Mediterraneismo. Il pensiero antimeridiano / A Sud di nessun Nord

17 Luglio 2018

Mediterraneismo. Il pensiero antimeridiano, di Francescomaria Tedesco (Meltemi, 2017), è un libro sul perché del Mediterraneo, e dunque dell’Italia, come Sud dell’Occidente. Ed è un libro sul perché del Meridione come Sud dell’Italia. Tedesco affronta il tema con strumenti storici, filosofici e di sociologia politica, spaziando dall’analisi delle rappresentazioni del Sud alla Questione Meridionale e da quelle “etniche” e orientaliste del Mediterraneo alla Primavera Araba. 

Il filo rosso che accomuna questi ambiti è quello dei mediterraneismi: gli sguardi sul Sud. Sguardi molteplici, ma che tendono a svilupparsi attraverso due processi complementari, egualmente riduzionistici ed essenzializzanti.

Da un lato c’è il mediterraneismo di primo grado. Leggere e raccontare il Sud dal di fuori: da quel Nord Italia, quell’Europa, quell’intero Occidente che hanno spesso esotizzato e orientalizzato il Mediterraneo, vedendolo come l’Altro arcaico, arretrato o fuori dal tempo, per costruire sé stessi come moderni, avanzati e inseriti nel divenire storico. Dall’altro lato c’è un mediterraneismo di secondo grado: quello che interiorizza lo stereotipo precedente, ma rovesciandolo di segno, glorificando e sposando orgogliosamente la propria riconosciuta alterità, il proprio rivendicato arcaismo, al punto da intenderlo, talvolta, anche come modello alternativo alla democrazia contemporanea.

 

Per via di una spettacolare casualità, la copia recapitatami per questa recensione è giunta in circostanze che si potrebbero definire “mediterraneiste”. L’Editore l’aveva inviata al mio indirizzo in Italia. Da lì mi è stata rispedita dalla mia famiglia a Londra, dove risiedo. Il libro è così giunto al mio recapito all’interno di un tipico “pacco da giù” che conteneva, tra le altre prelibatezze, i limoni calabresi che da anni allietano la mia vita da emigrato. 

Il caso non avrebbe potuto esprimersi in maniera più appropriata, perché il pacco dal Sud fa parte dell’immaginario del meridionale al Nord o dell’italiano all’estero. È il fulcro simbolico dei tormentoni tragici o comico-mediatici intorno ai dolori di chi ha voluto o dovuto studiare, lavorare e vivere ‘su’. Non a caso il simbolo dall’emotainment di video online come quelli di Casa Surace, il pacco da giù incarna le irriducibili differenze tra il Sud del nostro paese, lento, arretrato ed emotivo, e il Nord Italia o del mondo, dinamico, moderno e anaffettivo. 

 

Vitaly Urzhumov, World Full of Lemons, 2016.


Il problema mediterraneista è presto spiegato: quei limoni del giardino di famiglia comunicavano, più o meno esplicitamente, che al Sud c’è qualcosa di speciale, autentico, originario, che non può avere equivalenza in ciò che si trova a Londra. In Calabria non ci sono il mercato del lavoro e le opportunità di carriera, né il mercato multiculturale con il ristorante pan-asiatico, la granita siciliana a 10£ e il Mars della Nestlé ripassato in friggitrice (per fortuna). In Calabria ci sono il sole, i giardini con gli alberi accarezzati dalla brezza estiva, il Mare dove Ulisse è appena salpato. Così, il limone del Sud implica l’anelito romantico di un giorno in cui si farà ritorno a quel Meridione da cui, in fondo, non si è mai partiti. Nel frattempo ci sono i turisti del Nord, che vengono a consumare quel mare, la pizza e la granita con gli stipendi del lavoro che al Meridione non c’è, scoprendo i tempi lenti del Sud “bello e arretrato”, dove la natura è meravigliosa ma al B&B manca l’acqua per la doccia, i treni saltano le corse, le istituzioni e le persone sono inaffidabili e indolenti.

 

Per la pubblicistica, la cultura popolare e gli sceneggiatori, come anche per lo spirito nel momento dello sconforto, è facile cedere alle facili dicotomie, al luogo comune, allo stereotipo di grana grossa. Il limone calabrese simboleggia la natura, la lentezza, la tradizione, la stasi della Calabria, così come il calabrese è sanguigno, tradizionalista, rude. Per controparte, nell’Inghilterra fredda e buia del Nord, metropolitana, veloce, alienante e in movimento, dove i banker tracannano il tè con milk or lemon in un bicchiere di cartone take away, analizzando lo spread dalle mobile app nella City, lo stereotipo vorrà che i limoni provengano al massimo dalla Cina, simbolo del più lontano, alieno capitalismo. 

Questa l’implicita narrazione mediterraneista del pacco da giù. A ben ricercare, si scoprirà poi che i primi limoni provengono proprio dall’Asia, e non arrivano nel Sud Italia prima del X secolo. Che oggi, sia a Londra che in Calabria, quelli del supermercato sono i frutti non della lentezza meridiana, ma del capitalismo globale. E che neppure quelli del pacco da giù sono a km zero: anche loro vanno in aereo per giungere sul mio piatto, con buona pace della mano che li preleva dall’albero dal giardino di casa. Ma la narrazione deve resistere: quei limoni calabresi devono idealizzare la Calabria come terra di Sole, lentezza e autenticità. 

 

Vitaly Urzhumov, World Full of Lemons, 2016.


Nota infatti Tedesco in Mediterraneismo che, per molti, l’unico modo per vedere il Sud positivamente è stato quello di trasformarlo in un altrove nel tempo e nello spazio, in un topos elegiaco, lento, pensato “contro la velocità del capitalismo, ricco di valori umani e custode dello spirito filosofico meridiano” (p. 23). Un posto in cui i limoni crescono ancora lentamente nei giardini di casa – hanging like lemons, ciondolando pigramente, come vuole l’espressione idiomatica. Il discorso mediterraneista di secondo grado rovescia in senso positivo gli stereotipi negativi che lo vedono eternamente isolato, arretrato, arcaico, incapace di vivere nel tempo del mondo e del suo avvenire economico, sociale, tecnologico, politico – per esempio, di creare lavoro e business con quei limoni. Perché la Calabria è la terra più povera d’Italia, ma va bene così, purché resti un giardino arcaico dove crescono bei frutti baciati dal sole. Poco importa se, insieme ai limoni invenduti, al macero vadano l’occupazione, l’industria, la società, perché si è incapaci di competere con le logiche e le regole industriali della grande produzione – o di costruire alternative valide.

 

Mediterraneismo, fortunatamente, non è un libro sulla mia ossessione per i limoni. Tedesco affronta, piuttosto, una serie di temi di ben più ampio respiro, accomunati dalla narrazione del Mediterraneo in diverse aree della cultura e contesti storici. È un testo teoricamente denso, che si organizza in senso autoriflessivo e critico intorno a una vasta serie di dibattiti disciplinari e contesti storico-sociali.

Perché – si domanda Tedesco – le immagini del Meridione in TV sono quelle del Montalbano televisivo, congelato “ai tempi delle nostre nonne, con la bella credenza di una volta, il pavimento di maiolica, l’assenza della plastica, la ‘stanza dello scirocco’ e neanche un mobile Ikea” (p. 72)? Oppure quelle che spettacolarizzano le mafie (e con esse la Campania neo-tribale o la Calabria eternamente arcaica) come prodotti locali “tipici”, nei vari Gomorra o Anime Nere?

 

Allo stesso modo, Tedesco sottolinea come sia difficile, dalla musica dell’emigrazione al turbo-folk, uscire dalla stretta mortale tra la melassa della nostalgia “autentica” per il Sud, che si piange addosso, e il suo confezionamento intellettuale come meta-nostalgia che si riflette addosso. Perché, infatti, per essere un musicista famoso e apprezzato del Sud devi suonare la taranta e non l’heavy metal? Perché il Sud può solo essere un carnevale folkloristico che vende e fattura solo “con la poesia, la pizzica, il lirismo, le donne velate di nero, il Primitivo, la lentezza” (p. 10)?

Dai mercati del Sud, infatti, non arrivano prodotti destinati a competere alla pari con le industrie produttive e culturali occidentali, bensì il cibo “etnico”, le espressioni “meridionali” e l’arte “del Sud del Mondo”: come se le pubblicità dei prodotti e supermercati “mediterranei” nel mondo debbano per forza rovesciare gli stigmi dell’arretratezza in una rivendicata alterità̀ rispetto al mondo “oceanico”.

Spostandosi su un piano più strettamente politico, il libro di Tedesco osserva come, ad oggi, la Questione Meridionale abbia finito inevitabilmente per infrangersi contro la profezia autoavverante per cui il Sud è destinato a restare storicamente, industrialmente, civilmente immaturo e non autosufficiente. Persino le rivolte contadine del Sud sono state spesso lette come momento popolare ed emotivo, come mera, irriflessa reazione all’ingiustizia e alla fame, invece d'essere analizzate lucidamente come tappa nel quadro più ampio delle proteste sociali dell'ultimo secolo e mezzo.

 

Se poi allarghiamo lo sguardo al Mediterraneo, ci rendiamo conto che anche l’esperienza storica delle Primavere Arabe è stata appiattita su una visione storica occidentalista, per cui i “paesi arabi” (in realtà complesse realtà geopolitiche) sono obbligati a ripercorrerne necessariamente le tappe al fine di potersi un giorno dire “civilizzati”. Il terrorismo del “vicino Oriente” diventa irrimediabilmente bianco o nero: da un lato frutto di un male che è alterità religiosa, sociale, culturale assoluta; dall'altro, semplice prodotto di risulta dell’imperialismo occidentale. Secondo questa lettura, i terroristi finiscono per essere deresponsabilizzati dalle loro decisioni, ricondotte unicamente al “peccato originale” dell’Occidente, colonizzatore di un Oriente che può essere soltanto barbarico o edenico, tertium non datur.

 

Vitaly Urzhumov, World Full of Lemons, 2016.


Per ognuno di questi contesti, il volume offre prospettive convincenti, empiriche, scettiche, sostenute da una ricerca inesausta del contraddittorio e delle contraddizioni prima che di semplificazioni e di risposte preconfezionate. Uno dei pregi del libro è la convincente svecchiatura critica degli approcci al Mediterraneo rinchiusi in torpori autoreferenziali. Mediterraneismo offre anzi utili strumenti e chiavi di lettura dei discorsi neo-nazionalisti, nativisti e mediterraneisti che proliferano nella sfera pubblica: dal food talebanism dei puristi della pizza su Facebook, alle evoluzioni politiche degli ultimi mesi, caratterizzate dalla crisi dell’Europa e da retoriche localiste, ma anche da già dibattute formulazioni della Questione Meridionale nelle campagne elettorali permanenti.

Tedesco affronta tutti questi temi partendo da una complessa trattazione dei mediterraneismi dal punto di vista storiografico, geopolitico e filosofico, operando una  fruttuosa intersezione tra  gli studi sociali ed etnoantropologici italiani (De Martino) e francesi e la tradizione anglofona dei cultural e postcolonial studies (Said, Spivak, Chakrabarty). Un'altro merito del testo è, d’altronde, quello gettare dei ponti fra tradizioni diverse, senza nascondere peraltro che tali mondi sono spessi rimasti largamente non-comunicanti, separati da interessi politici diversi e spesso opposti, nonché da dispositivi espositivi e retorici spesso incompatibili. 

 

Vitaly Urzhumov, World Full of Lemons, 2016.


Forte di questa piattaforma teorica, e della constatazione che il Mediterraneo “è uno spazio complesso” e il mediterraneismo un concetto “essenzialmente conteso” (p. 41), Tedesco si sofferma sulle sue costruzioni discorsive e sugli effetti performativi di tali discorsi in diversi ambiti. Anzi, se una critica si può fare al libro è sulla strutturazione dei contenuti: lo studio ha inizio con una complessa operazione teorica e esplicita solo più tardi la complessiva portata dei suoi tanti contesti di applicazione. Si tratta però di un’annotazione di ben poco conto: quello di Tedesco non è un manuale, ma un saggio esplorativo. 

 

L’auspicio è che la sonda gettata da Tedesco trovi un appiglio saldo e possa contribuire a un più ampio processo di creazione di ponti stabili, in sostituzione delle attuali passerelle precarie affidate ai marosi. In apertura del libro, Tedesco sottolinea “che il Sud lirico del mio paese della memoria non è il Sud politico”. Per comprendere il Sud, bisogna uscirne per un attimo, pur provenendo da esso. C’è un proverbio, di possibile matrice atlantica, che mi sembra indicare tanto il problema del residuo fattuale dietro lo stereotipo quanto l’incomunicabilità geoculturale tra mondi diversi. Recita così: when life gives you lemons, you should make lemonade. Il problema è, dunque: come cambia, e perché, il gusto di un limone, tra le sponde vicine e distanti di mondi diversi e comunicanti?

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