Speciale

Metafisica del populismo V / Le virtù del virus

8 Marzo 2020

 

Difficile non farsi prendere dal demone dell’analogia quando ci si misura con l’enormità dell’evento pandemia. Nelle riflessioni che accompagnano il suo diffondersi a macchia d’olio, il Covid 19 è diventato una sorta di metafora generalizzata, quasi il precipitato simbolico della condizione umana nella post-modernità. Era già successo, quarant’anni fa, con l’Hiv e si ripete puntualmente oggi. La pandemia si presenta come una sorta di experimentum crucis, grazie al quale sono verificate ipotesi che dalla politica vanno agli effetti della globalizzazione, alla trasformazione della comunicazione nel tempo della rete fino a raggiungere le vette della più rarefatta considerazione metafisica. Per l’isolamento, la diffidenza e il sospetto a cui induce, il virus è infatti ora “populista” o “sovranista”. Per le pratiche emergenziali a cui costringe sembra universalizzare quello “stato di eccezione” che il Novecento teologico-politico ha lasciato in eredità al presente, confermando inoltre la tesi di Foucault sul carattere biopolitico del potere sovrano nella modernità (un potere che avrebbe il suo correlato nella produzione, gestione e amministrazione della “vita”). Per il suo essenziale anonimato sembra poi condividere l’immaterialità che si denuncia nel vituperato dominio del capitale finanziario. Per la sua capacità di contagio si coniuga perfettamente con la natura preriflessiva e “virale” della comunicazione in rete. Last but non least il virus è il segno dell’eterna condizione umana. Casomai ci fossimo colpevolmente scordati della nostra mortalità, finitezza, contingenza, mancanza, ontologica deficienza ecc. ecc., ecco che il virus ce le rammenta, coartandoci alla meditazione e rimediando così alla nostra distrazione di consumatori compulsivi. Queste considerazioni non sono affatto illegittime. Sono, anzi, tutte pienamente fondate. In questo consiste però anche il loro difetto. Se funzionano è perché riducono l’ignoto al noto. Esse fanno del virus l’evidenza intuitiva che, per dirla con la lingua della fenomenologia, viene a “riempire” una attesa d’ordine teorico. Per l’intelligenza critica che si esercita sul fenomeno virus, Covid 19 è per lo più il nome da film di fantascienza con cui si certifica un sapere pregresso.


Ma se il virus ha la caratteristica dell’evento (e sarebbe veramente molto difficile negargli questo tratto) dell’evento deve avere anche la “virtù”. Gli eventi sono tali non perché “accadono” o, almeno, non solo per quello. Gli eventi non sono i “fatti”. A differenza dei semplici fatti, gli eventi hanno una “virtù”, una forza, una proprietà, una vis, cioè fanno qualcosa. Per questo l’evento è sempre traumatico al punto che si può dire che se non c’è trauma non c’è evento, se non c’è trauma non è successo letteralmente nulla. Ora, cosa fanno gli eventi? Gli eventi producono trasformazioni che prima del loro aver luogo non erano nemmeno possibili. Cominciano infatti a esserlo solo “dopo” che l’evento ha avuto luogo. L’evento, insomma, è tale perché genera del possibile “reale”. Si tenga presente che “possibile” non vuole qui dire altro che praticabile. Possibilità significa poter fare qualcosa. La possibilità non è niente di astratto, non è la libera immaginazione di altri mondi migliori di questo. Se si rimane su un piano pragmatico, senza indulgere alla metafisica, possibilità è solo “potenza” e potenza non è nient’altro che azione, attività determinata. La “virtù” dell’evento consiste allora nel rendere possibile modalità operative che, “prima”, erano semplicemente impossibili, addirittura impensabili. Ne consegue che l’evento può essere pensato solo a partire dal futuro che genera (e non dal passato), perché trasforma, perché crea del reale e con esso del possibile. Il senso comune è dunque nel giusto quando pensa l’evento come “occasione” per “fare di necessità virtù”.


Noi siamo troppo vicini all’evento Covid 19 per poter scorgere il futuro che reca in grembo e la nostra umanissima paura ci rende dei testimoni inaffidabili, ma alcuni segni del cambiamento di paradigma che esso comporta ci sono e mostrano un senso inatteso. Il più eclatante è probabilmente l’improvviso tracollo dell’ideologia del “muro”. Il virus è arrivato nel momento in cui il pianeta sembrava convergere nella condivisa persuasione che la sola risposta alle “minacce della globalizzazione” consistesse nella ridefinizione di confini armati e di identità forti. Il populismo, che detesta i libri, crede però, dogmaticamente, nel primato della “cultura” nel senso antropologico del termine. Il suo senso della comunità è infatti storico, romantico e tradizionale. La sua comunità è locale per definizione, il suo nemico giurato è l’astrazione frigida del cosmopolitismo. Ancora più estranea alla sua sensibilità è poi la natura: nient’altro che una risorsa da sfruttare per il benessere della comunità (vedi Bolsonaro e la deforestazione dell’Amazzonia, Trump e la sua indifferenza alla questione del riscaldamento globale, l’odio salviniano per Greta…). Il populista non ha dubbi sulla tesi della “eccezione umana”. Ne fa, anzi, un articolo di fede. Aggiungerei che se bacia il crocifisso è perché vi vede confermata teologicamente proprio quella eccezione. Ebbene, il virus, nel giro di pochissimi giorni, ad una velocità veramente pazzesca, ha costretto tutti, volenti o nolenti, a farsi carico, financo nei comportamenti più quotidiani (lavatevi le mani…), del destino della comunità mondiale e, ben oltre ad essa, della comunità dell’uomo con la natura. Per sradicare il pregiudizio culturalista e antropocentrico non c’è stato bisogno del lento e quasi sempre inefficace lavoro dell’educazione: è bastato qualche colpo di tosse perché improvvisamente diventasse inaggirabile la responsabilità che ogni individuo ha nei confronti del creato per il solo fatto di essere (ancora…) al mondo e se vuole continuare a restare al mondo...


Con la forza oggettiva del trauma, il virus mostra che il tutto è sempre implicato nella parte, che “tutto è in qualche modo in tutto” e che non ci sono nell’impero della natura regioni autonome che facciano eccezione. Non ci sono nella natura “imperi negli imperi” come li chiamava Spinoza per irridere la pretesa superiorità dello “spirito” sulla “materia”. Il monismo del virus è selvaggio e la sua immanenza crudele. Se la “cultura” desolidarizza, se erige steccati e costruisce generi, se definisce gradazioni nella partecipazione al titolo di essere umano e istituisce orrendi confini tra “noi” e i “barbari”, il virus “accomuna” e costringe a pensare a soluzioni “comuni”. Nessuno nel tempo del virus può più pensare di salvarsi da solo né può pensare di farlo senza coinvolgere in questo processo la natura. Si dirà che la pandemia genera zone rosse, clausure domestiche, militarizzazioni del territorio. E questo è indubbio. Ma qui il muro assume un senso completamento diverso dal muro che il ricco costruisce per tenere lontano il povero. È un muro costruito per l’altro, chiunque esso sia. Nel tempo del virus il “prossimo” è infatti ridotto radicalmente alla dimensione del “chiunque”. Il muro, in tutte le sue forme compreso il metro di distanza al bar, viene allora costruito per supplire la stretta di mano impossibile con quel “chiunque”. È una via di comunicazione e non il segno di una esclusione. Prova ne è che la retorica fascista non ha potuto sbandierare quei muri come conferma della bontà della sua proposta segregazionista. Di fronte alla strapotenza del virus ha dovuto riporre, almeno momentaneamente, la sua più efficace arma.
Siamo troppo vicini all’evento anche per valutarne gli effetti sul piano politico. C’è tuttavia un fatto che va registrato. Il virus sembra restituire alla politica il suo perduto primato. Il pensiero classico metaforizzava questo primato del politico nell’immagine del pilota della nave che deve destreggiarsi in un mare ostile. Essendo spiriti realisti, i classici sapevano che non c‘erano porti sicuri ove approdare per porre fine al viaggio. La navigazione, dicevano, è necessaria, vivere non è necessario. L’“elemento” in cui bagna il politico è una natura dove la fortuna, il caso, l’alea giocano un ruolo ineliminabile. La “virtù” politica consisteva allora nel misurarsi con la strapotenza di questo elemento, governandolo con astuzia (metis) e resilienza. Il politico è tale proprio perché depone l’illusione “umana, troppo umana” di poter disporre della potenza degli elementi naturali, che invece ha rappresentato il sogno metafisico dell’umanità “moderna”, quell’umanità che ha pensato il rapporto con la natura nei termini di una guerra dello spirito contro la materia bruta. Primato del politico significa governo della natura non dominio. E bisogna aggiungere, per chiarire la natura tutta “politica” di questo governo, quella formula così cara a Platone: kata dynamin, per quanto è possibile a un mortale. Ebbene, non c’è dubbio che è proprio l’ipotesi del dominio a venire ridicolizzata da un colpo di tosse a Wuhan ed è all’intelligenza pragmatica del pilota che si fa appello per governare, per quanto è possibile, la spontaneità di un processo che si fa in barba alle nostre intenzioni. Covid 19 ha anche questa virtù: richiama la politica alla sua specifica responsabilità, le riconsegna quel primato che aveva illusoriamente lasciato ad altre istanze sovrane, alle quali si era subordinata, dichiarando la propria impotenza e accontentandosi di svolgere un ruolo esclusivamente tecnico. Dopo Wuhan, invece, l’agenda non può che essere fissata da una politica che deve “barcamenarsi” (la virtù politica era detta “cibernetica” dai greci, vale a dire nautica) nel mare in tempesta di un contagio progressivo e apparentemente inarrestabile. Tant’è che ciò che fino a poche settimane sembrava solo una irrealistica pretesa, è divenuto una sorta di parola d’ordine. La politica, si dice, deve avere la priorità sull’economia. È questa che si deve piegare alle esigenze del Principe che ha cuore il destino del suo equipaggio.


Il virus, infine, dispone alla meditazione. Non credo però che l’oggetto di questa meditazione sia la contingenza dell’esistenza e la precarietà delle cose umane. Non abbiamo certo bisogno del Covid 19 per riflettere sulla nostra fragilità. Questa angoscia non ci ha mai veramente abbandonato (checché ne dicano i giornalisti che dagli studi televisivi pontificano sul fatto che, grazie al virus, un’umanità istupidita dai media, cioè da loro, avrebbe finalmente “riscoperto” la sua ontologica insicurezza). Il virus declina piuttosto l’esistenza, la nostra come quella di tutti gli altri, nel modo del “destino”. Improvvisamente ci siamo sentiti trascinati da qualcosa di strapotente, che si fa nel silenzio degli organi, ignorando la nostra volontà. La libertà è così compromessa? Si deve avere una ben mediocre idea della libertà per pensare che essa confligga con la fatalità dell’accadere. Tra le virtù del virus bisogna annoverare la sua capacità di generare una idea più sobria di libertà: la libertà che si realizza nel fare qualcosa di ciò che il destino fa di noi. Essere liberi è fare ciò che, nella situazione, si deve fare. Non è una astrazione da filosofi, questa. La vediamo incarnata nell’operosità, nella serietà, nella dedizione con cui migliaia di persone lavorano quotidianamente per rallentare il contagio.

 

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