Emergenza continua di fronte al silenzio generale / Migrare
Arrivano: per mare e per terra, in treno e in bici, a piedi… Sono tanti, troppi, aumentano con progressione geometrica, travolgono i confini esistenti come quelli creati ad hoc. Occupano spiagge e giardini, costruiscono “corridoi” per uomini, attenti a evitare quelli delle mine, le vie delle armi e quelle della droga che si intrecciano con quelle del petrolio. Rischiano la nuda vita per poter continuare a vivere.
Nell’estate del 2015 la vecchia Europa, vecchia alla lettera con un tasso di natalità che fatica a toccare il 2%, è stata pacificamente invasa da uomini e donne, in gran parte giovani e giovanissimi con tanti bambini. In fuga dalla guerra e dalla violenza, dalla miseria e dalla repressione. Hanno attraversato il Mare nostrum, nutrito con i loro cadaveri, hanno accumulato chilometri e polvere, scovato nascondigli nelle macchine e nei camion, hanno corso a perdifiato – un pellegrinaggio parallelo al viavai delle vacanze.
Con la forza della disperazione ci hanno raggiunti. La loro guerra è diventata la nostra, gli “effetti collaterali” di quanto accade nell’Altro mondo sono penetrati, in una estate rovente, con il peso specifico dei loro corpi che si possono frenare ma non comprimere, nel nostro spazio protetto. Come in un libro animato, la loro rotta ha risvegliato le belle addormentate europee, ha rimescolato le carte delle alleanze, mentre i profughi dei conflitti medio-orientali si sono infilati nell’area storicamente suscettibile della Mitteleuropa e in quella storicamente instabile della “polveriera balcanica”. Noi, che delle “nuove guerre” seguite all’incredibile ’89, non sentiamo gli odori e gli umori, la puzza dei cadaveri, ma ogni giorno in tivù file di corpi accatastati, noi, costretti dall’esplosione delle Torri Gemelle a essere un soggetto visuale, inchiodati ad assorbire le radiazioni emesse dal “focolare virtuale”, possiamo ora incontrare, nei giardinetti sotto casa, nella spiaggia delle vacanze, l’immagine che, sotto i nostri occhi, si sta trasformando in un essere umano fatto di carne e ossa.
Dopo la guerra del Kosovo e il bombardamento della Serbia (1999) l’evento bellico è diventato un ossimoro detto “aiuto umanitario”; ora, nemesi storica, la guerra che entra nella casa europea ha i volti di un’ emergenza umanitaria. Quanto sta accadendo modifica il sentire, alla visione di una riproduzione senza sonoro e senza fisicità, si sta sostituendo l’insormontabilità dei corpi – proprio quello che le guerre roboticodroniche vorrebbero azzerare. Un mischiarsi umano che, come accade in ogni guerra, ha già prodotto un inedito melting pot. Ancora una volta, quanto pareva politicamente incredibile, è diventato realtà: l’Altro mondo, quello meno sviluppato, non occidentale, islamico, ci ha conquistato… a piedi, e chiede asilo solo in forza dell’umanità. Costringe a ripensare categorie e metodologie, chiede soluzione collettive a noi cittadini single un po’ ipocondriaci, in ansia da contagio, di fronte a agglomerati che fanno massa e nel contatto cercano salvezza.
Così, nell’epoca della scienza e della tecnica, il fattore umano sconvolge l’ordine esistente, provoca il pensiero di politici e intellettuali, interroga le coscienze di ognuno, conferma la nostra appartenenza a una specie implicata in storie di male, nell’espressione di Paul Ricoeur, ma anche la possibilità che si dia un dettaglio – l’inno alla gioia insegnato ai profughi siriani – capace di mutare il tutto. E non sono pochi quanti, nella stessa area geografica, possono ricordare date recenti della storia europea scandita da masse di profughi in fuga.
Un altro agosto, quello del 1989, gruppi di giovani e giovanissimi cercano di passare la Cortina di ferro in Ungheria (!), si rifugiano nell’ambasciata tedesca di Praga, si raccolgono nelle chiese di Berlino est in nome dello slogan: scavalcare i muri che sono in testa. Sono cittadini che vogliono uscire dalla Ddr, la Germania dell’est. Pochi mesi dopo, il 9 novembre, cadrà il muro reale: finito di costruire il 13 agosto 1961, sancisce la fine simbolica della guerra fredda. Le guerre inter-jugoslave degli anni novanta del Novecento – dopo la seconda guerra mondiale è la prima volta che in Europa si riaprono i rifugi e risuonano gli allarmi aerei – rimangono un conflitto regionale, ma sono milioni i profughi in cerca di asilo. Le operazioni di “pulizia etnica” rendono la popolazione civile bottino e bersaglio, mezzo militare e capro espiatorio. Il work in progress bellico è stato, anche, un’opera di ingegneria idraulico-demografica, ha spostato masse umane, a piedi, a cavallo, con i trattori e le mercedes, come comparse di un set di una telenovela infinita che si chiama Migrazioni – così suona il titolo dell’opera (in italiano edita da Adelphi), che Miloš Crnjanski dedica al destino del popolo serbo del diciottesimo secolo. Negli stati dell’ex Jugoslavia la questione dei profughi è ancora attuale, i politici cercano di fare il gioco delle tre tavolette, sperando di rimanere davvero terra di transito, però misurano le parole. Tra le popolazioni il ricordo è ancora troppo vivo. Forse anche per questo i cittadini, pur non troppo benestanti di Belgrado, hanno partecipato all’accoglienza di chi aveva bisogno di aiuto.
Con la guerra lontana l’opinione pubblica croata è stata costretta a fare i conti in agosto: il 12 è stato decapitato dall’Isis un cittadino croato rapito in Egitto dove lavorava per una ditta francese. Tomislav Salopek, trentun anni e due figli piccoli, bravo ragazzo di Vrpolje, un paese a una decina di chilometri dalla Bosnia-Erzegovina che ha la particolarità di avere una scuola di geodetica. Proprio questa scuola, che permette a molti di emigrare per sostenere la famiglia, ha catapultato Salopek nel “mondo come villaggio globale”, incontro a una realtà che gli abitanti di Vrpolje faticano a immaginare. L’estate 2015 ha mutato la gerarchia, della politica internazionale, del sentire individuale. Ogni tanto la complessità si scinde, il passato non tocca il presente, la memoria non arriva a toccare il gesto attuale. In Ungheria non ricordano, in Slovacchia non ricordano. Chiudono i treni e scrivono sulle mani numeri con il pennarello. Questa è la Miseria dei piccoli Stati dell’Europa orientale di cui parla István Bibó (nel suo testo del 1946, in italiano edito da il Mulino), dove le esigenze territoriali, le nazionalità mischiate, le vicende politiche continuano a produrre quella paura esistenziale.
Come in meteorologia, dove un battito d’ali di una farfalla in Australia può determinare un urugano in Sudafrica, la storia europea si fonde con le altre storie: diventa imprevedibile come le previsioni del tempo.
Dunque:
Se verrà la guerra, Marcondiro’ndero
Se verrà la guerra, Marcondiro’ndà
Sul mare e sulla terra, Marcondiro’ndera
Sul mare e sulla terra chi ci salverà?
Ci salverà il soldato che non la vorrà.
La guerra è già scoppiata, Marcondiro’ndera
La guerra è già scoppiata, chi ci aiuterà.
La guerra è dappertutto, Marcondiro’ndero
La terra è tutta un lutto, chi la consolerà?
Ci penseranno gli uomini, le bestie e i fiori
I boschi e le stagioni con i mille colori.
Di gente, bestie e fiori non ce n’è più
Viventi siamo rimasti noi e nulla più.
La terra è tutta nostra, Marcondiro’ndero
Ne faremo una gran giostra Marcondiro’ndà
Abbiam tutta la terra, Marcondiro’ndero
giocheremo a far la guerra, Marcondiro’ndà.
(Fabrizio De André, Girotondo)