La filosofia di Topalbano
Ed eccoci alla nuova infornata della serie tv Il commissario Montalbano, in queste settimane di aprile e maggio immancabilmente su Rai Uno, con la consueta batteria di produttori, registi, location, attori e, naturalmente, trailer e spot a caccia grossa di audience. Esce in questi stessi giorni per Guanda La filosofia di Topolino, scritto da Giulio Giorello con Ilaria Cozzaglio (pp. 253, € 17), seriorissima indagine sui travagli concettuali (tanto etici quanto politici o metafisici) del celeberrimo eroe del fumetto più fumetto del mondo.
Che relazione fra i due eventi? Nessuna, a prima vista. Se non fosse che nel numero 2994 di Topolino, uscito a metà aprile in concomitanza col rilancio della serie televisiva, appare un nuovo personaggio che al fascinoso uomo d’ordine di Vigàta evidentemente si richiama, e che viene battezzato – con nome valigia tipicamente disneyano – Topalbano.
Dalla filosofia di Topolino, passando per quella Topalbano, arriveremo a quella di Montalbano? Vale la pena prendere sul serio l’oziosa questione. Non foss’altro perché il celebre commissario siciliano, continuando a moltiplicare gli ascolti manco fosse una mondiale partita di calcio, è già da tempo diventato tale e quale la Settimana enigmistica: come questa è la rivista più imitata del mondo, lui è il modello tacito di tutti gli innumerevoli uomini di giustizia che s’affollano fra romanzi polizieschi e fiction televisive, in Italia come in molti altri paesi europei e non. Le storie della cultura non solo sottile dovranno tenerne conto.
Topolino, seguendo il ragionamento di Giorello e Cozzaglio, non è affatto l’epitome dell’uomo d’ordine, bacchettone se non nerd americanissimo, tutto giustizia e verità, come spesso lo si dipinge. A rileggere le sue avventure, sia quelle più tradizionali sia quelle in cui appare alquanto eccentrico, si coglie bene come si tratti di un vero e proprio eroe che mescola in modo sapiente saper fare pratico e avventura intellettuale, pragmatismo e riflessione, volontà d’azione e sete di libertà. Giorello e Cozzaglio, fra l’altro, e giustamente, non s’interessano soltanto al personaggio principale ma alla struttura delle sue storie tipo. E quindi alle relazioni che il protagonista Topolino intrattiene con l’antagonista Gambadilegno, l’aiutante Pippo, l’oggetto del desiderio Minnie e così via. È nell’interazione fra i personaggi, nonché nello svolgersi degli eventi e nei valori culturali che con ciò vengono fatti giocare, che viene fuori la filosofia di Topolino, inteso non come personaggio singolo ma come complessivo, se non complesso, universo di senso.
Che tipo è invece Topalbano? e che tipo di intrighi narrativi mette in gioco? Leggendo la storia che lo vede apparire per la prima volta sulla scena, notiamo subito una stranezza. Negli innumerevoli remake disneyani – poniamo: dalla Topodissea ai Promessi Paperi – le figure storiche o letterarie vengono quasi sempre assunte in prima persona dai protagonisti, i quali, come dire, conformano le loro proprietà caratteriali a quelle dei personaggi che incarnano. Così Topolino diventa un po’ Ulisse e Paperino un po’ Renzo. Nel nostro caso non è così. Qui non c’è Topolino che diventa Topalbano, ma i due personaggi sono compresenti, ognuno col proprio carattere, nella medesima vicenda: due detective che, prima in contrasto e poi in accordo, risolvono il caso poliziesco in questione (il rapimento di Minnie da parte di un clan mafioso siciliano). Ora, al di là degli esiti narrativi più o meno felici della vicenda, questa particolarità narrativa porta a una specie di comparazione, del tutto esplicita del resto, fra i due personaggi, il loro modo d’essere, il loro modo di portare avanti l’investigazione, perfino il loro modo di relazionarsi alle rispettive partner, e in generale dunque le loro culture. Più che le somiglianze, spiccano così le differenze fra Topolino e Topalbano: il primo ostinatamente indirizzato alla rapida soluzione del caso, senza alcun infingimento che possa anche minimamente bloccare l’esito felice della sua azione investigativa; il secondo carico di pensieri e malumori, precisazioni e distinguo, accuratissimo nel muoversi entro il teatro pirandelliano delle apparenze che evaporano la realtà della cittadina che qui – ed era prevedibile – viene ribattezzata Vigatta. Topalbano non tollera Topolino, e da bravo siciliano, sospettoso sino al midollo verso tutto ciò che sta oltre lo Stretto, lo considera niente più che un ingenuo turista a caccia di guai. Topolino non capisce perché Topalbano tergiversi piuttosto che agire, e finisce per sospettarlo di chissà quali dissimulati secondi fini. Alla fine i due si scoprono essere euforicamente complementari, di modo che Topalbano, pistola in mano, si lancia all’assalto del fortino dei mafiosi cattivi, mentre Topolino, acquisendo i rudimenti del dialetto isolano, impara a destreggiarsi fra le estenuanti finzioni della sottocultura locale. A cose fatte, capiamo che la malafiura, a dir vero molto poco politically correct, la fanno le eterne fidanzate dei due eroi del nostro tempo: Lidia, che s’è perfidamente accordata col boss Sinatra pur di ottenere dal suo uomo un po’ più d’erotica attenzione, e Minnie, che comprende e appoggia l’assurdo comportamento di quella terribile fimmina senza scrupoli.
Resta sullo sfondo, come a tenere i fili di questa specie di versione pop dell’opera dei pupi, quello che possiamo considerare il convitato di pietra della storia, ossia Salvo Montalbano, la sola figura per la quale tutto ciò ha un senso e una ragione. Il commissario camilleriano è da tempo abituato a destreggiarsi fra media differenti: dal testo letterario è passato alla radio e poi alla televisione, ha assunto il ruolo di opinionista politico, senza comunque trascurare il mondo dei videogiochi. Il suo vero lavoro è quello del traduttore fra linguaggi diversi, e la sua filosofia sta in quel portato di acuta approssimazione che tutte le traduzioni, ancorché intersemiotiche, necessariamente richiedono. Il compito del traduttore, ce lo hanno spiegato da tempo, è quello di adattarsi all’altro senza rinnegare l’identità di ciò che pure modifica. La sua è una gestione felice dell’ibrido, o se si vuole del terzo incomodo, creatura al tempo stesso originale e servizievole, nuova e già vista. Da questo punto di vista Topalbano è la verità di Montalbano, ciò che il commissario non poteva non diventare, ma è anche, a ben vedere, l’ennesimo avatar di Topolino, della sua innata voglia filosofica di attraversare i confini, sfidare l’ignoto, misurarsi con l’imprevedibile. Ecco insomma un po’ di sano marketing culturale: divertente, intelligente, leggero. Che potremmo caso mai ribattezzare, per capirci, filosofia di Topalbano.