Salvini, Di Maio, Mattarella / Sono davvero arrabbiato

29 Maggio 2018

Che l’atmosfera politica fosse un po’ tesa ce ne eravamo accorti da settimane: ce n’è di che, non ci voleva molto a capirlo. Le cronache del patatrac annunciato, e che ieri sembra essersi consumato, lo hanno insinuato, detto, ribadito spesso: nervosismo nell’aria, tensioni palpabili, animi esacerbati e altri consimili eufemismi. Ma poi la collera – provata, detta, esibita – ha preso il sopravvento. Aveva cominciato Matteo Salvini, in un post su Facebook venerdì scorso alle 20 e 41, con un’affermazione tanto lapidaria quanto inquietante: “Sono davvero arrabbiato”, dove più che l’“arrabbiato”, termine in sé poco elegante, colpisce il “davvero”, foriero di chissà quale reazione prossima futura.

 

 

Ha raddoppiato Luigi Di Maio in un video diffuso subito dopo le decisioni del Presidente della Repubblica di non accettare la lista dei ministri proposta da Giuseppe Conte: “io sono arrabbiato [perché] dopo tanto tempo dedicato alla formazione di questo governo…”, usando un tono a dir poco concitato, se non indispettito e vibrante. Sentimento ribadito poco dopo, ma virando al plurale, nel collegamento telefonico a “Che tempo che fa?” con Fabio Fazio: “vorrei dire quanto siamo arrabbiati in questo momento [perché] eravamo a pochi passi dal governo…”. E, in fondo, anche se si è ben guardato di usare simili terminologie, il discorso ufficiale di Sergio Mattarella dove ha spiegato le ragioni del suo rifiuto trasudava forte irritazione, se non vera e propria ira, da tutte le parti: il tono della voce, la mimica facciale, lo sguardo cupo non lasciano dubbi in proposito. 

 

Ora, la collera – l’ira, la rabbia o come altro la si preferisca chiamare – è sentimento strano: sembra manifestare un puro sfogo, più fisico che intellettuale, dinnanzi a un frangente negativo che via via s’aggrava. La sua forma, diciamo così, pura è il famigerato “vaffanculo!” che Beppe Grillo ha a lungo utilizzato come programma d’azione politica, e che, se pur silente, continua a guidare i suoi accoliti e, soprattutto, i loro elettori. Nell’azzimato Di Maio, da questo punto di vista, è riemerso abbastanza chiaramente proprio ieri. D’altro canto, però, nella collera c’è dell’altro. Se i medievali consideravano l’ira la passione per eccellenza, perché la più lontana dalla ragione, essa ha comunque una sua logica narrativa precisa: si ripone fiducia in qualcuno o qualcosa, si attende che questo qualcuno o qualcosa agiscano di conseguenza, l’attesa viene frustrata e si monta in collera contro costui o costei; ma, a ben pensarci, ci si arrabbia soprattutto contro di sé per aver mal posto la propria fiducia. Ogni collera ha sempre noi stessi come ultimo bersaglio: “che cretino sono stato!”. Non si scappa: più ci si rimugina, più si capisce che i veri avventati siamo stati proprio noi. Se riascoltiamo i discorsi dei due leader, il ragionamento neanche tanto sottinteso è proprio questo: “avevamo riposto fiducia in Mattarella, e abbiamo sbagliato”.

Insomma, la collera è un sentimento di disfatta che sta alla fine di una piccola storia: da cui quell’“andar fuori di testa” che spesso ne consegue. Ed è proprio su questo punto che si separano, diciamo così, le forme assunte dalle diverse arrabbiature nei personaggi in questione.

 

Salvini, lo si è detto, preoccupa più che altro per quel “davvero”: sin dai tempi di Bossi la Lega ha spesso usato nel proprio discorso toni intimidatori, annunciando una rivolta popolare di là da venire se non si fossero perseguite le sue indicazioni politiche. Ecco, quel “davvero” va letto come una intimidazione al quadrato, e non è un caso che sia stato pronunciato alcuni giorni fa, nel bel mezzo del dibattito sulla formazione del governo. È un mostrare i muscoli, una specie di “vi faccio vedere io se…”. La rabbia di Di Maio è tutt’altro colore: non è una semplice intimidazione, e neppure la manifestazione di una forte sorpresa (“siamo allibiti”, dice a un certo punto), ma la giustificazione teatrale di un gesto politico assai forte: la richiesta di impeachment del Presidente.

 

Come avrebbe detto Baudelaire, è la verità enfatica del gesto nelle grandi circostanze della vita. L’arrabbiatura, muta e solenne, di Mattarella segue altre forme ancora: innanzitutto esplicita molto bene la logica passionale delle proprie decisioni politiche: “ho atteso i tempi da loro richiesti… ho accolto le loro decisioni…”; in secondo luogo non allude a una generica rivolta (Salvini) o a una specie di punizione dura e pura (Di Maio), ma conclude il discorso con una precisa affermazione programmatica: “nelle prossime ore assumerò una iniziativa”. Quale iniziativa? Non lo dice, ma chi ha orecchie per intendere intenda: un nuovo incarico di governo. Quel che colpisce, e positivamente, è una parola precisa: “una”, non due, cento o mille, ma proprio una, una sola. In un agone politico surriscaldato, questo gesto di fattiva eleganza richiama valori innanzitutto etici della comunicazione: dunque sperabilmente anche politici.

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