Scomparsa e riapparizioni / Fuggire a sedici anni

4 Luglio 2020

Otto anni fa, un ragazzo di sedici anni che viveva nei pressi di Roma scompare da casa e da allora non se ne sa più niente, finché in questi giorni viene ritrovato, ventiquattrenne, a Genova, dove viveva mendicando.

 

Un amico mi ha chiesto di scriverne. Ma, diavolo d'un uomo!, mi dico: come faceva a sapere che anch'io, a sedici anni, sono scappato di casa? (Dev'essere proprio per questo che me l’ha chiesto.) E poi, subito dopo, mi dico ancora: bravo babbeo che non sei altro! chi non ha tentato la fuga da casa a quell'età!

Io stesso, che non conosco pressoché nessuno, so di altri due casi come il mio. Quello di mio cugino Stefano e quello della mia amica Delia.

Mio cugino Stefano, anche lui a sedici anni, scappò da Padova e se ne stette un anno intero in Sardegna. Delia invece, lei pure sedicenne, se ne andò a Parigi, da Merano, con un'amica.

I genitori, in entrambi i casi, erano semplicemente disperati. Pensavano al peggio. Dopo mesi i figli si rifecero vivi e loro si rassegnarono. Ma la fuga finì, dopo un anno; abbastanza presto, tutto sommato.

Io dal canto mio, fui un fuggitivo fallito. La mia lontananza da casa durò solo tre giorni.

Faccio molta fatica a reimmergermi nell'io che ero allora. Ma è l'unica possibilità che mi rimane, se voglio capire o tentar di capire la mente di questo ragazzo romano, che di punto in bianco, mentre stava andando a scuola, ha deciso di troncare la sua solita esistenza di studente per iniziarne un'altra sconosciuta.

Parlerò di me, del me passato, per identificarmi in questo giovane. Esperienza di sé nell'altro, e dell'altro in sé. Immaginazione attiva. È solo un tentativo, l'ho detto.

 

Allora, nel 1979, io non ne potevo semplicemente più.

Avevo sedici anni, non permetterò a nessuno di dire che questa è l'età più bella della vita.

È, lievemente modificato, l'incipit di “Aden Arabia” il romanzo più citato (per la frase iniziale) e meno letto (per tutto il resto) che ci sia. Comunque questo celeberrimo attacco di Paul Nizan esprime perfettamente il mio stato d'animo di allora. Tutto è possibile per un adolescente. Verissimo. Ma ciò significa che niente è certo, per lui. Ogni cosa fluttua come in una nebbia mattutina. Ogni strada è aperta. Ma ciò significa che non sei su nessuna strada.

Uno è preda di questa straziante selva di potenzialità, che stormisce ad ogni alito di vento. E che gli fa cambiare idea ogni secondo. Non c'è età più instabile di questa.

Inoltre è il periodo in cui i genitori, come oggi le statue, tendono irresistibilmente a cadere dal piedistallo e a schiantarsi fragorosamente al suolo.

Al posto loro dovrebbero subentrare gli amici. Anzi un amico, un Grande Amico che s'innalzi sublime su noi. Un Grand Meaulnes, come nell'omonimo romanzo di Alain-Fournier (questo invero un po' più letto di quello di Nizan, e forse oggi un po' meno citato), il quale ci prenda per mano e ci conduca docili verso il “domaine mystérieux”, il territorio favoloso dove avvengono eventi irripetibili e dove, soprattutto, si può incontrare la bellissima ed enigmatica Yvonne de Galais, effigie sempre fuggente della bellezza imprendibile.

Ma il Grande Amico non sorge come il sole. Il castello misterioso si rivela illusorio. Yvonne de Galais, se mai l'incontriamo, appena apre bocca ci delude terribilmente.

Non resta che la fuga.

 


Può essere motivata dai pretesti più banali. Un compito di matematica incombente (fu il mio caso); un diniego dei genitori; una polemica con i professori; una lite; qualunque cosa può innescare la fuga.

È, in piccolo, quello che successe nelle contestazioni degli anni '60, culminate nel fatidico '68. Anche lì si partiva da piccoli fatti concreti: l'aumento delle tasse universitarie; lo spostamento di una sede di studi dal centro alla periferia; una legge discussa (la famosa 2π, ossia la 2314 del ministro Luigi Gui) e poi la protesta si dilatava a tutta la società nel suo complesso, fino al Gran Rifiuto di marcusiana (e per vero dantesca) memoria.

L'adolescente in piccolo ripete lo schema generale della contestazione. Che da episodica si fa sistematica.

Io protestai andandomene via di casa a piedi.

Attraverso le vie dei campi, da Merano giunsi a Bolzano e poi, lungo l'argine dell'Adige, a Trento.

Ho vissuto per tre giorni nella stazione di Trento. Se spesso le stazioni sono tristi, beh, la stazione di Trento è, senza esagerazione, la più triste che sia mai stata edificata. Triste, deprimente e fascista.

È evidente che volevo punirmi, proprio per il senso di colpa d'aver abbandonato casa, i miei, che in fondo non mi avevano fatto nulla. Nulla di nulla.

Vissi mendicando. Allora sembravo più giovane della mia età. A un bambino che chiede l'elemosina non si nega qualche innocente monetina da cinquanta o cento lire.

Tutte le mie idee sulla solidarietà tra poveri furono naturalmente spazzate via da quell'esperienza di tre soli giorni.

Non c'è traccia di reciproco sostegno o, peggio ancora, amore tra i miserabili. Essi si guardano in cagnesco l'uno con l'altro. Se possono si fregano irreparabilmente. Esistono gerarchie inflessibili tra mendicanti. Io ero un corpo estraneo là in mezzo e quindi non molto ben visto, per usare un pudico eufemismo.

 

Ma di più non posso né voglio raccontare.

Fui salvato da mio fratello che, la sera del terzo giorno, si materializzò davanti a me. Non mi disse niente. Solo: dai, alzati, vieni con me. Ti riporto a casa.

Non chiese spiegazioni. Né me le chiesero i miei. Fui loro molto grato per questo.

Quanto a mio cugino e alla mia amica Delia, anche loro non parlano volentieri di quel periodo trascorso lontano. Non hanno mai raccontato niente al riguardo. Solo pochi cenni. Poche parole. Non so come hanno sbarcato il lunario. Né che incontri hanno fatto in Sardegna o a Parigi. Silenzio.

C'è un racconto di uno scrittore che oggi non è, mi pare, molto letto. S'intitola Il punto nero. È di Palazzeschi. È la storia di un signore che conduce una vita assolutamente irreprensibile, tutto casa e famiglia. Però, in questa trama di abitudini e routine consolidata, s'inserisce improvviso un punto nero. Un'inspiegabile notte passata fuori casa su cui grava una fitta tenebra e di cui nessuno, né la moglie né i figli né i nipoti sanno alcunché.

È il punto nero di questo signor Fanfulla.

Ognuno di noi ne può avere uno, di punto nero. Che si estenda per una sola notte, per tre giorni o per un anno o per otto anni, come nel caso del giovane in esame, esso tale deve rimanere, nero. Oscuro. Senza delucidazioni. Senza chiarimenti. Un vuoto. Sia un buco di tenebra. Sia un bianco abbagliante, come quello che si apre tra il quinto e il sesto capitolo della terza e ultima parte dell'Educazione sentimentale di Flaubert (un romanzo di formazione, non a caso!).

Chiunque, se vuole, lo colmi lui dei contenuti, delle storie – o della noia abissale che preferisce.

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