Lo stretto Occidentale
“Be a co-author of the terms defining your world. Don’t let the others define the meaning of your existence.”
Munir Fasheh
Circa l’80% delle merci utilizzate nei mercati e nelle produzioni industriali di tutto il mondo vengono trasportate via mare da navi commerciali, porta-container, porta-rinfuse, petroliere, ecc. A muovere ogni anno decine di migliaia di persone attraverso gli oceani a scopo turistico sono imponenti transatlantici assemblati nei medesimi cantieri navali. Quanto grande può essere una nave? Cosa lo decide? Lo stretto di Panama. Quest’opera faraonica concepita nell’Occidente estremo, determina ancora oggi le dimensioni delle strategie economiche e militari dei paesi transitanti, traendone un cospicuo reddito.
Fonte: http://www.aternum.com/AV/index.php?page=shop.browse&category_id=140&option=com_virtuemart&Itemid=71
In quali paesi del mondo viene utilizzato il condizionatore? Potremmo dire ovunque. Questo ingegno della termodinamica nasce negli Stati Uniti agli inizi del ‘900 per migliorare le condizioni igrotermiche degli ambienti industriali. La sua applicazione su scala mondiale, oltre a nutrire un mercato cospicuo e stabile, forse in crescita, ha sancito l’abbandono di migliaia d’anni di sapiente progettazione ambientale, in cui il sistema di rinfrescamento e riscaldamento a costo zero, soprattutto domestico, era integrato nelle soluzioni architettoniche e, differentemente, nella sapienza costruttiva dei progettisti.
Fonte: http://ilblogdilameduck.blogspot.com/2007/06/morire-per-il-condizionatore.html
Attraverso quale stretto e quale dinamica transita oggi la nostra conoscenza?
Sembra un preambolo un po’ pindarico per parlare di un piccolo programma educativo, ma dalle grandi ambizioni, come quello nel quale stiamo operando. Eppure lo stretto di Panama e il condizionatore sono, seppur il contesto richiami altri immaginari culturali e simbolici, due bestie immanenti con le quali ci troviamo simbolicamente ma costantemente a litigare. Esattamente come la Panama Canal Authority si trova ora a dover allargare le conche di passaggio perché alcuni intraprendenti armatori, contravvenendo ad una regola che sembrava definitiva, hanno spinto le dimensioni delle imbarcazioni oltre lo standard, forzandone i limiti.
I nostri appassionati partecipanti, come la maggiorparte dei loro connazionali, amano follemente il condizionatore a temperature polari (o tropicali d’inverno) lasciando le finestre aperte. Si chiedono pure quali possano essere gli standard in Palestina per elaborare una strategia congiunta di superamento delle difficoltà attraverso diverse pratiche produttive e culturali, senza incappare nelle suddivisioni del “green”, del “cultural” o del “beautiful”.
Fin qui, tutto bene.
Il no-global anarchico medio, ignorando del tutto la riappropriazione e trasformazione di alcuni modelli introdotti, direbbe che il sistema industriale capitalista ha ormai appiattito ogni differenza. Eppure i partecipanti sfuggono in continuazione, si mettono in salvo mentalmente e fisicamente (con un po’ di umana pigrizia) dalle metodologie che il gruppo di attivatori, quasi tutti designer e artisti dal pensiero sistemico, sta tendando di applicare sperimentando con loro giorno dopo giorno, tentando a loro volta di rimodellare la propria formazione occidentale e potenzialmente colonizzatrice, in quanto produttrice di standard, di navi adatte alle proprie misure concettuali. Uno stretto inaccessibile. Una pesantezza improponibile. Si consiglia la visione di Jaffa, the Orange’s Clockwork di Eyal Sivan per osservare i mutamenti nell’organizzazione dello spazio agricolo e del rapporto con la terra dopo il 1948.
Fin qui, tutto bene.
Quindi? Serve un pensiero quantico, vivo, mobile. Nessuno desidera portare nuove categorie e gabbie cartesiane di separazione, deterministiche. Nessuno vuole tornare ad una improbabile purezza “folkloristica” del passato, forse mai esistita. Essendo consapevolmente e necessariamente partiti da un formato, quello del campus universitario, servono “apriscatole” incessantemente operosi per trovare un flusso di pensiero e di azione in cui la miscela di contenuti funzioni al servizio del presente. Le gabbie che ci stringono hanno invece regole del passato.
E qui... cominciano i casini. Appassionanti, drammatici, generativi casini di una terra terrorizzata in cui altre sperimentazioni e precipitati (nazionalismo, diaspora, espropriazione, separazione e milizia) hanno protratto il loro frutto distruttivo e contribuito a smantellare le sane certezze della quotidianità e del sistema educativo, ora poco consono alla processualità e alla qualità, più vicino alla volatilità e al “buona la prima”. Dove questa volatilità manca, si parla di normalizzazione, di standard. Il suo contrario è sinonimo di resistenza. Un bella gatta da pelare. Portare continuità ridefinendo la normalizzazione come qualità del Ritorno (che cosa porto con me nel futuro, ovunque vada) senza rinunciare ai valori della resistenza come autonomia delle scelte (faccio da me, non ti intromettere). Un refugee non fa il giro largo, obbligato, panoramico e dilungato. Un refugee scavalca il muro sapendo perfettamente dove mettere mani e piedi. Snello e agile. Quasi un cliché.
Dicevamo.
Riassumendo, dopo il vuoto estivo, abbiamo inserito nel programma una valanga di obbiettivi per chiarire la visione sui progetti dei partecipanti. Abbiamo stabilito regole perché arrivassero in orario e portassero a termine i compiti. Anche solo che prendessero appunti, una battaglia. Ci siamo mossi in tutte le direzioni. Che cosa non ha funzionato?
Altro cliché: un refugee non ti dirà mai “non lo so fare”. Non è un cliché il fatto che da questa parte abbiamo un team di progettisti, dall’altro ragazze e ragazzi per lo più (mal)formati in Scienze dell’Educazione o Business Managment e veloci nella vita. Mica facile passare dalle parole ai fatti.
“Ma se ti chiedo di scrivere un testo che metta nero su bianco i tuoi pensieri rivoluzionari, perché non lo fai?”. Terzo cliché: un refugee non si espone facilmente se le sue idee mettono in luce pubblicamente le contraddizioni della sua società, la stessa che lo ha allevato e protetto, che gli ha dato gli strumenti per sopravvivere a proiettili, bombe, detenzioni e demolizioni. La stessa che per preservarsi produce un discorso, affascinante, ispiratore e coesivo ma, va detto, cristallizzato. Pericolo: attenzione a conservare gli esperimenti in laboratorio. Fuori potrebbero non essere capiti, se non distillati in piccole dosi, o produrre reazioni inaspettate.
Apriscatole anti-cliché: forse stiamo sbagliando noi.
Stiamo errando (vagando) sperimentando roba nuova. Dobbiamo lasciarci alle spalle lo stretto Occidentale e avvicinarci al loro bisogno del condizionatore: dobbiamo fare assieme. Ciò che distingue un insegnante da un maestro e uno scambio da una colonia. Il maestro si cala nella realtà del suo più giovane compagno di conoscenza e fatica con lui, si ibrida, rilasciando le proprietà nutritive del proprio sapere, della propria esperienza, arricchendosi a sua volta di nuove urgenze, saperi e stratagemmi. L’insegnamento è una pratica per lo più additiva e seriale. La maestranza è generativa, esponenziale e reciproca.
È così che è nato il Collective Cictionary, seguendo la pratica dialogica e maieutica di Munir Fasheh, con una sana e felice arroganza di ridefinire il significato delle parole. È questo il senso della co-progettazione in questo contesto: appropriarsi almeno un po’ dei compiti altrui, reggerne un piccolo carico per condurre la carovana. Al punto che chi vi sale è partecipe di una rinnovata qualità del fare, portando i propri bagagli e fardelli. Belonging in inglese significa tanto appartenenza quanto i propri beni. Stiamo dipendendo assieme da beni messi in comune. I contenuti si mischiano via via facendosi strada tra più labili confini.
È una forma di conoscenza che non ambisce a definire nuovi parametri. È una conoscenza in divenire che non vuole far altro che ridefinire i contenuti della conoscenza stessa, adattandola alle esigenze e alle urgenze del momento.
È processuale, direbbe lo scienziato. È contemporanea, direbbe l’intellettuale. È un passaggio, direbbe il poeta. È un bisogno, direbbe il refugee. È già qualcosa, direi io.