Serio Ludere
Omar Calabrese ci manca molto. E dico “ci” non per plurale maiestatis ma perché era soprattutto grazie a lui se da diverso tempo sussisteva una comunità di studiosi e amici, colleghi d’università e compagni di strada in cui ci si riconosceva, una sorta di casa comune, ideale e materiale al contempo, che dava a tutti motivazioni e curiosità, complessivo appagamento per quanto si andava facendo e incessante desiderio di andare avanti. Si discuteva di teoria dell’arte e semiotica, di letteratura e cinema, ma anche di videogiochi e pingpong, canzonette di Sanremo e partite al biliardo, politica e fumetti, televisione e moda. Il tutto con idee mai preconcette, convinzioni per nulla assolute, rigore rivedibile. E, soprattutto, con un sorriso sulle labbra sempre pronto a ridimensionare gli entusiasmi eccessivi, i formalismi inutili, gli accademismi deteriori. Sparito Omar (tre anni fa, ma sembrano cento), questa comunità s’è rapidamente dissolta. E ci manca tanto.
Prova a rianimare la memoria di questa personalità multipla di studioso, intransigente e spensierata a un tempo, e dell’umanità – in tutti i sensi del termine – che produceva per alone intorno a sé, una collezione editoriale atipica curata dal vasto stuolo dei suoi allievi bolognesi e senesi: si chiama “I libri di Omar” ed è pubblicata da La Casa Usher, un editore fiorentino con cui Calabrese lavorava da tempo. Vi si trovano alcuni dei suoi volumi più importanti (La macchina della pittura, Il neobarocco) riproposti in edizione critica e molti materiali in più, e anche testi che Omar avrebbe sicuramente letto e diffuso (come Opacità della pittura di Louis Marin o Cloning Terror di William Mitchell) nei campi della teoria dell’arte e dell’immagine, dell’estetica sociale e della comunicazione. L’ultimo nato della collana è Serio ludere, un’eccezionale raccolta di scritti uscita nel 1993 presso una casa editrice che l’ha mai ben distribuita, in un versione quasi raddoppiata rispetto all’originale, con una premessa di Tarcisio Lancioni, una conversazione fra Umberto Eco e Stefano Jacoviello, un ricordo di Renato Giovannoli, una nota di Maurizio Bettini. Se per certi versi si tratta del libro più marginale di Calabrese, del meno sistematico, sicuramente di quello meno accademico, per altri versi, o forse proprio per questo, è il contrario: si tratta del suo testo più importante. Dato che vi si trova, accanto una fitta serie di analisi e interpretazioni di concreti casi-studio (da Garibaldi a Paperino, da Pippo Baudo alla monaca di Monza, passando per Carosello, le Timberland e lo Swatch, il Bridge e la Carrà, i mancini e i grassi, Space invaders e la cerniera lampo), una precisa dichiarazione di intenti, una chiara esplicitazione del senso e del valore da dare, giorno per giorno, al lavoro critico dell’intellettuale quale Omar Calabrese lo intendeva e lo praticava, ridendo serissimamente, giorno per giorno.
Nel titolo, difatti, c’è già parecchio. Come si dichiara in apertura, esso deriva da un’espressione “anacronistica” dell’umanista Nicola Cusano secondo la quale la ricerca filosofica e scientifica è sempre, se ben praticata, una sorta di “serio ludere, et seriosissime iocari”. Anacronistica perché, commenta l’autore, oggi ben pochi nel mondo della ricerca sembrano seguire questo monito al tempo stesso sbarazzino e altero, leggero e ragionevole: “il mestiere di pensare è certo un mestiere nobile […] che implica responsabilità sociale […]. Ma non vedo perché debba essere svolto con sussiego, con senso di sofferenza fisica e morale, con spirito di distanza dal mondo. Non vedo, insomma, perché attuando l’arte del commento e dell’interpretazione, non ci si possa e debba anche divertire, non si possa e debba anche far divertire”. Sembra una banalità, un dettaglio sciocco, una rivendicazione di frivolezza, ma è ben di più: è un modo quieto e determinato di affrontare – e risolvere – l’annosa questione del lavoro culturale, delle sue valenze esistenziali come del suo peso sociale. Dinnanzi ai tanti, ai troppi, cosiddetti intellettuali che oggi come ieri stanno incistati nel pulpito irraggiungibile di una casa editrice o di un’università, di un museo o di un giornale, perennemente corrucciati, a lanciar strali contro un mondo di schifo che non capisce e non li capisce, ecco che Calabrese (che università, case editrici, giornali e musei praticava quotidianamente) ci invita a cambiar strada: a coniugare mestiere e diletto, acribia critica e divertimento strategico, cercando di capire e, soprattutto, di farsi capire. In altri termini, Calabrese aveva visto benissimo, anticipandone l’esame critico, la piega iperspecialistica e autodistruttiva che stava prendendo l’organizzazione del sapere, la progressiva e inesorabile tendenza a far dello studioso, scrittore o scrivente che sia, un banale impiegato come tanti, sempre più capace di approfondire (e bene) un preciso e determinato aspetto della scienza, del pensiero filosofico o della ricerca letteraria, ciecamente trascurando (e male) i campi limitrofi, le specializzazioni degli altri. Dinnanzi a quelli che Ortega y Gasset chiamava ignoranti istruiti, ai saccenti che sapendo pochissimo si ritengono comunque capaci di parlar di tutto, ecco che Calabrese ci invitava – e ci invita tuttora – a considerare le cose in modo diametralmente opposto: giocare seriamente (segno di reale maturità dell’uomo, si ricorderà, secondo Nietzsche), ma anche pensare divertendosi, scrivere per diletto e con diletto, riuscendo anche a comprender meglio, e perciò criticarlo, il mondo in tutti i suoi aspetti, da quelli più frivoli e quotidiani a quelli più impegnativi e problematici. Si può – e si deve – parlar seriamente di cose bizzarre (e da qui, per esempio, le recensioni critiche dei videogiochi), così come è possibile – e forse necessario – mantenere un tono leggero, capriccioso, appassionato, affrontando temi e problemi di centrale rilevanza umana e sociale (e da qui gli studi sulla memoria e l’oblio, sui capolavori letterari, sul patriottismo e simili). Si percepisce per certi versi, in questo rigorosissimo programma di lavoro intellettuale, l’eco delle opere di Michail Bachtin sul riso e il carnevale che, si ricorderà, negli anni Ottanta erano finalmente arrivate nelle polverose scrivanie di cattedratici d’ogni sorta, critici letterari, filosofi. Un programma che, per altri versi, si riallaccia – consentendone la diffusione e la perpetuazione – al gesto liberatorio dei Barthes e degli Eco che già da alcuni decenni analizzavano coi rigorosi strumenti della linguistica e delle scienze sociali i sordidi incontri di catch delle periferie metropolitane, le pubblicità dei detersivi, i quiz televisivi, i romanzi rosa o i riti tribali del calcio domenicale.
Oggi che Omar non c’è più, ci tocca comunque andar avanti. Rileggendo i suoi scritti satirici sulla Carrà e sul Walkman, su Snoopy e su Battle zone, sulla struttura dei giochi di carte o su chissà quale altra pinzillacchera, potremo forse difenderci un po’ meglio dall’ondata di rigidissimo sussiego che ha ripreso a investire il lavoro culturale (non foss’altro che chiamandolo così), dalla pesantezza di un esercizio della critica che si vuole sempre più specialistica (e quindi inevitabilmente miope), da un’organizzazione del sapere sempre più burocratica (e perciò asfittica). Provando magari a prenderlo sul serio, questo librone evergreen, divertendoci da morire.