Il cinema al tempo delle GIF
Quando mi capita di riaprire una conversazione di Skype e trovo che le faccette inviate in quella precedente sono ancora lì ad ammiccare, come se non avessero mai smesso di farlo, mi coglie un vago senso di inquietudine. Quello che mi turba sempre un po’, nelle animazioni GIF, ha probabilmente a che fare con questa istantanea impressione di eternità: la loro struttura che si svolge e riavvolge attorno a un brevissimo loop, a volte contratto fino a una vibrazione prolungata, uno sfarfallio. E, insieme, il loro ilare automatismo, la loro beata indipendenza da qualsiasi nostro gesto di attivazione: le GIF si sottraggono al controllo offerto dal digitale, che ci consente di arrestare, alterare, plasmare la durata di ciò che riproduciamo: apri un link e sono già lì. Ad agitarsi. Da sempre.
A qualcuno piace caldo (Billy Wilder, 1959)
Il .gif (Graphics Interchange Format) è un formato per immagini digitali inizialmente molto diffuso in internet, grazie alla qualità che garantiva la sua compressione: se il .jpeg l’ha ormai surclassato come standard per le immagini di definizione medio-bassa, il .gif ha fatto fortuna soprattutto componendosi in sequenze di immagini contenute in unico file, che sono state tra le prime forme animate ad aver popolato la rete. A guardarle oggi, quelle icone lampeggianti e roteanti, con la loro misera tavolozza a 256 colori e i pixel squillanti come bigiotteria pacchiana, si presentano come qualcosa di già incredibilmente arcaico e decrepito. Forse è proprio questa decadenza accelerata ad averle riportate in auge in una certa estetica contemporanea, che valorizza imperfezioni e grossolanità di un digitale non ‘leccato’ dall’alta definizione.
The Skeleton Dance (Walt Disney, 1929)
Ma se le GIF sono ormai diventate un supporto molto in voga tra gli artisti, questa non è che la cresta di una nuova ondata che ha invaso la rete da qualche anno a questa parte e che, oltre a quelle primitive, ne ha diffuse altre tipologie, soprattutto quelle che impiegano immagini con una base fotografica. Alcune si presentano come fotografie apparentemente fisse, in cui solo pochi elementi sono in movimento (esiste anche un’applicazione per produrre questo tipo di immagini col proprio smartphone): le GIF di questo genere mirano soprattutto all’effetto sorpresa di una foto in cui qualcosa all’improvviso prende vita, come un battito di palpebre o un ciuffo di capelli mosso dal vento. Ci sono poi le GIF “stereoscopiche”, composte da immagini di uno stesso soggetto prese da angolazioni lievemente differenti: il movimento non riguarda tanto un elemento nel quadro, quanto il quadro stesso, che sembra scuotere il suo contenuto (più che renderne la tridimensionalità, come suggerisce il nome). Infine (la tipologia forse più diffusa e certo quella che qui mi interessa di più), ci sono le GIF “cinematografiche”, prelievi di pochi secondi da un film o da una trasmissione televisiva, che vengono sezionati e ricomposti: una specie di cristallizzazione del gesto ormai familiare con cui arrestiamo e riavvolgiamo ciò che stiamo guardando.
Il grande Gatsby (Baz Luhrmann, 2013)
In omaggio a questa proliferazione, l’edizione americana dell’Oxford Dictionary ha eletto “GIF” parola dell’anno per il 2012. Interessante notare che a essere inclusa nel dizionario non è stata la forma sostantivata che indicherebbe il file, ma il verbo “to gif”, ossia l’azione di creare una GIF: dato che la gran parte delle GIF che circolano sono prodotte a partire dal campionamento di brani video pre-esistenti, possiamo pensare che la popolarità del verbo si leghi soprattutto a questa operazione sull’immagine in movimento, che al tempo stesso la blocca e la destina a un moto perpetuo. Un’azione compiuta ogni giorno da un numero relativamente ristretto, ma sempre in crescita, di blogger e utenti di vario genere: dal cinefilo che immortala momenti memorabili nei suoi film preferiti al collettore di amenità e oscenità televisive, dall’appassionato di gattini al nerd che campiona solo cartoni animati giapponesi o videoclip anni Ottanta. Senza contare tutti coloro che poi condividono quelli immagini.
La ballata di Stroszek (Werner Herzog, 1977)
Questa azione mi fa pensare a una sorta di risucchio applicato al movimento del cinema, che ne inverte il corso o meglio lo decompone, riportandolo ai suoi due principali affluenti: l’animazione e la fotografia. La prima si riaffaccia nella micro-eternità circolare che era propria dei giocattoli ottici pre-cinematografici, come il taumatropio o il fenachistoscopio, strumenti di un piacere scopico tanto effimero quanto infinitamente ripetibile. La reiterazione di un singolo movimento, di un gesto, di una smorfia, riattiva la vitalità inorganica che è principio e origine del cinema in quanto rianimazione di immagini fisse, ma con una nuova intensità, dovuta alla circolarità ossessiva della gesticolazione, che ne riafferma paradossalmente la fissità: le timide vibrazioni o le convulsioni teatrali di cui sono preda le GIF si richiudono sempre su se stesse, ognuna permane nella sua piccola teca virtuale, confinata nello spazio e nel tempo. Come già accennato, molte GIF giocano sulla soglia dell’immobilità, offrendosi come una “fotografia animata”, ma la ragione per cui questa definizione coglie un aspetto fondamentale non dipende tanto da questo gioco esplicito né dalla natura fotografica dell’immagine, che in questo senso non è essenziale. Della fotografia, le GIF, riaffermano soprattutto il carattere di frammento, che le rende maneggiabili e collezionabili.
Fight Club (David Fincher, 1999)
Per quanto possa sembrare astruso concepire in questi termini un file digitale attivato attraverso la rete, sono proprio questa disponibilità tattile (o il suo residuo sublimato nell’azione della condivisione) e questa frammentarietà a farmi sospettare che le GIF animate siano in qualche modo più vicine alle ‘vecchie’ fotografie (quelle che si stampavano) di quanto lo siano al cinema. Rinchiudendosi in se stessa, la GIF, tende infatti a comportarsi come un oggetto, un oggetto la cui natura è molto lontana dall’esperienza che facciamo del cinema: poiché questo è, appunto, innanzitutto un’esperienza, piuttosto che un oggetto definito. Emerge allora un paradosso, che appartiene allo stato digitale del cinema nel suo complesso: alla progressiva smaterializzazione dei suoi supporti corrisponde un’impennata delle pulsioni feticistiche di cui esso può essere fatto oggetto. Consentendoci di afferrare e collezionare ogni singolo momento di un film, le GIF si presentano come uno dei sintomi più lampanti della sindrome di appropriazione che caratterizza sempre più il nostro rapporto col cinema: mentre esso si fa sempre più accessibile, offrendosi in una potenziale, vertiginosa sincronia, tutti i mondi che sono stati, e sono ancora, costruiti per suo tramite si frantumano in miriadi di schegge, che trattengono sussulti della sua mobilità. Ovviamente tutto ciò non modifica per forza l’esperienza che facciamo del cinema in quanto tale, ma spinge a chiedersi che tipo di esperienza ci propongono queste cose che derivano dalla sua deflagrazione. Per quanto possiamo raccoglierle, esse restano opache e sfuggenti.
Quarto potere (Orson Welles, 1941)
Lasciandole scorrere una dopo l’altra sulla bacheca di Tumblr oppure tutte incastonate nella griglia di una pagina d’archivio, osservo quello strano formicolio: scatti convulsi, piccoli tic, un intero atlante di gesti interrotti e ripetuti. La sensazione è di fascino e repulsione: difficile descriverla, ma mi viene da paragonarla al ribrezzo che mi coglieva da bambino quando trovavo in un libro la fotografia di un insetto e stavo ben attento a non sfiorarla nemmeno con un dito. È nel loro essere cose, dotate di una vita per me inconcepibile, che le GIF mi provocano questi rigurgiti di animismo infantile. Immerse nelle loro routine, sembrano intoccabili, come sonnambuli che non possono essere svegliati; eppure, in qualche modo, non riesco a non pensare che in tutto quell’agitarsi mi stiano rivolgendo un cenno. Mi rendo conto di quanto possa risultare bizzarra questa prospettiva. Inevitabile che lo sia, dato che siamo invitati ad approcciare le immagini come semplici oggetti, che si rendono sempre più disponibili, in masse sempre meno quantificabili; tanto più quando sono immagini povere e di rapido consumo come le GIF. Oggetti da esaminare e condividere, oggetti di facile scambio e investimento transitorio: basta chiedersi che cosa vogliamo da loro in quel preciso momento. Ma forse, come suggeriva W. J. T. Mitchell, in un saggio di qualche tempo fa, a volte bisognerebbe chiedersi “Che cosa vogliono le immagini?”.