Speciale
Tempo di libri - maestri / Le superfici di Bruno Munari
Per contribuire a un momento d’incontro, approfondimento e scambio come Tempo di Libri, la fiera del libro che si terrà a Milano dall'8 al 12 marzo, non abbiamo solo creato uno speciale doppiozero | Tempo di Libri dove raccogliere materiale e contenuti in dialogo con quanto avverrà nei cinque giorni della fiera, ma abbiamo pensato di organizzare dieci incontri: maestri che parlano di maestri.
Sabato 10 marzo, alle ore 16.00, Mario Calabresi parlerà di Bruno Munari.
Un uomo corre nella nebbia milanese. Impomatato e ben vestito si lancia lungo il marciapiede della strada, coglie il semaforo verde, sfreccia tra una rotaia e l’altra del tram, distende il passo lungo nella maniera operosa e concreta di chi conosce bene il lastricato, acquista velocità, poi rallenta con passo calcolato: sa che alle strisce può non attendere – che è solo un fluire un poco più lento – e subito l’abitudine guida i suoi piedi ben calibrati in una linea sempre più retta e veloce: ogni svolta è un angolo a novanta, ogni incrocio una diagonale, il piegarsi della strada una curva ben tesa, afferrata nella rapidità incosciente di un pensiero che della città non sa più cosa farsene. Fino all’inciampo. E nell’inciampo, nello sgambetto irriverente e sgarbato che ci riserva il mondo, costringendoci ad attribuire peso al cordolo che per un momento ci trattiene, si vola, obbligati dalla palese irriverenza a mostrarci come marionette, o corpi squassati che si scompongono e proiettano maldestramente nell’aria, sospesi per qualche istante a un destino impensato, prima di ritrovare gli equilibri perduti.
Ma nell’apertura mossa dall’inciampo, come in una parentesi mai chiusa, il pensiero si slarga e rotola sulla propria strada, quasi che l’aria, appena liberata dal passo insistito del cammino e dalla tenaglia stringente dello spavento immediato, si facesse più sottile. E un’estraneità apparisse, tremando, alle soglie della persona.
Che l’incidente sia un’apertura leggera dell’immaginazione – davvero un volo –, a partire dalla materia pesante e opaca che lo produce lo ha suggerito Munari in tutta la sua opera, lavorata poeticamente con acutezza dentro quelle soglie del visibile in cui la materia produce i suoi attriti: dove dominano gli interstizi e le fratture, e dove i linguaggi producono le loro disconnessioni. Come una lama ben affilata che insinua le polpe incerte e le giunture vuote della significazione.
La gioia poetica del volo, anni Trenta.
Il titolo della recente mostra londinese Bruno Munari: il mio passato futurista (a cura di Miroslawa Hàjek in collaborazione con Luca Zaffarano), dedicata agli esordi di Bruno Munari negli anni Trenta e Quaranta del Novecento, suggerisce già un nodo alla lingua, come se i termini necessari a descrivere l’origine della sua opera complessa fossero anche un modo per riannodare fantasticamente il tempo e la storia in un bisticcio linguistico che nasconde in sé un attrito arguto e vaporoso del pensiero.
Se l’intero lavoro di Munari sfugge alle categorie specializzate di un ragionare costrittivo (ora lo si scopre artista, ora grafico, ora designer, ora – con un termine da lui coniato per le nuove figure dell’arte – operatore visuale, sempre scrittore e poeta nelle invenzioni del racconto) è perché attraversa i punti nodali del fare visivo, i luoghi in cui le forme, mai cristallizzate, si scoprono sempre allo stato nascente: dove un linguaggio fugge nell’altro, dove hanno posto gli accidenti della comunicazione, dove la lingua sobbalza, si disorienta e collassa.
Il doppio escludente con cui si legge il mondo (alto o basso, sopra o sotto, recto o verso) con la sua presenza rassicurante e simmetrica viene qui deflagrato: cade in se stesso nei bordi paradossalmente nitidi di un’impossibile convivenza (nei Negativi Positivi), si torce nei giochi spiazzanti e bifocali della lingua (è così che nei Disturbi semantici la gru di un cantiere può prendere felicemente il volo), si apre a ventaglio inseguendo la varietà del segno e il mobile sguardo che sempre lo precede (gli infiniti modi di disegnare un volto), si torce ribaltando l’ordine topologico con cui le cose si mostrano al nostro sguardo (nel taglio dell’insalata troviamo, allora, il disegno delle rose); condensa in un presente che si fa vetrina per oggetti di futuri e di passati immaginari (gli oggetti reperti, i Fossili del 2000).
Danza sui trampoli, 1935.
Persino il breve testo di istruzioni per l’uso di una scultura da viaggio da togliere dalla busta e aprire come un leggero biglietto augurale, diventa un singolare e divertito campo di equivoci in cui destra e sinistra della mano, dell’opera, possono essere confuse e funzionare per sbaglio (o per troppa aderenza alla direzionalità) in senso opposto: un qui pro quo del verso, del duplice modo di afferrare qualcosa che confonde, che si ribalta e si moltiplica disorientando. Tutto sembra allora diventare complesso e un nodo arioso si dà a leggere nella normalità delle cose.
È qui che il senso di una lingua trova i suoi spazi nella superficie, dove cominciano a mancare i termini di paragone, dove ogni cosa ha perso gli indici classificatori della propria misura o, al contrario, la crudezza di un codice viene presa, frantumandosi, alla lettera: si vedono allora apparire le tavole alfabetiche grondanti di senso, pregne di ogni genere di linguaggio e stile e mondo linguistico, tutto un pullulare di segni che sulla superficie del foglio chiedono, con la sola presenza, come sia possibile questo loro mostrarsi, parlare e farsi capire a noi tutti. Immagini scontornate di conchiglie, di corde, di bottoni, lastre fotografiche, stampe di figurine ottocentesche, biglietti ferroviari, etichette per quaderni, lettere dorate, disegni, impronte: giacciono tutti insieme sui fogli di ABC Dadà e si infilano, sottoforma di parole dall’iniziale comune, nella collana apparentemente ordinata di un racconto che invece diventa un bizzarro prodotto dell’immaginazione fatto di contrasti, spaesamenti e follie visive che scaturiscono dagli improbabili accostamenti.
ABC Dadà, copertina, e ABC Dadà, lettera F, 1944.
È una riflessione sul visivo quella che si produce negli alfabetieri, intesi come origine dei mondi scritti del nostro sapere, ma anche come promesse di tutti i segni (e mondi) possibili: luoghi ancora misteriosamente vicini (e per questo affascinanti) al primo manifestarsi della parola scritta, dove il suono diventa segno, la lettera è ancora immagine e il linguaggio visivo vibra a contatto con quello verbale. Munari torna e ritorna a comporre e ricomporre negli anni la forma delle lettere e dei loro abbecedari, come se quell’amalgama elementare da cui nasce la parola scritta non sia mai risolto e mai sia completo: sia anzi da riproporre nello spazio della pagina con un continuo cambio di modo, ridente e serissimo, dentro le molteplici materie costitutive del senso.
Non c’è forse grafico che abbia saputo capire la superficie meglio di Munari, che ne abbia messo in moto i passi conoscitivi, difficili e profondissimi, perché innestati per levitazione, per sospensione, in un sapere che affiora al di qua del linguaggio con quella leggerezza che corrisponde a un colpo di immaginazione, a un flusso o passaggio di segno da riscoprire all’epidermide del suo contenuto, in una prossimità col visibile (dove l’occhio e la mano cadono sulla pagina) che precede qualsiasi presa di significato.
È, quello di Munari, un tendere non alle profondità laceranti, torbide e abissali del linguaggio nella ricerca dei suoi fondali nascosti, ma – con un guizzo di risalita – sempre più al limite di quelle soglie su cui si espone visibilissima la forma con tutte le contraddizioni e i misteri del proprio apparire. Alla profondità del soggetto fa da controcanto, allora, l’estensione (culturale) della superficie e alle lusinghe vuote di uno stile risponde un radicato, personalissimo, modo dello sguardo che sa affidare i propri saperi e le proprie immaginazioni anche alle casualità dell’esterno (così accade alla distesa del mare battuta dal vento).
I Libri illeggibili come le Scritture illeggibili di popoli sconosciuti erano gli oggetti inventati alle soglie di questa conoscenza di superficie dove, sottratta la parola scritta restava a parlare un corpo di carta (una rilegatura, un formato, un taglio, un colore); e dove, sottratto il codice di leggibilità dell’alfabeto, restava un sistema di puri segni solo da contemplare. Tutti oggetti votati all’apparente silenzio delle superfici, che invece chiedono, per poter raccontare, un coinvolgimento materico e uno sguardo immaginativo capace di far parlare il sensibile.
Studio di libro per bambini, 1935
Anche i buchi, come i tagli e le pieghe che tornano più volte nei libri di Munari, sono luoghi nodali delle superfici: sono un cadere a picco nello spessore delle carte, sono una negazione, un presente sottratto.
In una delle tavole degli anni Trenta, uno dei primi studi di libri per bambini, due uccelli becchettano già serenamente il vuoto tondo dei fori che si sparpagliano sulla pagina come sementi capaci di convertire l’immagine nello spessore tattile del foglio.
Viene l’idea di ripensare ai buchi delle strade, al cordolo del marciapiede, agli angoli sconnessi delle mattonelle di cemento, come cose minime che torniamo a guardare dialogando. E che, a parlarci insieme (scrivendo, raccontando), si scopra come la verità dello sguardo non sia più sospesa nell’inavvicinabile presenza del lontano, di mondi ultraterreni (l’ultraterreno di Munari gioca semmai col paradosso del tempo e ha luogo sempre pronto nella carta, a seconda di come si definiscono le evidenze comunicative di una società intera: questa è un’impronta, questa una mappa, questo è un alfabeto senza popoli – o per popoli a venire – , questo un reperto – di popoli già passati o mai esistiti – , questa è la prova fotografica dell’esistenza di un’immaginaria isola dei tartufi), ma che il guardare sia invece qui, nella sorpresa di ogni giorno, lontano da ognimirabolante percezione, ricondotto alle superfici o ancora più vicino, dove l’illusionista gioca sicuro e non visto i suoi miracoli: più in qui, nel senso di più prossimo allo sguardo, per vedere non più le illusioni del mago, ma la magia delle cose.
Questa stessa leggerezza di segni e di gesti scosta Munari dalla comicità corporea dei protagonisti del teatro futurista che si scontravano e si spaccavano negli spazi esorbitanti della messa in scena, di cui lui pure continua le tante intuizioni (il tattilismo, i tagli del sipario in spettacoli per sole gambe, le scenografie per caratteri tipografici) riorganizzandole in una visione tutta personale con un sapore più familiare, affettuoso, sereno. Magica allora è la sfera di Natale che pende da una delle sue Macchine inutili, come a dire che tra la geometria di aste aggettanti nello spazio e sospese negli equilibri orizzontali in attesa di un colpo di vento che le faccia ruotare, torna, mai dimenticato, il mondo: quell’impasto di saperi, ricordi, presenze, quel coagulo di vissuti che sono la prima amorevole base del segno (qui oggetto e pelle di vetro lucente) che Munari torna ogni volta a raccontare come materia viva di un codice “ovvio” (P. Fossati) e inosservato che è alla radice di ogni comunicazione.
Dismessi i luoghi pubblici della rappresentazione spettacolare e provocatoria, gli spazi dell’azione si fanno più intimi (di un’intimità anche qui paradossale, che appartiene al corpo culturale, esposto e condiviso, del senso) personalmente dedicati a ciascuno: ciascun osservatore che si fa protagonista delle opere, muovendo, guardando, o rifacendo a proprio modo.
Le forme “rivelatrici”, come aveva chiamato Munari le semplici sagome di carta che cadendo dall’alto di una torre dovevano produrre il calco conturbante dell’esistenza dell’aria, sono in realtà tutti gli oggetti da lui progettati, che si mostrano per singolarità segniche – di traccia, di patina, di contorno – e che irrompono con leggerezza sotto forma di aritmie, singhiozzi, balbuzie: tutte divaricazioni sottili dello spazio e del tempo capaci di rifondare lo sguardo.
Proprio come un inciampo che per brevi attimi sospende il cammino: poi qualcuno, maledicendo, prosegue la sua corsa; qualcuno si volta stranito a riguardare la strada; qualcuno continua, inosservato, il proprio volo.