La catena del destino: su Cloud Atlas romanzo e film
Nel 2004 ho trascorso molto tempo congedandomi per il momento dalla traduzione di narrativa, nel match affascinante e complicato con un romanzo cifrato e incatenato dal titolo L’atlante delle nuvole, notevole opera di David Mitchell. Un’opera piena di slang, neologismi, apax legomenon, e altre meraviglie linguistiche: il tutto connesso in una serie di vicende che hanno un unico comune denominatore. Il principio che ispira il libro, strutturato in sei storie fra di loro strettamente connesse, è infatti quello di una specie di allineamento delle anime durante i tempi, entità destinate a rivivere le stesse esperienze in momenti diversi della Storia. Alcune creature predestinate portano un segno, a forma di stella, che le identifica per determinate prerogative di visione (che spesso contribuiscono a portare quelle fortunate creature alla rovina). Per realizzare una versione italiana (firmata insieme a Lorenzo Borgotallo), di questa polifonia linguistica, è stato necessario un lungo dialogo con l’autore. Nel frattempo si creava, con gli ovvii décalages tra un paese e l’altro, in merito ai tempi editoriali, un team di traduttori che discuteva animatamente su sfumature e ipotesi possibili (in specie per i neologismi postapocalittici).
La vicenda civetta con la fine, l’estinzione, la morte, l’assenza: il tutto per riconfermare la centralità dell’esperienza umana. Giunge una estinzione non meglio precisata, da cui si salva la popolazione sapiente dei prescienti, che hanno il compito di tramandare la scienza a un mondo che vive di primarie necessità e che ha perduto le nozioni e i punti di riferimento. Eppure, nel corso di un tempo lungo, le stesse pulsioni tornano su sfondi diversissimi: un viaggio avvelenato nel Pacifico a metà Ottocento, come anche nelle Fiandre degli Anni ’30. Qui si ambienta la storia per me più coinvolgente, per crudeltà e bizzarria, che narra di un’esistenza che giunge al culmine e si spegne producendo un capolavoro musicale: un sestetto che ha come titolo L’Atlante delle nuvole. Il libro si offre come macchina narrativa indipendentemente dalle teorie filosofiche che adombra e può essere fruito in diverse modalità.
Il nuvolario è uno strumento che serve a mappare le forme del cielo, il suo scorrere. È anche un gioco amato da molti, basti ricordare le scorribande di Fosco Maraini, che componeva testi curiosi su queste figurazioni. Uno studioso ottocentesco, Pietro Maffi, ne propose una attenta catalogazione, in una sua monografia del 1897, come per raffigurare una più autentica immagine del mondo. Mitchell vuole creare una struttura narrativa che agisca come un ossimoro: massima stabilità e estrema leggerezza allo stesso tempo. Il libro che ne risulta è fascinoso e talvolta divagatorio, acclamato in UK ma passato abbastanza sotto silenzio alla sua prima edizione da Frassinelli nel 2005 (è stato da poco ristampato in occasione dell’uscita del film e forse avrà miglior destino), e riesce a unire in una stessa tessitura luoghi del pensiero lontani tra loro.
Quando tre anni fa si è sparsa la notizia della realizzazione del film L’atlante delle nuvole, a opera dei due fratelli Wachowski (celebri per Matrix) e di Tom Twyker, che oltre che cineasta è anche compositore (e firma l’integrale delle musiche del film, incluso il nuovo Sestetto atlante delle nuvole, che è la chiave di volta del film), decisamente molti hanno espresso perplessità per la trasposizione sullo schermo di un’opera che lo stesso autore, all’inizio della storia del romanzo, aveva definito come “infilmabile”. Eppure, il progetto si è compiuto in chiave di kolossal filosofico, con attori famosi, ricostruzioni sontuose, e una decisa idea del make up come visione del mondo. Gli stessi attori principali (Tom Hanks, Halle Berry, Ben Whishaw) e numerosi altri, interpretano infatti i molti personaggi, che vengono definiti spesso per tramite di un trucco sofisticato. Il risultato a un primo sguardo da spezzoni e anticipazioni, è decisamente meno tagliente del volume di partenza, con certe sottolineature new age di troppo. Da noi, a pochi giorni dall’uscita, sono già arrivate le prime stroncature, come quella accesa di Natalia Aspesi su “Repubblica”. Negli Stati Uniti il risultato al botteghino è stato modesto e la critica si è divisa a metà, tra fautori e detrattori, in Europa le aspettative sono alte. Tra poco vado al cinema e, sentendo anche qualche parola della mia traduzione che rimbalza nel doppiaggio, vedrò per intero la trasposizione di questo romanzesco viaggio alla scoperta della catena del destino dell’umanità.