Femen. L'Ucraina non è in vendita
Ukraine Is Not a Brothel, l’Ucraina non è un bordello. È questo il titolo originale del documentario d’inchiesta sul gruppo “femminista” ucraino (oggi parigino) Femen, firmato dall’australiana Kitty Green e dal 12 giugno visibile anche in alcune sale italiane.
Chissà perché il nostro distributore, I Wonder Pictures di Bologna, ha sentito il bisogno di edulcorare
(e falsare) il titolo di un’operina che rispecchia senza travestimenti teorici la strategia mediatica e le armi comunicative delle quattro attiviste ucraine fondatrici di Femen – Inna Shevchenko, Sasha Shevchenko, Anna Hutsol, Oksana Shachko – e del loro guru o leader storico, Viktor Svyatskiy.
Chi andasse a vedere il film per sapere quali sono i moventi e i riferimenti politici e intellettuali del gruppo si disponga placidamente a essere deluso da un lato e incitato a pensare in proprio dall’altro. Le attiviste Femen, belle e astratte come manichini, incorporee benché il loro strumento di lavoro sia proprio il corpo, gelide e ardite come kamikaze, non sanno dire granché di se stesse, delle forme di lotta che praticano, dei loro obiettivi, della loro visione del mondo.
Marina Abramovic. Lips of Thomas. 1975
Parlano – ed è una scelta precisa, visto che alle donne è “sempre stato impedito di parlare altrimenti” -
attraverso il corpo, anzi, più esattamente, attraverso il seno, simbolo supremo della cosiddetta femminilità: oggetto erotico, ma anche metonimico significante del materno. Non è da lì che sgorga il latte? Non è in quella conca che si incunea il neonato?
Un capovolgimento e una riappropriazione in cui il tetro discorso di chi opprime si converte, senza ironia,
nella rivolta discorsiva dell’oppresso, costretto a dirsi attraverso l’immagine di sé che gli si è incollata addosso: un corpo nudo, vulnerabile e potente, che da sé si dissacra dissacrando i simboli di chi lo riduce a semplice incarnazione del desiderio e del bisogno altrui.
E parlano – la sfida, per la spettatrice e lo spettatore, si fa qui ancora più dura – per cliché, frasi fatte,
slogan,espressioni a dir poco icastiche, perché Femen è innanzitutto un marchio, un brand, qualcosa che deve forare la cortina mediatica, sbaragliare la concorrenza (delle idee? del mercato? del mercato delle idee? dell’idea di mercato?) e farsi strada fino al nostro inconscio e da lì fino alle nostre case, alle nostre cucine, ai nostri letti.
Shirin Neshat. Nida and Muhammed (Patriots), from The Book of Kings series, 2012
Corpi e slogan, “urlati” entrambi, letteralmente sbattuti in faccia a chi non preferisca chiudere occhi e
mente, vanno decodificati, interpretati, letti non con gli strumenti del passato, ma con quelli attuali, ahimè sempre più poveri, sguarniti, provvisori. Se vogliamo evitare di offrire le risposte di ieri alle domande di oggi, se – come scriveva Marshall McLuhan già nel 1967 – non vogliamo “avanzare all’indietro nel futuro, osservando il presente attraverso uno specchietto retrovisore”, proviamo dunque a guardarle e ad ascoltarle bene queste “femministe”, che sembrano ignorare il complesso corpus teorico prodotto dai femminismi occidentali ed essere fortemente indebitate con le strategie di marketing, la pubblicità, la guerriglia mediatica, nonché, forse senza neppure saperlo, con alcuni movimenti femminili dei paesi “impoveriti”, l’Africa, l’India, il Medio Oriente.
La regista – ucraina per parte materna, bionda, graziosa e lievemente seriale – ha fatto intensivamente
quello che forse dovremmo fare anche noi guardando il suo film: ha osservato, ascoltato, partecipato, registrato, sospendendo il giudizio per il tempo necessario a entrare nelle ragioni del suo ‘oggetto’ d’indagine. Per quattordici mesi ha vissuto insieme a loro in un bilocale di Kiev: le ha viste vivere, preparare le loro azioni di guerriglia non solo mediatica, obbedire al loro capo politico, tenere in esercizio il corpo, addobbarlo, dipingerlo, inscriverlo, esporlo, portarlo al macello, ma anche esibirlo in programmi televisivi di vari paesi del mondo e in tournée internazionali che neanche Madonna negli anni d’oro.
Ingenue, pure, ignoranti, sprovvedute, obbedienti, remissive, fanatiche, missionarie, sadomaso, incoscienti, confuse, presuntuose, elitarie, le quattro Femen intervistate e filmate da Green non sembrano interrogarsi più di tanto: agiscono. E l’azione, come sanno militari e militanti (le donne, in genere, meglio degli uomini), espone al rischio, ma è parecchio gratificante. Permette di pensarsi soggetti e non più oggetti (ricordate lo slogan “Il corpo è mio e lo gestisco io”? Antidiluviano e tuttavia…), di avere la sensazione di cambiare il mondo o almeno di non subirlo passivamente, di disegnarsi da sé il proprio destino, di esistere fuori da schemi sociali preconfezionati, di sfondare le gabbie di classe, nazione, genere, razza in cui si viene al mondo.
Shirin Neshat. Speechless. 1996
L’azione, va da sé, mette in conto il sacrificio ed è imparentata con la morte. Essere eroi e martiri non è cosa per tutte e per tutti, prevede ardimento e abnegazione o disperazione. L’azione militante è uno sport estremo: ci si immola solo per soldi o per sdegno, per interesse o per protesta.
La posta in gioco dichiarata dalle Femen è la trasformazione del mondo a favore delle donne. Via le
istituzioni che le sfruttano, le piegano, le affamano, le mortificano, le mercificano, le opprimono, le uccidono: via la famiglia patriarcale, via il traffico sessuale, via le Chiese e la loro doppia morale, via le gerarchie sociali, via lo sfruttamento del corpo già e sempre femminile se scorporato da un cervello, un logos, una volontà.
Le Femen non cercano alleanze, non creano movimento. Alla maniera degli anarchici di fine Ottocento o di alcune/i artisti contemporanei credono nel gesto esemplare: parlano (pensano di parlare) a nome di tutte e di tutti. Colpiscono e si espongono ai colpi secondo una logica così arcaica da attingere al mito (chi altri, se non le amazzoni o Sant’Agata meschina, poteva essere tanto fissato col seno?), usando tuttavia tecniche da superpubblicitari del ventunesimo secolo: istantaneità, imprevedibilità, ubiquità coniugate con una ripetitività testarda e creativa.
Shrin Neshat. My House is On Fire, from The Book of Kings series, 2012
Non è un caso che le azioni più simbolicamente potenti di queste leggiadre conigliette in jeans siano quelle in cui riescono a spingersi più a ridosso del potere o della sua effigie. A Minsk, nel giugno scorso, durante una cerimonia pubblica alla presenza del presidente, Alexander Lukashenko, irrompono sulla scena a petto nudo (ma sulla schiena di una di loro, l’unica ‘brutta’ ammessa nel gruppo a fini tattici, è disegnato il volto dell’“ultimo dittatore d’Europa”) chiedendo a gran voce la liberazione dei prigionieri politici. Il regime si vendicherà compiendo un atto di ritorsione ‘speculare’: le sequestrerà e le abbandonerà, di notte e completamente nude, in una foresta a qualche chilometro dal confine con l’Ucraina. Pochi giorni fa, al museo delle cere di Parigi, una Femen distrugge la statua di Putin, lì conservata in compagnia della copia a grandezza naturale dei governanti della terra. In altre occasioni hanno inscenato crocifissioni femminili o segato la base di grandi crocifissi lignei collocati in luoghi pubblici. Più chiaro di così.
Kitty Green, a chi le domanda cosa mai l’abbia spinta a occuparsi delle Femen, risponde imperturbabile: “Le loro contraddizioni”. Il fare sganciato da una teoria; la direzione patriarcale di un’organizzazione che ha come obiettivo dichiarato la fine del patriarcato (ma anche Marx, si difende il loro leader, era un borghese che voleva farla finita con la borghesia); un pacifismo proclamato e tuttavia visibilmente innamorato/bisognoso del proprio negativo, la forza bruta della polizia e quella più sottile, ma non meno violenta, dei media. Tra le scene più interessanti del film ci sono quelle in cui vediamo le Femen – in action – attraverso l’occhio letteralmente sordido degli apparecchi fotografici, delle telecamere, delle cineprese e dei telefonini che le riprendono, quasi leccandole e palpandole. The Medium is indeed the Massage.
Per chi volesse saperne di più sulle Femen, soprattutto dopo la loro recente migrazione a Parigi e l’emancipazione dalla loro ‘mente pensante’ Viktor Svyatskiy, è disponibile on line un altro film documentario di sessantasei minuti: Nos seins nos armes, la cui regia è co-firmata dalla francese Caroline Fourest e dalla tunisina Nadia El Fani. A differenza del documentario di Kitty Green, che insiste appunto sulle contraddizioni del gruppo (una minisetta che, mutatis mutandis, fa pensare alle conigliette di Hugh Hefner, signore delle anime e geniale creatore di “Playboy”, e al suo impero economico), Fourest e El Fani stanno dichiaratamente dalla parte delle Femen e cercano di ‘collocarle’ all’interno della storia dei femminismi mondiali. Godibilissime, nel loro documentario, le interviste a alcune femministe storiche francesi, che con olimpica tranquillità bypassano la faccenda del nudo e si interrogano sugli strumenti per fare breccia politica in un’epoca retta dal principio di assuefazione, in cui tutto e il contrario di tutto hanno uguale cittadinanza.