100 anni di Rodin / Rodin e il dominio sessuale

16 Luglio 2017

«La gente dice che penso troppo alle donne» disse Rodin a William Rothenstein. Pausa. «Però, in fondo, che cosa c’è di più importante a cui pensare?»

 

Cinquantesimo anniversario della sua morte. Per l’occasione si sono stampate decine di migliaia di riproduzioni delle sculture di Rodin, destinate in particolare a libri commemorativi e servizi giornalistici. Il culto degli anniversari è un mezzo per informare in modo indolore  e superficiale un’«élite culturale» che, per ragioni di mercato, deve essere in continua espansione. È un modo di consumare – non di comprendere – la storia.

 

Fra gli artisti della seconda metà del xix secolo oggi considerati dei maestri, Rodin fu l’unico che ebbe onori internazionali e venne ufficialmente considerato un personaggio illustre nel corso della sua vita attiva. Era un tradizionalista. «L’idea di progresso» diceva «è la peggior ipocrisia di cui la società sia capace.» Nato in una modesta famiglia parigina di petit-bourgeois, Rodin divenne un maestro. All’apice della sua carriera dava lavoro a una decina di scultori incaricati di scolpire i marmi per i quali era famoso. A partire dal 1900 dichiarò che le sue entrate annuali ammontavano a circa 200 000 franchi, ma in effetti i suoi guadagni dovevano essere nettamente superiori.

 

The Musee Rodin at the Hôtel Biron. (Photo by Clelie Mascaret, CC BY-SA 2.0)

 

Visitare l’Hôtel de Biron – il Museo Rodin di Parigi dove si possono vedere versioni di buona parte dei suoi lavori – è una strana esperienza. L’edificio è popolato di centinaia di figure: sembra un Ospizio o un Ricovero di statue. Se vi avvicinate a una statua e, per così dire, la interrogate con gli occhi, potete scoprire numerosi elementi di secondario interesse (il dettaglio di una mano, di una bocca, l’idea suggerita dal titolo ecc.). Ma, a eccezione degli studi per il monumento a Balzac e dell’Uomo che cammina – che, eseguito vent’anni prima, è una specie di studio profetico per il Balzac –, non c’è una sola figura che spicchi e rivendichi il proprio spazio, come esige il primo principio della scultura a tutto tondo: non c’è, insomma, una sola figura che domini lo spazio che ha attorno.

 

Tutte sono prigioniere dei propri contorni. L’effetto, per chi guarda, è cumulativo. A poco a poco si diventa coscienti della terribile compressione che queste figure subiscono. Una pressione invisibile inibisce ogni possibile slancio verso l’esterno, riducendolo a un piccolo evento di superficie percepibile solo con la punta delle dita. «La scultura» affermava Rodin «è, molto semplicemente, l’arte della depressione e della protuberanza. Non si sfugge.» Quel che è certo è che a questo non si sfugge all’Hôtel de Biron. È come se le figure fossero costrette a rientrare nel loro materiale: se la pressione venisse ulteriormente aumentata, le sculture tridimensionali diventerebbero bassorilievi; se aumentasse ancora, diventerebbero mere impronte sulla parete. La porta dell’inferno è un’espressione estremamente complessa e un’ampia dimostrazione di questa pressione. L’inferno è la forza che respinge queste figure dentro la porta. Il pensatore, che sovrasta la scena, si serra su se stesso per evitare ogni contatto con l’esterno: si ritrae dalla stessa aria che lo sfiora.

 

Auguste Rodin, Il pensatore (dettaglio), 1880-1902. 

 

In vita Rodin fu attaccato da critici filistei perché «mutilava» le sue figure – mozzando braccia, decapitando torsi ecc. Gli attacchi erano stupidi e mal indirizzati, ma non si può dire che fossero del tutto privi di fondamento. Nella maggior parte dei casi le figure di Rodin sono state ridotte a meno di ciò che dovrebbero essere in quanto sculture dotate di una propria autonomia: hanno subito un’oppressione. Lo stesso accade nei suoi famosi disegni di nudo, in cui egli tracciava il profilo della donna o della danzatrice senza distogliere gli occhi dalla modella, per poi riempire il contorno con una coloritura ad acquerello. Questi disegni, benché siano spesso notevoli, somigliano essenzialmente a foglie o fiori pressati.

 

Il fatto che queste figure (sempre con l’eccezione del Balzac) non siano capaci di creare una tensione spaziale con l’ambiente circostante passò inosservato ai contemporanei dello scultore, presi com’erano dalle loro interpretazioni letterarie, vivacizzate dall’evidente  significato sessuale di molte delle sue sculture. In seguito ciò fu ignorato, perché la ripresa d’interesse per Rodin (iniziata circa quindici o vent’anni fa) si è concentrata sulla maestria del«suo tocco» sulla superficie scultorea. Rodin è stato etichettato come scultore «impressionista». Nondimeno è questo fallimento, l’esistenza di questa terribile pressione sulle figure da lui scolpite, che ci fornisce la chiave del loro (seppure negativo) contenuto reale.

 

La figura dell’anziana donna emaciata, Colei che un tempo fu la bella moglie del fabbricante di elmi, con i suoi seni cadenti e la pelle tirata sulle ossa, rappresenta una scelta di soggetto paradigmatica. Forse Rodin era oscuramente cosciente della propria predisposizione.

Spesso l’azione  di un gruppo o di una singola figura si misura apertamente con la forza di compressione. Le coppie si stringono (si veda Il bacio, dove tutto è rilassato tranne la mano di lui e il braccio di lei, che tirano entrambi verso l’interno). Altre figure cadono l’una sull’altra, abbracciando la terra, lasciandosi andare al suolo. Una cariatide caduta sostiene ancora la pietra che le grava addosso. Alcune donne si rannicchiano, come fossero spinte in un angolo, per nascondersi.

 

Auguste Rodin, Il bacio, 1885.


In molte sculture in marmo, le figure e le teste vengono fatte emergere solo a metà dal blocco di pietra grezza: in realtà sembra che vi siano compresse e che vi si fondano. Se il processo implicito dovesse continuare, le figure non ne uscirebbero indipendenti e liberate: scomparirebbero.

Perfino quando l’azione della figura sembra sottrarsi allapressione esercitata su di lei – come in alcuni dei bronzi più piccoli di ballerine – si ha la sensazione che essa sia ancora la creatura malleabile e sottomessa nella mano plasmatrice dello scultore. Questa mano affascinava Rodin. Egli la raffigurò nell’atto di sorreggere una figura umana incompleta e una zolla di terra, e la chiamò La mano di Dio.

Rodin stesso spiega:

 

Nessuno scultore degno di questo nome può modellare una figura umana senza soffermarsi sul mistero della vita: gli individui, nella loro infinita varietà, non fanno che ricordargli il tipo immanente; egli è condotto incessantemente dalla creatura al creatore […] Ecco perché molte delle mie figure hanno una mano o un piede ancora imprigionati nel blocco di marmo; la vita è ovunque, ma capita davvero di rado che arrivi a esprimersi completamente o che l’individuo  arrivi  alla perfetta libertà.

(Isadora Duncan, La mia vita, Londra 1969)

 

Ma se la compressione subita dalle sue figure va spiegata come espressione di una sorta di panteistica fusione con la natura, perché il suo effetto è così disastroso in termini scultorei?

Rodin era straordinariamente dotato e capace come scultore. Poiché la sua opera manifesta una fondamentale debolezza, sarà bene esaminare la struttura della sua personalità piuttosto che quella delle sue opinioni.

 

L’insaziabile appetito sessuale di Rodin era ben conosciuto ai suoi tempi, benché dopo la morte alcuni aspetti della sua vita e della sua opera (comprese molte centinaia di disegni) siano stati tenuti segreti. Tutti coloro che hanno scritto sulla scultura di Rodin ne hanno notato il carattere sensuale o sessuale; molti di loro, però, parlano di questa sessualità come di un semplice ingrediente. A me pare, invece, che fosse la principale motivazione della sua arte – e non soltanto nel senso freudiano della sublimazione.

Nella sua autobiografia Isadora Duncan racconta come Rodin cercò di sedurla. Alla fine – e rammaricandosene in seguito – gli resistette.

 

Rodin era basso, tarchiato, possente, con i capelli cortissimi e la barba folta […] Talvolta mormorava il nome delle sue statue, ma si capiva che i nomi per lui significavano poco. Fece scorrere la mano sulle statue e le accarezzò. Ricordo di aver pensato che sotto le sue mani il marmo sembrava fluire come piombo fuso. Alla fine prese un pezzetto di creta e lo premette fra le mani. Mentre lo faceva, ansimava […] In pochi attimi aveva modellato un seno di donna […] Allora mi fermai per spiegargli le mie teorie per una nuova danza, ma ben presto mi resi conto che non stava ascoltando. Mi fissava con le palpebre abbassate, gli occhi fiammeggianti, e poi, con la stessa espressione che aveva di fronte alle sue opere, venne verso di me. Fece scorrere le sue mani lungo i miei fianchi, le mie gambe nude e i piedi. Cominciò a lavorare il mio corpo come se fosse creta, mentre da lui emanava un calore che mi bruciava e mi struggeva. Il mio unico desiderio era di abbandonarmi a lui con tutta me stessa.

(Isadora Duncan, op. cit.)

 

Sembra che il successo di Rodin con le donne abbia avuto inizio quando divenne famoso come scultore (aveva circa quarant’anni). Fu allora che il suo atteggiamento complessivo – e la sua celebrità – cominciarono a promettere ciò che Isadora Duncan descrive così bene proprio perché lo fa in modo obliquo. Egli promette alle donne di modellarle: diventeranno creta nelle sue mani. La relazione che avranno con lui diventerà simbolicamente paragonabile a quella con le sue sculture.

 

Quando rincasa, Pigmalione va subito dalla statua della fanciulla che ama, si china sull’alcova e la bacia. La carne di lei sembra tiepida: avvicina di nuovo le labbra alle sue, e le tocca il seno con le mani – a quel tocco l’avorio perde la sua durezza e comincia a ammorbidirsi; le sue dita lasciano un’impronta sulla superficie cedevole, proprio come la cera di Imetto fonde al sole e, lavorata dalle dita dell’uomo, assume forme diverse, e viene resa adatta all’uso dall’uso.

(Ovidio, Le metamorfosi, libro x)

 

Cleomene di Apollodoro, Venere de Medici, primo secolo a.C. Uffizi, Firenze.

 

Ciò che potremmo chiamare la «promessa di Pigmalione» è forse un elemento generale dell’attrazione che il maschio esercita su molte donne. Quando poi si ha a che fare con un riferimento specifico e reale a uno scultore e alla sua creta, gli effetti di tale promessa diventano semplicemente più intensi, perché è più facile riconoscerli coscientemente. Ciò che colpisce nel caso di Rodin è che lui stesso sembra aver trovato attraente la promessa di Pigmalione. Dubito che giocare con la creta di fronte a Isadora Duncan fosse semplicemente una manovra per sedurla: l’ambivalenza fra creta e carne attirava anche lui. Ecco come Rodin descriveva la Venere de’ Medici:

 

Non è meraviglioso? Ammettete che non vi aspettavate di scoprire tanta minuzia. Guardate dunque le infinite ondulazioni nel cavo che unisce il corpo alle cosce […] Notate le voluttuose curve dei fianchi […] E osservate, qui, le adorabili fossette lungo le natiche […] È veramente carne […] La si direbbe modellata dalle carezze! Quasi  vi aspettereste, a toccare questo corpo, di trovarlo caldo.

 

Se ho ragione, si arriva a una sorta di inversione del mito originale e dell’archetipo sessuale che ne deriva. Il Pigmalione originale crea una statua di cui si innamora. La sua preghiera è che essa si animi e si liberi dell’avorio in cui l’ha scolpita, che diventi indipendente, in modo da poterla incontrare come pari piuttosto che come suo creatore. Rodin, al contrario, vuole perpetuare l’ambivalenza fra il vivente e il creato. Ciò che egli è per le donne, crede di doverlo essere per le sue sculture. Ciò che egli è per le sue sculture, vuole esserlo per le donne.

Judith Cladel, sua devota biografa, descrive Rodin intento a lavorare e ad annotare i suoi pensieri sul modello.

 

Si chinò ancor più sulla figura distesa e, come se temesse che il suono della sua voce potesse disturbarne la grazia, sussurrò: «Atteggia la bocca come se stessi suonando il flauto.  Ancora! Ancora!».

Poi scrisse: «La bocca, le voluttuose labbra protese, sensualmente eloquenti […] L’alito profumato va e viene come api che  sfrecciano  entrando  e  uscendo  dall’alveare  […] Come era felice durante quelle ore di profonda serenità, quando poteva godere dell’imperturbato gioco delle sue facoltà! Un’estasi  suprema, perché senza  fine:

«Che gioia questo mio incessante studio del fiore umano! Che fortuna che nella mia professione io possa amare e anche parlare del mio amore!».

Citato da Denys Sutton, «Triumphant Satyr», in Country Life, Londra 1966

 

Ora cominciamo a capire perché le sue figure siano incapaci di rivendicare o dominare lo spazio che le circonda. Sono fisicamente compresse, imprigionate, trattenute dalla forza di un Rodin dominatore. Obiettivamente parlando, queste opere sono espressione della sua libertà e della sua immaginazione. Tuttavia, poiché nella sua mente creta e carne sono legate in modo così ambivalente e fatale, egli è costretto a trattarle come se fossero una sfida alla sua stessa autorità e potenza.

Ecco perché non lavorava mai il marmo di persona, ma solo la creta, lasciando che fossero i suoi dipendenti a scolpire quel materiale più intrattabile. È la sola interpretazione pertinente alla sua osservazione: «La prima cosa cui Dio pensò quando creò il mondo fu modellare». È la spiegazione più logica del fatto che egli considerasse necessario conservare nel suo studio di Meudon una sorta  di deposito mortuario di mani, gambe, piedi, teste, braccia modellati in creta, che si divertiva a provare sui corpi appena creati.

 

Auguste Rodin, Balzac (dettaglio), 1892-1897. 


Perché il Balzac è un’eccezione? Il ragionamento precedente ci suggerisce già la risposta. Si tratta della scultura di un uomo di enorme potere, che percorre il mondo a grandi passi. Rodin la considerava il suo capolavoro. Tutti coloro che hanno scritto su Rodin sono concordi nel dire che egli si identificava con Balzac. In uno dei suoi studi  di nudo per il monumento, il significato sessuale è esplicito: la mano destra stringe il pene eretto. È un monumento alla potenza maschile. Frank Harris ha scritto di una successiva versione vestita, e quanto dice si potrebbe applicare all’opera definitiva: «Sotto la vecchia veste monacale dalle maniche vuote, l’uomo sta ben eretto, le mani saldamente strette attorno alla sua virilità e la testa gettata all’indietro». L’opera era una conferma così diretta della potenza sessuale di Rodin che per una volta egli poté lasciarsene dominare. O, per dirla in altro modo, quando lavorava al Balzac, probabilmente per la prima volta in vita sua, la creta gli sembrò maschile.

 

La contraddizione che inficia tanta parte dell’arte di Rodin e che diventa, per così dire, il suo contenuto più profondo eppure più negativo, deve essere stata per molti versi una contraddizione personale. Era, tuttavia, anche tipica di una situazione storica. Se le si analizza con sufficiente profondità, nulla più vividamente delle sculture di Rodin rivela la natura della morale sessuale borghese della seconda metà del xix secolo.

 

Da una parte l’ipocrisia, il senso di colpa, che tende a rendere febbrile e fantasmagorico ogni forte desiderio sessuale – perfino se formalmente è lecito soddisfarlo; dall’altra il timore che le donne sfuggano (come proprietà) e il bisogno costante di controllarle.

Da una parte il Rodin che crede che al mondo non ci sia nulla di più importante delle donne a cui pensare; dall’altra lo stesso uomo che dice seccamente: «In amore la sola cosa che conta è l’atto».

 

Da John Berger, Sul guardare, Il saggiatore, Milano 2017.

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