L’umanità come ditta di trasloco
È in atto un gigantesco esodo, il più grande della storia. Non mi riferisco al dramma delle migrazioni dal Sud al Nord del mondo, non mi riferisco al genocidio silenzioso causato dai sessanta milioni di persone che ogni anno si traferiscono verso le metropoli. L’esodo a cui mi riferisco è insieme serissimo e frivolo, e forse più che un esodo dovremmo chiamarlo trasloco. Si cambia casa, si va a vivere in Rete, dal condominio reale al condominio digitale. È una cosa che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Pure io sto traslocando e mentre scrivo questo articolo faccio un pezzo di trasloco, come se impacchettassi un lampadario da accendere nella nuova casa. Il trasloco avviene nei bar, per strada, nei treni, ovunque si vede un essere umano con un cellulare in mano: li chiamiamo ancora telefonini, ma sono dei tir dentro i quali ci sono tutte le nostre masserizie.
Dove andiamo? Abbiamo una terra promessa? C’è un Dio da seguire, ci sono tavole di una nuova legge? Niente di tutto questo. Si migra nella Rete perché qualcuno l’ha creata. Forse l’umanità quando ha capito di non poter colonizzare altri pianeti, ha deciso di creare qui sulla terra un pianeta parallello. Per arrivarci basta muovere le dita su un piccolo apparecchio elettronico ormai alla portata di tutti: tutto si può dire tranne che la Rete sia il regno dei ricchi, dei potenti. L’umanità in trasloco è composta da bidelli e avvocati, da operai e governanti, da casalinghe e intellettuali. Si procede alla spicciolata, le rotte dell’autismo corale sono infinite, ognuno avanza per la sua strada. C’è chi non è ancora partito. Ogni tanto c’è anche qualcuno che ci ripensa, magari si ferma, ma intanto se accenna a tornare indietro vede che stanno andando tutti avanti, che lo fanno con passo veloce: il futurismo era un pensiero lentissimo rispetto alla velocità con cui stiamo realizzando il trasloco. Perdiamo un amore e mentre lo perdiamo abbiamo da raccontarlo su Facebook. Perdiamo un padre e invece di guardare il suo cadavere postiamo una fotografia di paesaggio. Ci svegliamo la mattina e invece di aprire la finestra accendiamo il telefonino.
Nessuno è in grado di dire dove stiamo andando. Si sa che ci siamo messi in movimento, dopo tante tecnologie al servizio della vita ne abbiamo inventata una per andarcene dal mondo pur rimanendo qui. E ora siamo mariti non mariti, solitari senza solitudini, poeti senza pubblico e pubblico senza poeti, allegri senza allegria, disperati senza disperazione. La vicenda è in corso a una tale velocità che ogni giorno è un’epoca, ogni telefonata un confine: si comincia da una parte e si finisce dall’altra.
Quando è in atto un esodo così vasto, un esodo che imbarca anche chi non si presenta al porto, forse la soluzione non può essere rallentare, ma semplicemente guardare quello che stiamo facendo, dircelo, senza pensare che stiamo sbagliando o stiamo facendo la cosa giusta.
Esiste la rotazione dell’asse terrestre e non l’abbiamo inventata noi. Non abbiamo inventato il gioco del giorno e della notte. Abbiamo vissuto per millenni per conoscere il mondo dov’eravamo, per contenderlo ad altri. Ora queste guerre sono ancora in corso, ma forse sono episodi minori, perfino il terrorismo in un certo senso è una faccenda minore rispetto all’esodo in corso dal reale all’irreale, dal sacro di essere sulla Terra al profano di essere sulla Rete.
La questione digitale diventa una questione teologica: Dio è morto ma ci ha lasciato il mouse, la tastiera, la password. L’enormità di questo trasloco che impegna per molte ore al giorno miliardi di persone ci impedisce di ragionare come facevamo un tempo: la modernità è stata liquidata velocemente da questo trasloco, le vecchie categorie di spazio e tempo sono state sgretolate. Anche la vecchia domanda sul che fare appare un ferro vecchio. Siamo davanti a un evento che in qualche modo non avviene. E così finiscono amori che non sono mai nati, formiamo associazioni che non associano niente, raccontiamo battaglie che non stiamo combattendo e mostriamo ferite che non ci fanno buttare sangue ma parole.
Siamo in un tempo penultimo e dunque il trasloco è diretto verso il tempo ultimo; non sarà un giudizio universale, ma un gigantesco bivacco in cui ogni io è iscritto a parlare a un’assemblea planetaria che non ha indetto nessuno. È l’agonia ciarliera, il diluvio universale fatto non di acqua ma di sillabe: in un giorno l’umanità dice più parole di quante ne ha detto in migliaia di anni. Una situazione del genere congeda la politica, la letteratura, la religione: tutte cose scadute o dalla scadenza brevissima, prodotti ancora in commercio, ma di dubbia utilità.
Se la nostra vicenda così radiografata è questa, se siamo l’umanità dell’esodo, quello che possiamo fare è guardare. Lo sguardo in qualche modo deve sostituire la preghiera: guardare come diventiamo, come diventa il fuori e il dentro che possiamo percepire. Ecco: se possiamo dare un nome a quest’epoca che partorisce epoche a getto continuo, possiamo chiamarla l’età della percezione. Guardando, guardandoci, possiamo sentire che c’è una cura, c’è un’attenzione che possiamo dare, che possiamo darci. Non si torna indietro, non si può indirizzare l’esodo da una parte o dall’altra, si può solo guardarlo. È un gesto immenso, che può dare senso alle nostre giornate, ai nostri lavori, ai nostri svaghi, alle nostre lotte e ai nostri amori. Guardare non è una soluzione, è un gesto. Questo tempo ci ha congedato anche dalle soluzioni, prima di averci congedato dai problemi. È andata così, sta andando così, ma non c’è nessun malvagio che ci sta guidando al peggio, non c’è un tiranno che si è preso il mondo: ovviamente questo non ci esime dal combattere i figuranti indegni che escono sempre più spesso dalle urne. Siamo impotenti, è vero, ma è anche vero che il mondo è in mano a ognuno di noi, la tastiera ha preso il posto della mappa: si tratta di decifrare il papiro della Rete. E dobbiamo farlo noi, gli schiavi che lavorano ogni giorno a una Piramide che non è di nessuno, che sta solo a celebrare il fatto che ora siamo così e stiamo facendo quello che stiamo facendo, noi che siamo allo stesso tempo la cosa che si sposta e la ditta di trasloco.