Trauma, verità e integrazione

4 Maggio 2024

Siamo abituati a pensare al trauma psicologico come a una materia da trattare in ambito psicoterapeutico o psichiatrico, è meno comune pensarlo come un tema politico.

Judith Herman, nel suo testo Verità e riparazione (Cortina, 2024), ci propone un percorso con una visuale più ampia rispetto all'ambito privato e clinico. Lo sguardo dell'autrice mette a fuoco una violenza che ci riguarda tutti, come sistemi interconnessi, anche se non direttamente autori o vittime del trauma.

È già noto, a chi di trauma si occupa per professione, che la sua complessità non aiuta a districarne le difficili trame, perché a volte il ricordo è bandito dalla coscienza, a volte i fatti traumatici sembrano narrazioni svuotate da partecipazioni emotive, eppure il trauma persiste come una ferita psichica nel soggetto, in un tempo senza tempo. Ma il testo della Herman apre a una questione ulteriore: il riconoscimento sociale del trauma è un passo fondamentale per il suo superamento, sia individuale che collettivo, focalizzandosi sui traumi conseguenti a violenze e abusi su donne e bambini.

Ci sono implicate questioni di potere: che dire per esempio di tutti coloro che più o meno esplicitamente colludono con i persecutori, come chi preferisce non sapere la verità o chi sceglie di non dare aiuto, o chi dice: “Non sono affari miei”, e bada solo a se stesso? Che dire di chi incolpa le vittime perché turbano la quiete pubblica? E delle persone che avrebbero il compito di fare giustizia e invece si alleano con i potenti? Spesso i survivor sentono tutta l'amarezza di questi tradimenti, in modo ancor più profondo dei danni diretti inflitti loro dai colpevoli.

 Il tema del potere si collega con quello della giustizia, che purtroppo non è uguale per tutti, soprattutto negli USA dove l'appartenenza a determinati strati sociali fa molto la differenza, a tal punto da poter affermare che i tribunali non servono a stabilire la verità o a fare giustizia, ma solo per risolvere le controversie senza ricorrere alle armi da fuoco: “Preparatevi al fatto che sarete semplicemente un ingranaggio di qualcosa che gira e farete meglio a imparare presto a non prendere le cose sul personale. Anche se siete coloro che conoscono meglio i dettagli del caso, poiché ne siete state protagoniste, non sarete consultate. Per la vostra tranquillità, preparatevi a gettare dalla finestra qualsiasi illusione sulla giustizia che possiate avere”.

Secondo l’autrice, le vittime di reato sono relegate a un ruolo marginale nel sistema giudiziario americano, probabilmente perché ci si aspetta che le vittime siano troppo arrabbiate, irrazionali, troppo fissate sul risarcimento per essere affidabili.

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National Portrait Gallery, Smithsonian Institution; gift of Pinkerton's, Inc.

Le vittime di un crimine la cui sofferenza è considerata esclusivamente un dolore privato si sentono probabilmente isolate e, di fatto, non rispettate dalla comunità morale. Solo quando il rancore e la richiesta di giustizia vengono condivisi dal gruppo, la vittima può sentirsi di nuovo pienamente parte della comunità morale”. Per questo, secondo la Herman, i concetti di fiducia e reciprocità come fondamenti della comunità e della giustizia hanno senso non solo dal punto di vista giuridico e filosofico, ma anche da quello psicologico. Inoltre, l'autrice sostiene che i giudici, in quanto rappresentanti della comunità, non dovrebbero essere al di sopra delle parti, ma invece affermare la propria solidarietà nei confronti delle vittime di reati, una volta che il reato è stato dimostrato. 

Si tratta di un’affermazione rivoluzionaria e di difficile applicazione, che viene così argomentata: “Dopo che una giuria ha accertato che il reato è stato commesso, le istituzioni della giustizia devono allearsi con i survivor. La fiducia si ricostruisce solo quando le vittime vedono che chi detiene l'autorità le ha ascoltate e condivide la loro giusta indignazione. Spesso è questo quello che le vittime principalmente cercano”.

Secondo la Herman è necessaria una giustizia eccezionale per guarire il profondo senso di umiliazione e di abbandono della vittima da parte della sua comunità. Per questo motivo la giustizia viene intesa come qualcosa di intrinsecamente legato alla riparazione del trauma, in un tentativo di ripristinare il rispetto per l'umanità e la dignità della vittima. Stando al fianco dei survivor, la comunità degli astanti si assume il peso della colpa per la sua precedente indifferenza o, peggio, per la sua complicità con l'accusatore, mentre i survivor si assumono il peso della vergogna. 

La forma più diffusa e duratura di tirannia è il patriarcato, e qui si vedono le radici femministe dell'autrice, che denuncia un sistema sociale di dominio maschile e subordinazione femminile. Molti sono i modi in cui le regole e i metodi della tirannia patriarcale possono pervadere una società, dalle relazioni più intime alle istituzioni di governo, dalle leggi alla giustizia. Per questo lo stupro può essere considerato il crimine simbolo della supremazia maschile, un puro atto di potere fine a sé stesso.

Socialmente, i crimini del patriarcato rimangono protetti da molti strati di consuetudine, segretezza e negazione. Si tratta a tutti gli effetti di crimini impuniti. La denuncia dell'autrice è ampia, spazia dall'omertà sociale a quella delle istituzioni pubbliche.

A partire dalla messa a fuoco di questi scenari sociali, l'autrice affronta il tema della guarigione in termini di vero risarcimento. Soltanto la cooperazione consolidata tra le istituzioni coinvolte, come polizia, procuratori, tribunali e servizi sociali, troppo spesso caratterizzate da disparità e impregnate di pregiudizi e di difese dissociative, può condurre a un vero risarcimento e a una vera giustizia dei sopravvissuti.

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Smithsonian American Art Museum, Bequest of Clara L. Tuckerman.

Traendo spunto da racconti di sopravvissute al trauma dell'abuso, Herman conclude che le scuse, “quando vengono avanzate e accolte, quando sono autentiche, generano nel corpo una dissoluzione alchemica, fisica, psicologica e spirituale della ferita, del rancore, dell'amarezza, del bisogno di vendetta e dell'odio. È così che è fatto il sentimento del perdono”.

Si pongono come esempio alcune comunità religiose, dove la riconciliazione deve avvenire solo dopo che è stata fatta giustizia. Giustizia significa che la comunità è intervenuta per porre fine all'abuso e che l'abusante riconosce ciò che ha fatto, si assume la piena responsabilità del proprio comportamento e dimostra il proprio pentimento con la volontà di prestarsi a tutto ciò che è necessario per fare ammenda. I leader di queste comunità sfidano gli astanti a porre fine alla loro complicità, attiva o passiva, con i colpevoli di violenza patriarcale.

Questo tipo di giustizia, detta riparativa, in contrapposizione a quella che vige attualmente, di tipo retributiva, permetterebbe la guarigione.

Secondo l’autrice, nei rari casi in cui il rimorso era autentico, si poteva ottenere un oltrepassamento del trauma.

La giustizia riparativa non provvede all'accertamento dei fatti, può essere attuata soltanto quando gli imputati riconoscono le proprie responsabilità di fronte alla vittima e a tutta la comunità, si tratta pertanto di una vera alternativa alla giustizia così come viene intesa nel nostro sistema giuridico; tuttavia, il dispositivo non è affatto una garanzia:

Dopo 15 mesi di incontri regolari con il suo gruppo, Malcolm fu giudicato pronto. Si scusò per ciò che aveva fatto, acconsentì a tutto ciò che Kyra Jones aveva chiesto e intraprese un piano di profonda riflessione e cambiamento. Il suo gruppo di sostegno si impegnò a condurre controlli regolari per assicurarsi che stesse mantenendo le sue promesse. Purtroppo, trascorsi uno o due anni, fu chiaro che Malcolm aveva ricominciato ad aggredire altre donne”.

Nonostante ciò, Kyra ci invita a immaginare di poter misurare la bontà degli esiti della giustizia riparativa sulla base della guarigione della vittima, indipendentemente dal fatto che l'aggressore sia o meno guarito. “Anche se Malcolm ha aggredito di nuovo, io comunque sono uscita da quel processo molto più sana e armata di una comunità e di risorse che non avrei mai posseduto senza”.

Ascolto, solidarietà, presenza, compassione, superamento della propria posizione.

Sorge però un’obiezione, come evitare la deriva opposta, la rivendicazione rabbiosa delle vittime, la pretesa di risarcimento, che non è un vero superamento del trauma, ma un cristallizzarsi di un atteggiamento nella posizione di vittima? 

Il testo non fa riferimento a questa possibilità, sembra piuttosto focalizzarsi sulla profonda e indicibile ferita che si produce in chi si trova nel circuito sociale e transgenerazionale del trauma.

Per mettere a fuoco questo tipo di ferita o di buco, ci viene in aiuto un testo di straordinaria potenza evocativa, MOR. Storia per le mie madri, di Sara Garagnani (Add editore, 2022), dove la propria storia familiare traumatica viene non solo narrata, ma anche illustrata, in un intricato dialogo tra testo e illustrazioni.

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Le immagini e i testi di questo splendido graphic novel sono così evocative da essere attivatrici di domande e riflessioni sulla potenza del trauma nelle storie soggettive, da favorire processi di elaborazione, prese di consapevolezza su come il trauma operi interiormente, nelle relazioni, nelle decisioni, nella salute e nella malattia: 

Era un freddo da cui non ci potevamo proteggere. Penetrava, attecchiva nelle ossa e si solidificava negli anni della crescita. Ce ne abituavamo attraverso un processo lento e invisibile che avveniva per sottrazione. Era la temperatura dell'assenza materna, che diventava la misura della nostra fiducia nel mondo”.

Un testo perturbante che è anche un potente attivatore, per mettersi in relazione con se stessi e ascoltarsi, dando tempo al pensiero sul proprio dolore. 

L’integrazione di questi due modi di intendere l’elaborazione del trauma, una sociale e collettiva secondo la Herman, l’altra intrapsichica e soggettiva di matrice più analitica e individuale, è una prospettiva necessaria per prendersi cura della complessità del trauma.

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