L'artista messicana e i femminicidi / Teresa Margolles. Sobre la sangre

22 Maggio 2017

Quando hanno sollevato il telo di plastica/che nascondeva/il contorno osseo della sua testa/all’obitorio/ho cercato di distogliere lo sguardo” (Juárez da I monologhi della vagina, Eve Ensler, 1998). Quello sguardo che troppo spesso le autorità distolgono e che, al contrario, Teresa Margolles tiene fermo e deciso, sempre. Per non soccombere. Per sensibilizzare. Per far conoscere. Per smuovere le coscienze assopite di politici, amministratori, funzionari, giudici, poliziotti, uomini d’affari, investitori, speculatori, in sintesi della società civile.

 

Teresa Margolles Sobre la sangre a cura di Francesca Guerisoli e Angel Moya Garcia Frazada (La Sombra), 2016 -- Posizionamento nello spazio pubblico di una coperta montata su una struttura metallica, simile a quelle utilizzate dalle bancarelle per strada. Il tessuto che proietta l’ombra, recuperato dall’obitorio di La Paz, è stato utilizzato per avvolgere il corpo di una donna assassinata. L’ombra che viene a crearsi evoca il problema della violenza di genere. Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica boliviano, nel 2016, l’87% delle donne ha subito violenza. La Paz, Bolivia. Courtesy l’artista. Foto Rafael Burillo.

 

Lo sguardo puntato sulle donne vittime di violenza e uccise senza nessuna compassione, nella piena impunità e nella totale indifferenza delle istituzioni, che dovrebbero invece salvaguardarle e proteggerle. Quella violenza di genere che da decenni si perpetra in maniera sempre più efferata in ogni angolo del globo (Italia compresa, con la ben triste media di una donna uccisa ogni tre giorni e con le oltre 8 milioni quelle che nel 2016 hanno subito una qualche forma di violenza) e, nello specifico, sulla pelle delle donne nella città di confine di Juárez, “la città del male”, “una delle più violente al mondo” (Guido Olimpo, Corriere della sera, 16 febbraio 2017). 

 

 

Teresa Margolles Sobre la sangre a cura di Francesca Guerisoli e Angel Moya Garcia Wila Patjharu / Sobre la Sangre, 2017 -- Tela ricamata, impregnata del sangue di dieci donne assassinate a La Paz, Bolivia. Un gruppo di sette artigiane e artigiani dell’etnia Aymara, specializzati nella confezione di vestiti tradizionali Caporal e Morenada, hanno ricevuto la tela dall’artista per essere ricamata. Il disegno e il titolo dell’opera sono stati decisi dalle artigiane, senza l’intervento dell’artista. La tela evoca il problema della violenza di genere contro le donne. Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica boliviano, nel 2016, l’87% delle donne ha subito violenza. La Paz, Bolivia. Courtesy l’artista. Foto Rafael Burillo -- Ricamo: Irene Mamani Lobo con Graciela Flores, Silverio Nina, Nancy Warawara Flores, Yasmani Quispe Mamani, Juan Daniel Quispe Mamani e Marcelo Quispe Mamani.


Nata a Culiacán (Messico, 1963), Teresa Margolles per alcuni anni ha vissuto in quella città e conosce, per questo, in maniera diretta quanto accade che in prima persona, per un decennio col collettivo SEMEFO (Servicio Médico Forense), ha denunciato tale stato di cose.

Parlare di Teresa Margolles implica, quindi, trattare di Ciudad Juárez e del femminicidio. Sì, proprio femminicidio, anche se alcuni storcono ancora il naso davanti a questo termine. Anche la giurisprudenza ne ha preso atto, con la storica sentenza del Campo Algodonero (dicembre 2009). Emessa dalla Corte Interamericana de Derechos Humanos, condanna il Messico per aver violato il diritto alla vita e per non avere adeguatamente indagato sulle tre vittime di femminicidio ritrovate in quel terreno. Una sentenza che ha, quindi, conferito una certa identità giuridica a questa forma di crimine. Perché, come ben sappiamo, la verbalizzazione è il primo passo per la consapevolezza, e la consapevolezza comporta un’ampia riflessione, principio di partenza per uno scarto culturale, fondamentale per il contenimento di questa brutalità.

 

I dati impressionanti su Ciudad Juárez sembrano trasformarsi in una sorta di mantra ripetuto fino allo scoramento per impressionare, ma che sembra piuttosto anestetizzare contro questa silenziosa e feroce strage di donne. I numeri sono spaventosi, così tanto che appaiono come scolpiti a grandi caratteri su tabule fittili, come lo è anche la durata del fenomeno (Silvia Giletti Benso e Laura Silvestri, Ciudad Juárez. La violenza sulle donne in America Latina, l’impunità, la resistenza delle Madri, 2011 – Marc Fernandez e Jean Christophe Rampal, La città che uccide le donne. Inchiesta a Ciudad Juárez, 2007). 

Le prime denunce di donne vittime di rapimenti, stupri, torture e uccisioni, risalgono al 1993, allorquando fu rinvenuto il cadavere di Alva Chavira Farel, la prima vittima "ufficiale", ritrovato percosso, stuprato e strangolato. Il 1993 è preso come anno di partenza perché, da allora, le associazioni iniziarono a raccogliere i dati (Esther Chávez Cano è colei che ha cominciato a sistemare i fatti), a denunciare le scomparse, molte delle quali messe in relazione con l’entrata in vigore del NAFTA (North American Free Trade Agreement, un accordo per il libero scambio, che ha determinato notevoli ripercussioni sociali e economiche, come lo spostamento di massa di migliaia di persone dalle campagne alla città, l’impianto di centinaia di maquiladoras, fabbriche di assemblaggio a capitale solitamente straniero non soggette a pagamento delle imposte, dove qualsiasi tutela dei lavoratori è completamente elusa e che vedono soprattutto l’impiego di ragazze giovani, senza famiglia, con mani piccole e veloci, molto sottopagate) e con il relativo aumento del narcotraffico, che si è avvantaggiato dell’assenza di controlli approfonditi al confine (per questo denominata anche “porta del paradiso” dagli immigrati che aspirano a recarsi negli States).

 

Infatti, solo a Juárez, sono state censite poco meno di mille pandillas (bande armate) che hanno fatto del traffico di droghe una potente organizzazione criminale (spicca fra tutte il Cartello di Juárez).

Negli anni successivi al 1993, altri omicidi si sono aggiunti alla lista, fino a raggiungere, nel 2005, la somma spaventosa di 4.456 donne scomparse. E tutte sono accumunate da caratteri ben precisi: ragazze giovani, di età tra gli 11 e i 27 anni, pelle scura, capelli neri, fisico snello, provenienti dalle periferie più povere, impiegate nelle maquiladoras o come cameriere, o studentesse. Ragazze rapite, stuprate, torturate, mutilate (amputazione del seno destro e del capezzolo sinistro strappato a morsi), seviziate. 

Diverse commissioni si sono recate nella città e redatto rapporti raccapriccianti, dalle cui inchieste è risultato che numerosi gradi governativi si erano resi colpevoli di negligenza. 

 

Teresa Margolles Sobre la sangre a cura di Francesca Guerisoli e Angel Moya Garcia Il Testimone, 2017 Karla “La Borrada” (Hilario Reyes Gallegos, 1948-2015) -- Installazione composta da tre testi audio e dall’immagine di Karla, transessuale che lavorava come prostituta, brutalmente assassinata a Ciudad Juárez nel 2015. Gli audio sono testimonianze di Karla e delle amiche Ivon e La Martina, e narrano la sua vita e i momenti successivi al suo omicidio. -- Fotografia Teresa Margolles Luglio 2015 Ciudad Juárez, Chihuahua, Messico Courtesy l’artista. Foto Rafael Burillo.

 

Le madri delle vittime, da molti paragonate alle Madres de Plaza de Mayo, contestano la lista ufficiale dello Stato messicano sostenendo che la connivenza delle autorità ha escluso molti omicidi, altrettanti non indagati perché ritenuti opera di un serial killer. L’ipotesi dell’assassino seriale è stata, però, ben presto scartata di fronte ai numeri: un solo uomo difficilmente avrebbe potuto portare a termine centinaia di omicidi. Si è in realtà appurato che sono omicidi che attentano all’integrità della donna, alla sua libertà. Sono delitti compiuti da persone conosciute o sconosciute, violenti, violentatori, assassini individuali o di gruppo, occasionali e professionali, che conducono sempre alla morte della vittima. Tra queste uccisioni ci sono anche quelle realizzate per gli snuff mouvies e, come definiti da Robert K. Ressler, quelle compiute dagli spree murders, dagli “assassini per divertimento”. Infine, ma non meno importante, la tesi della tratta delle donne per il mercato del sesso. 

In tutto questo non bisogna dimenticare un altro agghiacciante risvolto: sono almeno diecimila i minorenni orfani, su una popolazione di 1,5 milioni di abitanti. Inoltre, essendo del tutto assente una reale politica sociale, i bambini crescono nelle strade, a sei anni fanno uso di droghe, sniffano colla o solventi e a dieci entrano a far parte delle pandillas. L’enorme offerta fa sì che una dose di eroina costi solo 25 pesos (meno di 2 dollari) e la cocaina costa meno della marijuana. E i sicari sono a buon mercato: costano meno di 60 euro per un’esecuzione.

 

Le autorità solo di fronte a atti estremi sono state costrette a non archiviare un’uccisione semplicisticamente come omicidio: è il caso dell’assassinio della commissaria Berenice Garcia Corral, 32 anni, responsabile della Sezione Reati sessuali della polizia, vittima di un agguato in piena regola, portato a segno senza alcuna difficoltà. Gli aggressori, armati di fucili AK-47, hanno bloccato la donna mentre si trovava nel garage, sparandole ripetutamente. A conferma che la violenza sulle donne non conosce limiti e non si ferma davanti a niente. Perché a Juárez, come recitano dei motti popolari, “solo i morti sono al sicuro”, perché “il Messico è lontano da Dio ma vicino agli Stati Uniti”.

Siccome è altrettanto noto che sovente i simboli acquistano una valenza immensa, capaci di smuovere gli animi, i familiari di queste donne uccise o scomparse hanno disseminato la città di croci rosa e tappezzato muri e pali di volantini con le fotografie delle ragazze di cui non hanno più traccia, uscendo così dalla dimensione privata e coinvolgendo la responsabilità collettiva. 

È grazie anche alle attiviste femministe sudamericane (come Marisela Ortiz Rivera, donna simbolo della lotta al femminicidio a Juárez, che vive in esilio negli USA, o l’avvocata Luz Estela Castro, che da anni si batte per la verità e denuncia le autorità), che hanno dato voce a questa protesta, alcune pure a discapito della propria vita, che si è alzato il velo di silenzio su questa strage.

 

"Ni una menos, ni una muerta más" è la frase originale pronunciata dalla poetessa e attivista Susana Chávez Castillo, che ha dato vita allo slogan Ni una más, utilizzato perfino dall’omonimo movimento internazionale a difesa delle donne. Per tale motivo è stata brutalmente uccisa nel 2011 all’età di 36 anni: uscita con delle amiche, è stata ritrovata cinque giorni dopo, in mezzo alla strada, seminuda, con la mano sinistra mozzata (quella utilizzata per scrivere) e la testa avvolta in un sacco di plastica nero (per soffocare completamente la sua parola). 

È talmente elevato il livello di corruzione delle diverse istituzioni e tale l’infiltrazione degli appartenenti alle pendillas fra le autorità, che molti familiari delle vittime rinunciano addirittura a denunciare le scomparse e a identificare i cadaveri rinvenuti. Così, poco fuori Juárez, si trova Panteon Municipal San Rafael, una fossa comune dove sono sepolti all'incirca 5.000 corpi rimasti senza nome. Il Laboratòrio de Ciencias Forenses che, seppure ha siffatta denominazione, altro non è che l’obitorio, il deposito dei morti ammazzati, è attrezzato con quattro frigoriferi, ciascuno con centoventi corpi, e vi lavorano ben centoventi persone con una équipe di dodici medici forensi.

 

Teresa Margolles Sobre la sangre a cura di Francesca Guerisoli e Angel Moya Garcia Il Testimone, 2017 Oisiris “La Gata” (Luis Humberto Garcia Robledo, 1984-2016) -- Installazione composta da tre testi audio e dall’immagine di La Gata, transessuale che lavorava come prostituta, brutalmente assassinata a Ciudad Juárez nel 2016. Gli audio sono testimonianze di La Gata e delle amiche Gaby e Berta, e narrano la sua vita e i momenti successivi al suo omicidio. -- Fotografia Teresa Margolles Luglio 2015 Ciudad Juárez, Chihuahua, Messico Courtesy l’artista. Foto Rafael Burillo.

 

Nella ferma convinzione che l’arte abbia la capacità di modificare il pensiero e ispirare le persone ad agire, col “potere insito nell’esprimere l’indicibile” (Prefazione di Gloria Steinem, Dialoghi, cit.), perché è “una pratica capace di immaginare mondi migliori, un’azione di cambiamento e di trasformazione dello status quo, un mezzo per riparare alle ingiustizie del mondo” (Francesca Guerisoli, Ni una más. Arte e attivismo contro il femminicidio, 2016), Lorena Wolffer, Ema Villanueva, Francys Alÿs, Alejandro Luperca Morales, Olga Guerra, Ana Mendieta, Regina José Galindo, Elina Chauvet (nota in Italia per il progetto di arte pubblica a Juárez Zapatos Rojos, 2009, portato a Milano nel 2012 dalla curatrice Francesca Guerisoli: una marcia silenziosa di scarpe rosse femminili), sono alcuni degli artisti che, come Teresa Margolles, con la loro arte denunciano tale violenza di genere e cercano di dar voce al dolore. 

Nata come artista, per meglio capire e meglio conoscere i livelli di violenza, è diventata medico forense e per molti anni ha prestato la sua attività presso il Laboratòrio de Ciencias Forenses, che le ha permesso di entrare in stretta relazione anche con i familiari delle vittime, conoscere le loro storie e toccare da vicino la loro sofferenza. Quella sofferenza che Margolles in tutte le sue installazioni declina in formalizzazioni sempre diverse. Nei suoi lavori, non si vedono mai corpi straziati o cadaveri. Anzi, realizza sempre dei lavori esteticamente rassicuranti, accattivanti. Ed è allora che scatta la trappola per il visitatore. Ignaro si avvicina, osserva, legge. Leggendo viene a conoscenza del dramma, della tragedia. È a quel punto che il visitatore è chiamato a elaborare, a ricostruire, a sistemare, attraverso un suo diretto e inconvertibile processo di totale coinvolgimento emotivo, cognitivo e sensoriale.

Attraverso delle tracce concrete, l’artista formalizza dei monumenti del dolore, dà forma alla sofferenza, alla disperazione dei familiari, alla violenza, a un’assenza, e, da una dimensione personale, mostra il tormento di una collettività che diviene responsabilità della società intera, oramai giunta a una certa assuefazione alle immagini violente, ché la morte è divenuta un fenomeno comune. L’artista non mira a rappresentare una sua idea o opinione, bensì a mostrare lo stato delle cose, dei fatti incontestabili, di descrivere cioè il vuoto lasciato da quei morti. 

Così è stato alla Strozzina di Firenze (Aire/Aria, 2008: una stanza vuota in cui erano posizionati due climatizzatori con la didascalia: “climatizzatore e acqua vaporizzata”, l’acqua è quella proveniente dai laboratori degli obitori pubblici di Città del Messico con la quale sono stati lavati i cadaveri di persone non ancora identificate, preparate per l’autopsia). 

 

È stato nel Padiglione del Messico della 53a Biennale di Venezia (¿De qué otra cosa podríamos hablar?/Di cos’altro potremmo parlare?, 2009 che le valse il Leone d’Oro), che l'artista issò la bandiera del Messico insanguinata, cosparse il pavimento con acqua utilizzata per la pulizia dei corpi e affisse alle pareti agrandi tele impregnate con il sangue di vittime di omicidi nel Paese. Per l’installazione al Museion di Bolzano (Frontera, 2011), Margolles ha realizzato un lavoro dedicato a Ciudad Juárez e alle vittime della città più violenta del mondo: due muri ad altezza uomo letteralmente prelevati da Juárez e da Culiacán e lì ricostruiti, sui quali sono evidenti i fori di proiettili, quelle pallottole sparate per le esecuzioni di due poliziotti (muro di Culiacán) e di quattro giovani tra i 15 e i 25 anni (Juárez), attraverso i quali denuncia anche la violenza reiterata dei narcotrafficanti in questa città; lavoro che ha destato parecchie critiche a conferma che i suoi lavori toccano punti precisi. 

Per la Biennale Donna di Ferrara (Pesquisas/Ricerca, 2016, installazione costruita con le fotografie dei cartelli con i quali le famiglie delle ragazze scomparse ricercano le proprie figlie, e che il tempo ha logorato, a evidenziare una rinnovata perdita legata al dimenticare). 

Questi sono stati i più immediati precedenti espositivi in Italia, prima di approdare alla Tenuta dello Scompiglio. 

 

Sobre la sangre è il titolo della personale allestita fino al 25 giugno 2017 presso lo SPE – Spazio Performatico e Espositivo, curata da Francesca Guerisoli e Angel Moya Garcia. Dall’esterno i visitatori sono accolti dall’installazione itinerante Frazada/La Sombra (2016), una sorta di ombrellone composto da una coperta montata su una struttura metallica: la coperta è stata recuperata dall’obitorio di La Paz ed è stata utilizzata per avvolgere il corpo di una donna vittima di femminicidio: l’ombra sotto cui ci si protegge dal sole è quella che cala sulle donne vittime di violenza. Un’atmosfera calda e accogliente è quella che aleggia all’interno dello spazio espositivo, al buio illuminato dalla flebile luce soffusa emanata dal lungo bancone su cui è disposta un’estesa tela, nucleo e denominante l’intera mostra. Wila Pajharu/Sobre la sangre (2017) si compone invece delle stoffe che hanno avvolto i corpi di dieci donne vittime di femminicidio nell’obitorio di La Paz. Tessuti su cui sono ancora presenti le macchie di sangue di queste donne, intorno alle quali, con cura e con amore, sette artigiane dell’etnia Aymara (cui si deve il titolo dell’opera e quindi della mostra), hanno ricamato i motivi floreali tipici delle decorazioni degli abiti di danza popolare boliviana. Letteralmente quindi il ricamo ma anche il visitatore sono “sopra” il sangue. Perché la postura chinata per ricamare come quella per osservare, fa piegare i corpi sopra questo tessuto di 25 metri, come dei chirurghi intenti a osservare i violenti indizi di una lunga sequela di stragi. L’occhio attento e vigile coglie, quindi, tra paillettes, perline e fili, quelle tracce di violenza che si fondono e si compenetrano, come uno sgargiante tao: come nel brutto c’è una traccia di bellezza, così nella bellezza c’è una traccia di male e di dolore. Alla fine del bancone si è di fronte a un bivio: a sinistra si conoscerà Karla, a destra La Gata. Due prostitute transessuali di Juárez, uccise a 67 anni nel 2015 la prima, a 32 nel 2016 la seconda. In questo percorso come all’interno dell’organo femminile (così la stessa Margolles lo ha avvertito), si attua una sorta di cammino verso la procreazione e verso ciò che determina la stessa condanna a morte delle donne: il suo essere donne.

 

Colpita alla testa con un blocco di cemento, il cadavere ritrovato dopo una settimana in una casa abbandonata a pochi metri dalla sua abitazione, nessuno ha cercato l’assassino di Karla, perché lei era una transessuale e quindi nessuno ha avuto la solerzia di indagare. La Gata, invece descritta come bellissima, è stata una transessuale contesa per la sua bellezza, con parecchi clienti anche americani che l’hanno resa ricca, ma che ha fatto il grosso errore di cadere nella dipendenza delle droghe, che ha prosciugato tutte le sue finanze. Entrambe raccontate da tracce audio disposte lungo i rispettivi corridoi, solo avvicinandosi ai loro ritratti in bianco e nero montati in lightbox si viene a conoscenza dei loro sogni e delle loro aspettative, si arriva a conoscerle fino in fondo, nel loro intimo.

Perché “a Juárez la vita di una donna povera vale meno di un chilo di patate” (Ni una más da Ferite a morte, Serena Dandini, 2013) ed è alla stessa stregua di qualsiasi altra mercanzia di scarso valore, senza alcuna tutela e diritti.

 

SANGRE NUESTRA

 

Sangre mía,

de alba,

de luna partida,

del silencio. 
de roca muerta,

de mujer en cama,

saltando al vacío, 

Abierta a la locura. 

Sangre clara y definida, 

fértil y semilla, 

Sangre incomprensible gira, 

Sangre liberación de sí misma, 

Sangre río de mis cantos, 

Mar de mis abismos. 

Sangre instante donde nazco adolorida, 

Nutrida de mi última presencia. 

 

SPE – Spazio Performativo ed Espositivo della Tenuta dello Scompiglio
25 marzo – 25 giugno 2017

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