Siamo tutti cannibali

6 Novembre 2015

Niente di più attuale del cannibalismo. Lo so, a nominarlo così, di passata, è una cosa che sa di stantio, un po’ esotico forse, quasi vintage. Fa pensare alle vecchie figurine del periodo coloniale, dove omoni neri con pance smisurate, gonnellino di frasche e anelli al naso bollivano in improbabili pentoloni l’esploratore un po’ tonto in chepì d’ordinanza e tuta beige sdrucita. Gli stessi etnologi, a un certo punto, hanno contestato la realtà antropologica di gente che si nutre di carne umana, pensando semmai il cannibale come prodotto di un mito occidentale fortemente etnocentrico. Da tempo gli antropofagi non vanno più: a tener banco sono semmai gli zombie, tutt’altro genere di mostri che turbano a tratti le nostre cattive coscienze, come a indicare il destino verso cui si dirigono, volenti o nolenti, gli orrori quotidiani di cui i media ci nutrono a più non posso.

 

Eppure, sia pure in forma traslata o mascherata, ma non indebolita, la questione del cannibalismo riappare oggi, appunto, sulla bocca di tutti, tornando a smuovere paure e desideri, provocando non pochi sobbalzi etici e periodiche dichiarazioni ideologiche. Sia a livello della coscienza diffusa, ovvero di quella che siamo ormai abituati a chiamare passione pubblica, sia a quello della più fine riflessione filosofica e scientifica, dove la ritroviamo dissimulata nel ripensamento complessivo del confine tra l’uomo e l’animale. In qualunque modo si ridisegni questo confine tutt’altro che evidente, quel che viene messo in tensione è il mangiar carne in generale, e quale carne in particolare. Vegetariani e vegani, anche nelle loro patenti diversità interne, insistono sul fatto che i carnivori, per definizione, sono cannibali. E lo sono perché gli animali, anche qui per definizione, hanno le medesime caratteristiche (spirituali, se non biologiche) dell’animale-uomo. Essere animale, dicevano i greci, è innanzitutto avere un’anima: di modo che ingerire la loro carne è divorargli quella spiritualità che essi condividono con noi. Ed ecco, appunto, il cannibalismo.

 

Del resto, si ricorderà come Italo Calvino, nel suo progetto di libro sui cinque sensi (uscito postumo col titolo Sotto il sole giaguaro), dedicherà il racconto sul gusto proprio al nesso fra sacrifici umani e antropofagia. Lasciando intendere che il cibo, in un modo come nell’altro, è un’incorporazione sacrificale dell’altro: e nessuna gastronomia, o gastromania, potrà mai dissimulare del tutto questa sua doppia natura godereccia e violenta, gaudente e brutale. Aveva ben chiara la questione quel genio di Claude Lévi-Strauss, dal quale abbiamo sempre qualcos’altro di ragionevole da imparare. Lévi-Strauss, pur non avendo dedicato al tema dell’antropofagia che qualche rapido accenno (si veda Parole date, Einaudi), l’ha perennemente incrociato in tutta la sua opera etnologica, che alle mitologie primitive e alle simbologie dell’alimentazione, come si sa, è per lo più dedicata. In alcuni articoli scritti per “Repubblica” fra il 1989 e il 2000, adesso finalmente raccolti in volume col titolo emblematico Siamo tutti cannibali (Il Mulino 2015), la questione torna invece più volte. Non solo adeguatamente spiegata, ma anche rilanciata, come il titolo del volume appunto ben dichiara, in una più complessiva interpretazione della contemporaneità. Il punto, secondo l’autore del Pensiero selvaggio, non è quello dell’esistenza o meno del cannibalismo, e nemmeno quello della sua eventuale diffusione presso le società cosiddette primitive. Ma semmai quello dell’estrema varietà dei suoi valori antropologici e dei rituali entro cui viene volta per volta collocato. Non esistono difatti soltanto forme di cannibalismo ‘esogamico’ (mangiare i nemici per riavvicinarli a sé e assimilarne la potenza) ma anche ‘endogamico’ (mangiare i parenti defunti per conservarne la memoria). In questo secondo caso, l’antropofagia non ha nulla né di cruento né di sacrificale, e anzi viene accettata a fatica, non senza disgusto, da chi pure la pratica. Spesso, si tratta di ossa finemente triturate dei morti mescolate a verdure e simili, o di carni mummificate ingoiate dopo innumerevoli ed estenuanti pratiche cerimoniali. Il cannibalismo è un atto che ha una pletora di possibili significati: può avere un senso politico (vendicarsi dei nemici) oppure magico (assimilare le virtù dei defunti), come anche rituale (per esempio in una prassi d’iniziazione) oppure terapeutico (usare medicamenti derivati da corpi umani). Più che isolare il gesto cannibalico per esecrarlo, dice Lévi-Strauss, meglio inserirlo (o, meglio, mantenerlo) nel suo adeguato contesto, ovvero nella narrazione che, ponendolo in essere, gli fornisce una funzione sociale e un valore riconosciuto. Quel che è importante, dal punto di vista antropologico, è coglierne, da una parte, i presupposti ideologici (l’antefatto) e, dall’altra, gli esiti pratici per la collettività (la conclusione). Ingerire carne umana, in sé, non vuol dir nulla, né di positivo né di negativo. Quel che conta è l’intera cultura in cui tale azione si svolge, nonché le forme specifiche con cui accade. Può avvenire per via orale, mediante un atto assimilabile a quello del mangiare, come anche per via sanguigna, mediante per esempio un’iniezione. Per certe culture, come per esempio il buddhismo, è cannibalismo mangiare qualsiasi tipo di carne animale (da cui il vegetarianismo). Per altre, come in certe antiche tribù africane o asiatiche, la carne umana è cibo sopraffino, il migliore che esista, e non fa affatto scandalo mandarla giù con estrema soddisfazione. In altre culture ancora, come in certe parti della Nuova Guinea, sembra ci sia un nesso causale fra l’ingestione segreta di parti del corpo umano e alcune malattie degenerative provocate da virus lenti.

 

Da questo punto di vista, superando ogni miopia etnocentrica, anche nella nostra cultura si danno evidenti forme di cannibalismo, se pure – dice non senza ironia Lévi-Strauss – sotto forma metaforica. Associare l’assimilazione di elementi umani e malattie infettive, come è accaduto per esempio nel corso del famigerato episodio della ‘mucca pazza’ (a cui Lévi-Strauss dedica pagine accorate), significa ragionare in termini del tutto analoghi a quelli di certe forme tradizionali d’antropofagia che legano le pratiche cannibaliche a precise conseguenze deleterie per la collettività. Se siamo tutti cannibali, anche se ciascuno a suo modo, è dunque perché – ed è questa la lezione profonda del grande antropologo francese – fra le culture tradizionali e la nostra c’è molta minore distanza di quanto non si creda. Alla luce dei millenni che sostanziano la storia della specie umana, noi non siamo che la piccola variante di un’evoluzione complessiva il cui senso inevitabilmente ci sfugge. Piuttosto che bearci nelle ingenue sicumere del nostro ipotetico razionalismo, meglio comprendere quanto di mitologico, di magico, di misterioso c’è ancora in noi. Mangiare l’altro è prassi quotidiana: metaforica forse, ma non per questo meno fondamentale. L’uomo è ciò che mangia, lo sappiamo; ma ciò che mangia è sempre un’alterità che egli riduce, trasformandola, a se stesso. Scrive Lévi-Strauss: “il modo più semplice per identificare un altro consiste nel mangiarlo”. Italo Calvino l’aveva capito molto bene.

 

 

 

Il libro: Claude Lévi-Strauss, Siamo tutti cannibali, presentazione di Marino Niola, postfazione di Bernardo Valli, Il Mulino 2015, pp. 171, € 14

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