Michele Serra. Gli sdraiati

11 Novembre 2013

Bisogna partire dal finale per capire il senso di questo racconto-saggio-monologo interiore, Gli sdraiati (Feltrinelli) di Michele Serra. È lì che appare evidente cosa è in gioco nella storia di un padre che cerca il contatto con il proprio figlio, e non riesce ad averlo. Dopo aver perseguitato il ragazzo, un tipico adolescente d’oggi, nativo digitale, come si dice, uno “sdraiato”, con la prova della salita al Colle della Nasca, il padre riesce a trascinarcelo. Una salita faticosa compiuta dall’adolescente con le scarpe e il vestiario inadatto. A un tratto il padre perde il figlio di vista. Pensa che sia rimasto indietro, crede di doverlo soccorrere, e invece il ragazzo l’ha superato. Lo chiama e lui risponde: “Sono quiiiii! Papààààà!”.

 

 

 

La parola – papà – risuona per la prima volta. L’uomo ascolta “il nome del padre nella sua forma infantile”. Ha un sussulto di spavento. Sarà in difficoltà? Poi capisce: è più avanti di lui, è lassù, sta per arrivare in cima. La sua risposta è perfetta: “Aspettami!”. Ma il ragazzo non risponde, non lo sente più. La conclusione paradigmatica: “Finalmente potevo diventare vecchio”. Appartengo alla generazione di Serra e come lui ho dei figli, delle figlie – il che è un poco diverso che essere genitori di maschi. Per noi diventare vecchi è un incubo e insieme un porto sicuro, una paura, quasi uno spavento, e un approdo. La generazione nata tra la fine degli anni Quaranta e la fine dei Cinquanta, è senza un punto di partenza e senza un punto d’arrivo certo. Rimasta a metà strada tra il vecchio mondo, andato in pezzi alle nostre spalle (anche con il nostro contributo), e il nuovo in cui non siamo ancora giunti e forse non giungeremo mai. Il Sessantotto, sia che vi abbiamo partecipato, sia che siamo stati testimoni secondari, ha bruciato le navi con cui eravamo arrivati, e addio possibilità di ritorno.

 

Siamo eterni figli senza più padri, e padri senza veri figli. Una lunga storia che comincia ancor prima, come ha raccontato in un libro rivelatore qualche anno fa lo psicoanalista Luigi Zoja (Il gesto di Ettore. Preistoria, storia e attualità e scomparsa del padre, Bollati Boringhieri). A un certo punto del nostro viaggio abbiamo capito che la figura del Padre, a differenza di quella della Madre, è un artificio, una costruzione, una forma di auto imposizione. I mammiferi maschi sono stati per milioni di anni tali senza essere padri. Come ha scritto Zoja, su un arco di centinaia di milioni di anni solo la specie umana tra tutte le specie animali ha ipotizzato l’esistenza della figura paterna. Si tratta di un mestiere che si apprende attraverso un addestramento di tipo culturale.

 

Luigi Zoja

 

Noi, e i nostri fratelli maggiori, questo addestramento l’abbiamo rifiutato almeno tre decenni fa, e per questo siamo proceduti nel deserto della figura paterna. Dopo aver odiato e respinto i padri autoritari, dopo aver dileggiato quelli senza spina dorsale, seduti al desco serale con la televisione accesa davanti, ci siamo trovati, tutto a un tratto, per via di un atto compiuto per amore e con assoluta incoscienza, e speranza del futuro, a essere padri. Procedendo nei decenni successivi questa generazione – i veri sdraiati siamo noi – ha incontrato sempre maggiori difficoltà.

 

Il problema, come ha scritto in un libro recente Massimo Recalcati (Cosa resta del padre?, Cortina), è diventato, via via, quello dell’eredità. Cosa abbiamo da passare ai figli? Domanda imbarazzante che il protagonista di Michele Serra si fa, in forma indiretta, più volte. La traduce in: cosa abbiamo in comune? Dna, tratti somatici, atteggiamenti? In cosa ci somigliamo? L’inizio del libro è altrettanto paradigmatico del finale. Nell’ingresso nella casa che abita con il figlio – non c’è alcuna figura femminile nel libro – c’è un tappeto, un kilim. Il figlio lo calpesta, stropiccia, piega. Quest’oggetto, quasi un topos da radical chic, diventa l’emblema di ciò che il figlio bistratta.

 

Massimo Recalcati

 

Il padre è il tappeto. Il figlio ci passa sopra con le sue scarpacce – oggetto chiave nel racconto – ed è come se calpestasse il padre stesso, che s’identifica, a torto – presume sempre – con chi ha tessuto amorevolmente il tappeto, che il figlio non rispetta. Un altro degli oggetti che lui rifiuta, perché rifiuta il passaggio del testimone. E qui sta il dramma: il padre non sa cosa ha da passargli, una volta evaporata la figura paterna come autorità o autorevolezza. D’altra parte, il figlio gli sta lontano, lo teme, anche se non glielo dice in modo diretto: non vuole la lotta. Ettore, nell’Iliade, si piega verso il figlio, gli tende le braccia, ma il figlio si ritrae perché l’armatura che indossa lo spaventa. Dice Zoja che la corazza di Ettore non è una difesa dal nemico, bensì dal figlio, dal mondo dell’infanzia perduto ed estraneo.

 

Il padre di Serra non ha alcuna corazza, è indifeso e sguarnito; armato solo del suo non-capire, non-sapere, si tende verso il figlio e questo si sottrae. Una condizione dilaniante: niente infanzia alle spalle, nessun futuro davanti. Solo quell’amara conclusione: “Finalmente potevo diventare vecchio”. Ma siamo mai diventati adulti? Grandi sì, adulti forse no. Siamo una generazione che per eccesso di affettività da ricevere – desiderata e non avuta dai nostri padri – e da dare – voglia di dare, ma senza riuscirci – è diventata paradossalmente anaffettiva. Per troppo affetto, ci siamo ritratti nel nostro spazio difendendolo sino all’eccesso ed escludendo l’altro.

 

Il libro di Serra è tutto un catalogo di spazi, da quelli della memoria a quelli reali della casa, sentiti come violati, o almeno non capiti e non apprezzati dal figlio. Un figlio che è quasi un fratellino più piccolo, un altro sé, con cui il protagonista si rapporta passando attraverso la memoria del proprio sé. Il grande libro nazionale, Pinocchio, suggerisce Zoja, presenta l’immagine di una società di Fratelli: Geppetto non è un vero padre; la madre adottiva, la Fata, è una sorella; Lucignolo, personaggio centrale dell’antropologia italiana, è il Fratello, detentore dei veri riti d’iniziazione, che portano Pinocchio a trasformarsi prima in animale poi in un vero ragazzo, piccolo uomo.

 

Quello che il padre de Gli sdraiati cerca affannosamente è proprio questo rito di passaggio. Lo identifica nella salita al Colle, dopo aver cercato di comprendere nel capitolo più graffiante, e insieme più disperato del libro, quello dedicato al negozio delle felpe, invaso dalle ninfette e dai giovanissimi satiri, i riti d’iniziazione dei figli, subito respinti attraverso il sarcasmo – nel libro sarcasmo e ironia sono la crosta sotto cui la voce narrante seppellisce i suoi dolori. Essere superati dal figlio nell’ascesa, è cominciare a morire. A differenza di quello che credeva Zoja alcuni anni fa, nel momento in cui scriveva e pubblicava Il gesto di Ettore, oggi il sentimento di nostalgia verso la figura del padre sta riemergendo con forza. Gli sdraiati lo evidenzia. Ma diventare vecchi è diventare padri? Michele Serra ci lascia con questo interrogativo irrisolto.

 

Il pezzo è precedentemente apparso su L'Espresso

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