Primavera dei teatri a Castrovillari
Si riempie di spettacoli ancora una volta, come sempre tra maggio e giugno, il protoconvento francescano spinto su uno sperone del paese di Castrovillari verso il Pollino giallo di ginestre. Per la quindicesima volta Primavera dei teatri porta in questo lembo nord della Calabria i nuovi linguaggi della scena italiana grazie all’intelligenza, alla curiosità, alla necessità di costruire un ambiente per la creazione artistica d’oggi nella regione forse più arroccata d’Italia, più lontana dai centri di cultura. Non è una semplice rassegna, questa, voluta dai due attori fondatori nel 1992 della compagnia Scena Verticale, il più volte Premio Ubu Saverio La Ruina e Dario de Luca, in complicità con Settimio Pisano, la mente organizzativa, e uno staff giovane, efficiente entusiasta.
Le radici e il presente
È un tentativo di portare i temi laceranti del presente in una terra appartata, martoriata da un salto violento dalla civiltà contadina al presente postindustriale. È un progetto di confrontare i linguaggi più innovativi del teatro di oggi con le proprie radici, con un modo di essere che, nel bene e nel male, raschiando serba ancora differenze, diffidenze, pudori, velocità diverse in un panorama che sembra ormai completamente, dappertutto, omologato, globalizzato. Guardare fuori per essere se stessi, per cercare se stessi, sembra lo slogan di questo bel festival, che nel manifesto di quest’anno pare tuttavia denunciare un pericolo di collasso, gli inevitabili malesseri della crescita, con un giovane con la testa riversa, abbattuta, immersa della torta della festa di compleanno.
Fare lavoro culturale da queste parti non è facile: ricordiamo un’edizione saltata della rassegna a causa degli umori instabili della politica, spostata poi in autunno-inverno, per ritardi nella delibera dei finanziamenti. Pensiamo che nel paese da qualche anno il fuoco si accende solo per questa settimana di primavera, e che la compagnia, dopo aver ottenuto la ristrutturazione del teatro nel protoconvento, ha avuto la residenza a Cosenza, dove gestisce un teatro, il Morelli, e non a Castrovillari. Fili che si spezzano? Eppure Primavera dei teatri ha portato in questo sud compagnie all’avanguardia della scena nazionale; ha messo a confronto il teatro concettuale e quello di visione con la nuova drammaturgia; ha proposto laboratori di formazione che hanno creato un nuovo pubblico e hanno dato strumenti di lavoro alle compagnie locali di un territorio più vasto della sola Calabria. Una testimonianza vivente delle trame annodate la vediamo nella presenza di un pubblico giovane (e di mezza età) fedele, entusiasta. Scopriamo, per caso, che l’addetta stampa di un grande teatro nazionale è di queste parti, e che si è appassionata alle arti della scena proprio grazie ai laboratori di Scena Verticale.
Risate sul precipizio
Mentre mi portano verso l’aeroporto di Vibo Valentia, un’ora e mezzo di macchina per poi collegarsi con il resto d’Italia, ripenso agli spettacoli degli ultimi giorni, quelli che ho visto, dopo l’inizio della manifestazione, affidato ai vincitori del Premio Scenario per Ustica, a Michele Santeramo, Fanny & Alexander, Quotidiana.com e a un focus sulla drammaturgia di Antonio Tarantino. Da sabato sono andati in scena lavori spesso dalla dichiarata cifra comica, parodistica, satirica. Come il cabaret di uno dei padroni di casa, Dario De Luca, che spara su vizi pubblici e privati sfumando la sua figura in ombra e ritornando corpo, in gioco con la musica, presentandosi come uno Zorro vendicatore della banalità vigente, di tutto esperto, perché tutto ha provato, fallendo. Va’ pensiero che io ancora ti copro le spalle è un lavoro un po’ generico, se volete, come spesso il comico pronto a sparare nel mucchio senza colpire veramente niente e nessuno, ma con piacevole senso del ritmo e perizia (se in questo caso sia un merito, un difetto, una disperazione, non so decidere).
ph. Angelo Maggio
Carrozzeria Orfeo con Thanks for Vasellina molto promette, lasciando un po’ a bocca vuota, con una commediaccia politicamente scorretta dai molti, troppi fili, con sfinenti multipli finali, incerta se inclinare al grottesco al patetico o al sentimentale, narrando con toni sulfurei famiglie scoppiate d’oggi, in modo molto furbo, poco convincente.
ph. Angelo Maggio
Ancora la famiglia in un testo non comico ma con qualche propensione al grottesco di Mauro Santopietro, inscenato da Scena Nuda di Reggio Calabria,Padre e figlio sottospirito (il festival ospita sempre forze regionali): qui, ancora di più, ci si perde in traumi e complessi con esiti frammentari e bozzettistici.
ph. Angelo Maggio
Diverso è il comico popolare della parodia alla Antonio Petito (cioè la grande tradizione napoletana) di Punta Corsara, la compagnia nata a Scampia dopo il passaggio di Marco Martinelli. Hamlet travestie, firmato da Emanuele Valenti e Gianni Vastarella, rilegge l’Amleto con spiriti da sceneggiata napoletana che vorrebbe diventare tragedia e torna, continuamente, alla sua natura plebea, contagiosamente comica e disincantata, con l’unica sicurezza, in un mondo di miseria, prosopopea e inganni, che “la Danimarca è una prigione” (come la vita stessa, in cui apparire arriva a consolare, sciaguratamente, dall’essere poco o poco più).
ph. Angelo Maggio
Ancora il comico prende una strada ironica e delicata con Piccoli sucidi in ottava rima. I Sacchi di Sabbia usano il maggio drammatico dell’appennino tosco-emiliano e il canto dell’ottava rima per interpretare duelli western tra antichi amici con il ferito che non vuole morire e neppure il suo cavallo, lupi mannari e seducenti cappuccetti rosso, gare di spermatozoi pronti all’assalto dell’unico ovulo per riprodursi con lotta senza quartiere, storie di marziani insidiati come ultracorpi clonati nella nostra banalità quotidiana fatta di poltrone e televisioni…
ph. Angelo Maggio
Bastano una maschera di carta, una pistola di legno o una testa di cavallo ugualmente in legno, un giubbotto con cappuccio bianco e occhiali di plastica, una tuta sempre di plastica di altro colore, una smorfia, un getto di sangue segnato con un pennello intinto di rosso su una maglietta bianca, per questo teatro antico delle meraviglie. Certo ci vuole l’ironia, la sensibilità, il senso del comico come ferita, divisione, estraneità da un mondo senza dolcezze di Giovanni Guerrieri e soci per dare corpo a queste impalpabili, coinvolgenti fumisterie, sguardi sull’abisso con sorriso un po’ goliardico un po’ da stupiti abitanti di un altro, più delicato, mondo.
Gli incubi di Ligabue
Non ci resta che ridere? Contraddice questa tendenza lo spettacolo più atteso del festival, Pitùr di Mario Perrotta, che ci sposta mentalmente sugli argini del Po, tra la fine della guerra e gli anni del boom economico, mostrando, per sprazzi poetici, per ossessioni, il mondo di Antonio “Toni” Ligabue, il matto, il solo, il deriso da tutti, l’inventore, con colore, con disegni che fermavano la furia il mistero la bellezza del mondo, di un’altra vita rappresentata in quadri detti naif. Questa, dopo Un bès. Antonio Ligabue, che ha fruttato a Perrotta il premio Ubu come miglior attore 2013, è la seconda tappa di un progetto in tre tempi di un artista coraggiosamente sperimentatore. Che non ha voluto ripetere la formula di successo del primo spettacolo, in cui raccontava la vicenda del pittore di Gualtieri di Reggio Emilia trasformandosi in lui, perfino dipingendo in diretta. Questa volta dai pannelli che compongono la scenografia balenano per suggestioni personaggi, minacce notturne e diurne, i paesani che deridono, che escludono, le donne che Ligabue desiderava tanto e che lo respingono. Poche le parole, molte le visioni, in un lavoro che forse senza il primo non ha una sua autonomia (ma forse no: bisognerebbe vederlo senza aver assistito all’altro), che sicuramente ha bisogno di rodarsi nel gioco d’insieme, anche per l’impegno fisico richiesto agli interpreti, che mimano, agiscono, sarabandano, manovrano, quasi danzano.
ph. Luigi Burroni
All’anteprima di Castrovillari si sentiva ancora qualche impaccio. C’è da ammirare il coraggio di Perrotta di esplorare nuovi territori e c’è da lasciarsi trasportare negli incubi, rappresentati in corpi, in immagini che raccontano senza parole Ligabue e un passato dell’Italia, tra l’acqua placida del fiume con i pioppi sugli argini, vespe, lambrette, caroselli, alta moda e manicomi, e da farsi prendere dalla colonna musicale di Mario Arcari, che tra Verdi, il liscio di Secondo Casadei e proprie malinconie ricostruisce un altro mondo dell’anima entusiasmante e straziante.
Quando baluginano quadri che raffigurano tigri ruggenti, aquile ghermenti, occhi di animali, piume, colori, e gli attori sembrano voler dare corpo a quei colori, a quelle grida e stupori di vita, lo spettacolo raggiunge i suoi momenti più forti. Ricostruisce veramente, per ellissi, per precipizi, una vicenda umana, un mondo, un’altra espressionista prospettiva. Lo aspettiamo a maturazione. In tanto nel fine settimana (dal 5 al 7) si presenta in prima assoluta a Gualtieri, nel teatro sociale ristrutturato da un gruppo di cittadini, con lavoro gratuito e appassionato, nella certezza che senza teatri, senza luoghi culturali, questo nostro meraviglioso paese si assopisce, si spegne, perisce.