Letteratura e catastrofe / Note per un’archeologia post-apocalittica

23 Dicembre 2016

Duecento anni fa, nel dicembre del 1816, si chiudeva l’Anno-senza-estate, uno degli anni peggiori nella storia dell’umanità, tra i più freddi e funesti dell’era postglaciale, anche noto come l’Anno-della-povertà o, negli Stati uniti, “Eighteen hundred and froze to death” (“milleottocento e morire di freddo”). Quell’anno, il sole giocò una vittoriosa partita a nascondino, tanto che alcuni pensarono che non lo avrebbero più rivisto, e le temperature, soprattutto in Canada e nel Nord degli Stati Uniti, si mantennero costantemente su medie decembrine, con nevicate in giugno nel New England e in Québec. Per tutta l’estate, in Europa non smise quasi mai di piovere; i fiumi strariparono e, chi se lo poteva permettere, passava le giornate in casa, al lume di candela.

 

La fine del mondo sul Lago di Ginevra

 

In quell’anno, Mary Shelley (allora ancora Mary Wollstonecraft Godwin) si trovava in Svizzera con il suo amante, il poeta Percy Bysshe Shelley, suo futuro marito, e la sorellastra Claire Clairmont. Shelley aveva affittato la Maison Chapuis, uno chalet con porticciolo privato in località Montalègre, sul Lago di Ginevra. Nel vicinato soggiornava anche Lord Byron, in compagnia dello scrittore, nonché suo medico personale, John William Polidori. Costretta al riparo domestico da un clima miserabile, una sera di giugno, la crème de la crème della letteratura inglese – riunita nella splendida Villa Diodati, affittata per l’estate da Byron – si sfidò a scrivere storie di fantasmi. Da quell’originario passatempo, nei giorni e nei mesi seguenti – del resto, non meno umidi e inclementi – emersero opere che avrebbero avuto grande presa sul pensiero moderno. Mary Shelley, con l’aiuto del futuro marito, elaborò il nucleo diegetico del suo Frankenstein, che diede poi alle stampe nel 1818 e John Polidori cominciò la stesura del racconto breve Il Vampiro (poi terminato e pubblicato nel 1819), il pioneristico e fortunato progenitore del vampirismo contemporaneo, dal Dracula di Bram Stoker alle serie televisive dei nostri giorni. Lord Byron, per conto suo, dal laboratorio apocalittico di Villa Diodati, trasse ispirazione sia per il suo Frammento di un romanzo (Fragment of a Novel, 1819), sia per una delle sue poesie più belle e potenti, Tenebra (Darkness). Eccone i primi versi in una mia precaria resa:

 

Ebbi un sogno che non era solo sogno. 

Il sole radioso s’era spento e le stelle 

erravano oscure nello spazio eterno, 

perdute e senza raggi; la terra gelata 

ruotava abbuiandosi nell’aria illune; venne 

il mattino, svanì e tornò, ma senza portare giorno. 

Gli uomini dimenticarono le loro passioni 

nel terrore di questa loro desolazione, e il cuore 

d’ognuno raggelò in un’egoistica supplica 

per riavere la luce: si viveva tutti 

in bivacchi e – troni, palazzi reali, capanne – ogni 

genere d’abitazione venne bruciato per schiarire 

le tenebre, intere città furono incenerite; 

e attorno ai roghi si strinsero gli uomini

per guardarsi ancora una volta in faccia […]

 

  Villa Diodati a Cologny

 

Le tenebre immaginate da Byron sono sì un sogno, ma non lo sono del tutto, non in quell’estate del 1816, quando a mezzogiorno gli uccelli se ne andavano a dormire e nelle case bisognava accendere le candele. Il sole spento immaginato da Byron è qualcosa di più di un sogno, forse non completamente reale, ma non per questo meno vero. L’idea di un sole smorzato, freddo, che non scalda e non illumina più, non è però un’invenzione di Byron e nemmeno un frutto esclusivo del 1816. Già nel 1686, negli Entretiens sur la pluralité des mondes di Bernard Le Bouyer de Fontenelle (Conversazioni sulla pluralità dei mondi), troviamo una gustosissima descrizione della possibilità che il sole si oscuri. Parafrasando Cartesio, Fontenelle sostiene che i raggi del sole siano “schiume o nebbie”, che “possono ingrossarsi e […] attaccarsi l’una con l’altra, indi passare a distendere sopra il corpo del Sole una crosta, che verrà sempre crescendo, e allora, addio Sole”. Tuttavia, nella poesia di Byron si cela una tremenda novità: la dimensione post-apocalittica, l’inaudita, fino a allora inconcepibile visione di un totale annichilimento dell’umanità, senza nessuna redenzione dietro l’angolo, senza alcun trucco escatologico. 

 

L’ultimo fuoco

 

Nel prosieguo del componimento, Lord Byron dipinge un mondo incenerito, freddo, oscuro, consumato fino all’ultimo pezzo di legno combustibile, per ottenere un estremo guizzo di luce, un instante di calore; un mondo, in cui i pochi superstiti imprecano verso un cielo perennemente offuscato, “velo funebre di un mondo defunto”, uccidendosi per un pasto, che divoreranno torvi in disparte e al buio. “Tutta la terra”, scrive Byron, “era un pensiero di morte, / subitanea e ingloriosa”. Di una città, popolosa un tempo, sopravvivono due nemici. S’incontrano, senza dapprima riconoscersi, presso le braci quasi estinte di un altare. Con mani deboli e scheletriche, aiutandosi l’un l’altro, cavano una fiammella dalle ceneri fioche, ma al chiarore di quella fievole luce beffarda si riconoscono per quel che sono, nemici, e gridando muoiono per l’orrore visto negli occhi dell’altro. Alla luce di quella fiamma, l’ultimo fuoco prodotto dall’uomo, implode l'idea prometeica di progresso, rovina l’ottimismo geometrico dei philosophes e si schianta l’impalcatura teologica della caritas cristiana.

 

[…] Il mondo era vuoto; prima 

popoloso e potente, non era ormai 

che un grumo senza stagioni, senza erbe,

grumo di morte, caos di indurita creta.

I fiumi, i laghi e gli oceani si fermarono 

e nulla si muoveva nelle loro profondità silenti.

Navi senza equipaggio marcivano nel mare

e i loro masti cadevano uno dopo l’altro, sprofondando

nel sonno immoto al fondo dell’abisso.

Morte erano le onde, le maree nei sepolcri,

e la luna, loro signora, era già spirata prima.

I venti decaddero nell’aria stagnante 

e le nuvole perirono; la Tenebra non aveva

bisogno di loro – essa era l’universo. 

 

La visione post-apocalittica di Byron ha un’inclinazione socio-antropologica: è un esperimento mentale in versi sciolti sulle sorti dell’umanità, quando sottoposta a una situazione di stress massimo, come quella prodotta da un cataclisma definitivo. E il risultato è il progressivo e inarrestabile imbrutimento dell’uomo, il suo destino di auto-distruzione. L’egoismo, la guerra, la fame sono le scrupolose ancelle della Tenebra, le rigorose architette dell’impero dell’oscurità. Questa è la post-apocalisse di Byron: la visione di un giudizio universale senza dio, in cui l’umanità è contemporaneamente l’istanza giudicante, il condannato e il boia che esegue il verdetto di morte. 

 

Solo qualche anno prima di Darkness, nel 1806, una versione meno cruenta dell’auto-annientamento della specie umana era comparsa sulla scena letteraria, Le dernier homme, un romanzo di fantascienza apocalittica, scritto in forma di poema in prosa e pubblicato postumo da Jean-Baptiste Cousin de Grainville, filosofo e prete francese morto suicida l’anno prima. Grainville vi narra la storia di un’umanità ormai al tracollo, dove è rimasto solo un uomo, Omégare, in grado di procreare, e solo una donna, Sydérie, in grado di concepire. Dio però non vuole concedere un’altra chance all’umanità e invia il primo uomo, Adamo, a dissuadere l’ultimo, Omégare, dal riprodursi. Sydérie è però bellissima e irresistibile, una novella Eva – e ovviamente rimane incinta dell’ultimo uomo. In un estremo, disperato tentativo, Adamo mostra a Omégare il futuro esecrabile della razza che sarebbe sorta da quel suo figlio: e questi, sconvolto da tale visione, si separa dalla donna. Sydérie, lasciata sola, muore insieme al bambino che porta nel grembo. 

 

In Grainville e nel suo “ultimo uomo” percepiamo ancora, in fondo, quella bontà che l’Illuminismo reputava innata all’uomo, seppur manipolata, alla fine, da un Dio a corto di misericordia. Il punto è che Omégare sceglie di sacrificare la propria discendenza per evitare il sorgere di una razza miserevole, odiosa e deforme. La sua, piaccia o no, è una decisione sofferta, consapevole e per certi versi razionale. È una decisione in cui riecheggia ancora il verso di Alexandre Pope: “una verità è chiara: tutto ciò che è, è giusto”, tradotto (e semplificato) da Voltaire nell’Enciclopedia con un “tout est bien”. Negli “ultimi uomini” di Byron invece no: non vi è rimasto proprio nulla del razionale ottimismo illuminista. L’umanità in procinto di autodistruggersi, dipinta da Byron, è mossa solo ed esclusivamente dal cieco istinto di sopravvivenza, il quale non può che condannarla irrimediabilmente, matematicamente, all’annullamento totale.

 

Caspar David Friedrich, Greifswald im mondschein

 

Monte Tambora, Indonesia, aprile 1815

 

Letta al negativo la poesia di Byron è un inno alla luce. Senza la luce, non c’è né giustizia, né comunità; senza luce, le passioni degli uomini si spengono, le virtù avvizziscono. E nell’estate del 1816 i cieli d’Europa si erano inspiegabilmente oscurati. Al plumbeo di nubi cariche d’acqua, s’alternavano tormente e notti senza stelle. Il sole era per lo più un pallido cerchio bianco dietro schermi foschi. Ma cosa provocò l’oscurarsi del sole e il conseguente sconvolgimento climatico? 

La ragione fu scoperta e determinata solo molto tempo dopo, nel ventesimo secolo: si trattò di un’eruzione vulcanica, la più potente mai documentata dall’uomo. La sera del 5 aprile 1815, il vulcano Tambora, nell’est dell’Indonesia, cominciò ad eruttare con violenza inaudita e cinque giorni dopo, il 10 aprile, esplose letteralmente. Il rumore dell’esplosione si percepì per lo meno fino a ottocento chilometri di distanza, come ricorda, nelle sue Memorie (1830), l’allora governatore della Giava britannica, Sir Thomas Raffles – il quale, in un primo momento, pensò addirittura si trattasse di cannoni, e neanche troppo distanti. 

 

L’eruzione del Tambora produsse in totale qualcosa come 175 chilometri cubici di detriti piroclastici (equivalenti a circa 50 chilometri cubici di roccia), con una potenza esplosiva diecimila volte superiore alle bombe di Hiroshima e Nagasaki messe assieme e circa venti volte superiore a quella del Vesuvio nel 79 dc. Il monte Tambora conserva oggi poco più della metà della sua massa prima dell’eruzione. Gli effetti non furono devastanti solo per la popolazione della regione locale, ma ebbero dimensione globale. Dai gas e dalle ceneri, che il Tambora sparò fino a 43 chilometri d’altezza nella stratosfera, si formò una immane nube di aerosol solfato, che ricoprì gran parte dell’emisfero nord, provocando la catastrofe climatica del 1816. 

E quella nube, per certi versi, è ancora oggi osservabile nelle sfumature cromatiche dei tramonti di alcuni dipinti dell’epoca, in particolare di artisti ben documentabili e prolifici come Caspar David Friedrich e William Turner. Questo è almeno quanto sostiene lo studio di un gruppo di ricercatori intorno al fisico C. S. Zerefos (2007), che ha visto nei rapporti cromatici tra rosso e verde di quei dipinti una corrispondenza non casuale con quelli relativi alla quantità di aerosol vulcanici presenti nell’atmosfera dopo un’eruzione. 

 

L’ultimo uomo

 

L’estate putrida e oscura del 1816 mise in ginocchio l’agricoltura – e alla scarsità di risorse s’aggiunsero povertà, sommosse, incendi, saccheggi e pestilenze, come l’epidemia di tifo che sconvolse il sud est europeo e parte del Mediterraneo orientale. Tenebra di Byron è sì un sogno, o meglio un incubo a occhi aperti, come tante altre poesie del resto, ma la catastrofe di cui parla è indubbiamente reale. Nella sua fantasia post-apocalittica, Lord Byron anticipa, per certi versi, gli studi futuri di storici, climatologi, vulcanologhi, sociologhi ed economisti sugli effetti tremendi dell’Anno-senza-estate. 

Tra il 1816 e il 1817, la crisi di sostentamento, che attanaglia l’Europa, già provata dalle guerre napoleoniche, ha conseguenze diversissime e di amplissimo raggio, che vanno dall’invenzione della draisina, la ur-bicicletta, escogitata per sopperire alla moria dei cavalli, alle migrazioni di massa, alle epidemie. Soprattutto il diffondersi di malattie contagiose e mortali ispira a Mary Shelley un altro grande romanzo, The Last Man (1826), scritto qualche anno dopo l’apocalisse sul Lago di Ginevra, nella fase più tetra della sua vita, quando tutte le persone a lei più care, compresi il marito e le figlie, le erano state strappate da una morte prematura. L’ultimo uomo di Shelley è Lionel Verney, protagonista e narratore del romanzo, nonché alter ego dell’autrice. Lionel è inspiegabilmente immune a una peste che, verso la fine del XXI secolo, ha di fatto estinto il genere umano. 

 

john martin, L'ultimo uomo

 

Il lettore contemporaneo di Mary Shelley veniva catapultato in un futuro distopico e remoto (per noi neanche più tanto), in un mondo orfano di Dio e privo di ogni possibilità di salvezza. Alcuni sostengono che furono i toni così insopportabilmente cupi del romanzo a privare Shelley del successo sperato; altri additano la macchinosità e la prolissità come le cause maggiori del flop – e in effetti, qualche taglio, anche sostanzioso, ai primi due volumi, non avrebbe certamente guastato la lettura, anzi. Ma il romanzo, sotto sotto, fu recepito, tanto da divenire un testo-chiave dell’immaginazione (post-)apocalittica moderna e contemporanea. Da un lato Shelley porta alle estreme conseguenze il motivo dell’ultimo uomo, nella cui radicale, prosaica solitudine si sfascia ogni ideale coccolato dal Romanticismo. Dall’altro, inaugura un sottogenere che avrà molto successo nella nostra epoca: quello dell’apocalisse pandemica, la figurazione, cioè, della fine dell’umanità per vie biologiche, per contagi di natura virale o batterica. 

Non solo: The last man di Shelley sancisce anche una rottura definitiva con la tradizione escatologica ebraico-cristiana, escludendo completamente Dio da qualsiasi influsso nell’orizzonte diegetico e capovolgendo il concetto stesso di apocálypsis (αποκάλυψις), cioè di rivelazione: il vero orrore, infatti, è che, alla fine di tutto, Lionel non ha la benché minima idea di come e perché tutto questo sia successo. Ultimo degli ultimi superstiti, inconsolabile rimasuglio umano, vagolante tre le rovine di una Roma spettrale, Lionel non sa nemmeno perché sia sopravvissuto.

 

Peggio ancora: la terra continua a girare come se nulla fosse e lui incanutito, con una voce che stenta a riconoscere per il poco uso, in compagnia di un cane che lo ha scelto con affetto meccanico come padrone sostitutivo, “sorride amaramente” davanti a un’apocalisse incomprensibile. L’umanità è sparita senza un perché. Dietro l’estinzione del genere umano immaginata da Shelley non c’è né un disegno divino, come in Cousin de Grainville, né il lato oscuro, hobbesiano dell’uomo, come in Byron, non c’è nulla, o meglio, c’è il peggiore degli incubi moderni – non sapere.

 

Dopo la catastrofe

 

In un certo senso, lo spettro di quel 1816 non ha mai smesso di visitare la nostra immaginazione, suggerendo scenari, atmosfere e parole alla nostra più intima e segreta voglia di auto-distruzione. S’aggira nella Londra abbandonata e rinselvatichita di Richard Jefferies in Dopo Londra (After London; or, wild England, 1885), prima versione eco-critica di un mondo post-apocalittico; aleggia sull’immenso deserto che è divenuta la Terra, prosciugata dalla smania umana di progresso, nel geniale romanzo anti-positivista di J.-H. Rosny aîné, La mort de la Terre (1910); e incombe sulla San Francisco del 2073, ne La peste scarlatta di Jack London (The Scarlet Plague, 1912), dove i pochi sopravvissuti alla “morte rossa” cercano strenuamente di preservare quanto ancora hanno di umano. 

Mescolatosi a nuove narrazioni post-coloniali, ulteriormente incupito da genocidi e guerre mondiali, con interferenze, a volte, radioattive, lo spettro del 1816 torna anche nella robinsonade post-apocalittica di Arno Schmidt, Specchio nero (Schwarze Spiegel, 1951); nella “nebulizzazione” o “evaporazione” del genere umano, narrata da Guido Morselli nel postumo Dissipatio H. G. (1977) – straordinaria rivisitazione in chiave marxista e psicanalitica del motivo dell’ultimo uomo – o nel parossismo cinereo e agghiacciante di uno dei più grandi romanzi del nuovo millennio, La strada (The Road, 2007), di Cormac McCarthy. 

 

Nell’industria cinematografica e nelle serie televisive, ha poi trovato l’appropriata dimensione per le sue apparizioni coreograficamente più elaborate, dagli spettacolari collassi civili nelle apocalissi di zombi e vampiri alle innumerevoli variazioni sul motivo del superstite. Solo del testo classico di Richard Matheson, Io sono leggenda (I am legend, 1954), contiamo, ad esempio, almeno tre adattazioni cinematografiche (dichiarate) e perlomeno altrettante parodie. E chi non ha ancora in mente Willy Smith, alias Dr. Neville, a caccia di cervi tra le strade deserte di Manhattan, che col fucile in braccio si fa largo tra l’erba alta di Times Square, trasformata in una savana post-urbana?

Vi è un’oscura nostalgia in questa nostra voluttà post-apocalittica, che dura da almeno duecento anni. È come un anelito fumoso ma inestinguibile verso un passato remoto, verso una vita elementare, solitaria, dai toni grigio-rupestri, scandita dal ritmo preciso e semplice della preservazione, il desiderio di un’esistenza preistorica proiettata nel futuro – la nostalgia profondamente romantica di un futuro dopo la catastrofe. 

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