di famiglie afro-americane erano dei capestri, che fornivano tutti i mezzi a chi li concedeva di riprendersi tutto e di sbattere la gente in mezzo a una strada. Anche dopo l’abolizione della schiavitù, la condizione di schiavo del nero in fondo non è mutata di molto, ci dice Coates e non lasciamoci ingannare dal successo di alcuni, per un Barack e una Michelle Obama, ci sono milioni di persone che vivono in condizioni di paura e di miseria. Per riuscire a emergere, se hai la pelle scura, devi essere eccezionale.
Coates non fa sconti e punta il dito sull’ipocrisia dei bianchi che non vogliono riconoscere il carattere razzista di molte leggi del passato.
C’è una rimozione della schiavitù, dell’apartheid, della discriminazione che continua a persistere. E non bastano certo delle leggi come le affirmative action, che secondo l’autore in realtà ribadiscono la differenza, invece di annullarla. Non è con le indennità, che peraltro sarebbero elevatissime, che si risolve il problema, dice Coates, ma con l’ammissione e il riconoscimento del fatto che gli USA nascono su e da un presupposto razzista. Men che meno il tentativo di accomunare le lotte per i diritti degli afro-americani con quelle di tutti i poveri della nazione: la povertà dei neri non è la povertà dei bianchi, afferma Coates, riprendendo le parole di Lindon Johnson.
Una storia nera, in tutti i sensi, che non lascia spazio a facili risposte, ma che ha il grande pregio di togliere il velo dell’ipocrisia autoassolutoria su un problema che non è solo degli Stati Uniti, ma di tutto il mondo, anche dell’Europa, dove assistiamo ogni giorno a rigurgiti razzisti di cui troppo spesso sottovalutiamo la portata.
Ta-Nehisi Coates, Un conto ancora aperto. Quanto valgono duecentocinquant’anni di schiavitù?, Codice Edizioni.