Di animalità sono piene le nostre bocche / Divenire invertebrato

1 Dicembre 2020

Non tutto ciò che accade chiede di essere interpretato, compreso. Talvolta, soprattutto quando l'evento si manifesta in un tempo cairologico, indeterminato e qualitativo, un tempo "nel mezzo" in cui accade qualcosa di speciale, ci domanda piuttosto di spostarci, di cambiare posizione, di modificare l'assetto. Naturalmente da questa delocalizzazione scaturiranno nuove interpretazioni, nuovi significati, ma prima di tutto si tratta di traslocare, di rivoluzionare il setting della nostra vita. È noto, traslocare è un'operazione altamente riconfigurante, in nulla simile a una contingente variazione di dettagli decorativi. Traslocare significa affacciarsi su paesaggi diversi, vedere mondi inconsueti, persino modificare la propriocezione del corpo nello spazio o guardare con occhi diversi la persona che vive con noi.

 

Da otto mesi, circa, percepiamo la durata di un evento, come quello della pandemia in corso, che ci intima di cambiare assetto. Non rispondere a questo insistente invito, significa sbattere come falene al muro di una doppia interpretazione. C'è da un lato chi sostiene che nulla sia nuovo, che di virus ed epidemie la storia dell'umanità è piena, che il virus è parte del nostro corpo, è un nostro ospite per quanto sgradito. In questo caso prevale uno spirito di annessione, di addomesticamento: nulla di nuovo è accaduto, il virus è in noi. Dall'altro lato, c'è chi contempla attonito e rassegnato il drammatico spettacolo di una natura che fa il suo gioco, che dispiega la sua potenza, di una vita che batte, che pulsa, ignorando ed estromettendo la forma di vita che noi incarniamo. Catapultato fuori dai concatenamenti delle forze in gioco, l'essere umano si fa spettatore dell’inesorabile necessità del reale, partecipando a un destino, a una fatalità.
È possibile immaginare una terza via: traslocare in un quartiere in cui assoluta prossimità o distanza fatale non hanno più diritto di cittadinanza. Certo, il virus ci suggerisce che la vita è assai più estesa del nostro minuto e parziale punto di osservazione, ma questo non significa che il nostro compito finisca qui. Più estesa non vuol dire che ci taglia fuori, , al contrario, che ci include. Sentirsi parte del gioco, e lo siamo effettivamente, è anche il primo antidoto all'angoscia.

 

Con quale luogo ideale dobbiamo dunque prendere confidenza? La filosofia contemporanea ha oramai messo a fuoco, in una correlazione implicita o esplicita con gli sviluppi della fisica quantistica, una questione formulabile a partire da un paradosso: esiste una relazione fondata sul non-rapporto. La relazione tra esseri ed enti non è avvicinabile, o lo è solo parzialmente, secondo il paradigma della continuità, della tessitura di fili che garantiscano l'intesa, la comunicazione, non è pensabile pontificando, gettando ponti. Ben diversamente, tutto si gioca nel valorizzare separatezze, interruzioni, lacune, baratri, che, pur restando insaturabili, si mostrano capaci di istituire legami e relazioni, o meglio correlazioni. Evidentemente si tratta di scommettere su una nuova concezione di “legame” e di “relazione”, capace di sacrificare ogni deriva fusionale dell’empatia, ogni paradigma continuista, mettendo in discussione il principio di ragion sufficiente, a favore di una diversa causalità basata sul rapporto in distans. È il pensiero francese contemporaneo che, più di altre tradizioni, ha saputo confrontarsi con questo paradosso.

 

Penso soprattutto a Levinas, Derrida, Deleuze, Lacan, Blanchot. L' altrimenti che Essere, la différance, i concatenamenti e le correlazioni, la causalità psichica come causalità a distanza, la relazione fondata sul non-rapporto: sono le trovate concettuali e linguistiche che hanno consentito agli autori sopra menzionati di mettere al lavoro questo monstrum del pensiero contemporaneo. Scriveva Blanchot in La conversazione infinita: “Conoscere mediante la misura dell’“ignoto”, tendere alla familiarità delle cose senza intaccarne l’estraneità, riferirsi a tutto mediante l’esperienza stessa dell’interruzione dei rapporti, significa semplicemente sentir parlare e imparare a parlare”. È la stessa distanza che separa gli amici, quando sono ben scelti: solitari, non solidali né empatici, ma alleati nella necessità di tacere insieme, e di fare di questo spazio bianco, di questo intervallo, di questa assenza di legame, l’occasione del loro sodalizio.

È un pensiero che si lascia corteggiare dalla chiaroveggenza e che non disdegna di assaporare mondi magici, purché, come è accaduto a Derrida, si sia disposti a inscrivere il sortilegio nel normale commercio della vita quotidiana, passando dai fenomeni microscopici a quelli macroscopici con disinvoltura, creatività e libertà.

 

Da questa chiaroveggenza si lascia ammaliare e condurre una bellissima raccolta di saggi dal titolo Divenire invertebrati. Dalla Grande Scimmia all'antispecismo viscido, a cura di Massimo Filippi e Enrico Monacelli (ombre corte, 2020). Un libro-officina, un laboratorio di sperimentazione all'incrocio di discipline diverse, filosofia, fisica, biologia, medicina, sociologia, letteratura, arte, disposto a farsi contagiare dal potere trasformativo delle parole e dei loro accostamenti. Un libro in cui la sperimentazione linguistica, il coraggio lessicale va di pari passo con la spregiudicatezza dell'ideazione. Che tipo di relazione è quella con l'alterità assoluta? Una domanda vertiginosa a cui cercano di rispondere i saggi raccolti e tradotti in questo volume.

Naturalmente l'alterità assoluta ha vari volti che si aprono a distanze da noi apparentemente diverse. Altri sono gli enti e le cose del mondo; altri gli animali non umani, dalle meduse, polpi, coralli - esseri viventi viscidi, invertebrati dotati di agency, “vicini ma distinti dalle culture umane (Dogman Von Engen, p. 128) – ai pet, nostri compagni di vita; altri i nostri consimili; altri siamo noi per noi stessi.

 

 

Sembra un climax che procede da un massimo a un minimo di distanza, fino a raggiungere il rapporto più prossimo con la nostra stessa forma di vita. Invece - questo è il nucleo ardente di tutto il discorso, quello che, come diceva Rilke di fronte al torso arcaico di Apollo, ci induce a "cambiare la nostra vita" - la distanza è sempre la stessa ed è una distanza infinita, ovvero una interruzione. E tutte le interruzioni ci insegnano molte cose, prima di tutto a saltare, proprio come fanno gli elettroni quando transitano da un livello energetico maggiore a uno minore emettendo pacchetti discreti chiamati “fotoni”, ad abbandonare l'assetto, a corteggiare le virtualità della perdita dell'equilibrio, della vertigine, ad attribuire al pensiero la capacità di toccare l'impensabile, di desiderare l'ignoto. Sì anche in noi stessi occorre saltare, perché il nostro destino è quello di non raggiungerci.

 

Robert Browning, poeta e drammaturgo, ha usato una formula particolarmente efficace per dire tutto questo: “La portata dell’uomo deve andare oltre la sua presa, altrimenti a che serve la metafora?”. È possibile estendere la nostra portata nel mondo, istituire relazioni con ciò che vive e si muove al di là della soglia, senza che, tuttavia, ciò significhi garantirne la presa. La metafora è un buon esempio, se la si intende come formazione attiva, capace di spostare l’assetto del pensiero, e non come produzione sur place del soggetto pensante.

Intanto, una considerazione di metodo che riesco a premettere in modo vivido grazie a quanto Massimo Filippi e Enrico Monacelli scrivono nell'introduzione. Il metodo non è altro che un posizionamento, e non è sempre facile individuare il luogo da cui si parla soprattutto quando esso va cesellato con finezza, facendosi spazio tra luoghi del pensiero attigui ma, di fatto, fuorvianti. Insomma, per essere più diretti, di alterità, di diversità, di animalità sono piene le nostre bocche, soprattutto negli ultimi anni. Si tratta dunque di gettare un occhio vispo, acuto e appassionato su questa proliferazione di contenuti extra e disumani, per far emergere la specificità del proprio punto di enunciazione. L'enunciato inganna, perché è pericolosamente simile nei vari discorsi, flirtando con una certa area tematica. Cambia il punto da cui si parla, e il luogo scelto dagli autori di questa antologia mi sembra molto fecondo. Insomma, un luogo da coabitare facendosi strada nella nebbia. Si tratta, in effetti, di farsi spazio tra due prospettive solo apparentemente contrastanti. 

 

Da una parte, abbiamo l’approccio più classico inaugurato dall’antispecismo di Peter Singer e Tom Regan, definito dai curatori del volume, “assimilazionista” perché rivolge all’animalità un’attenzione antropocentrica, impegnata a riconoscere nell’animale non umano i tratti che lo rendono simile al vivente umano. È un approccio empatico-fusionale in cui “l’umano resta il paradigma di riferimento, la differenza animale è stemperata e tutto il vivente viene assimilato a un universale astratto (e pluribus unum, nella migliore tradizione kantiana)” (p. 15). Dall’altra parte, secondo una postura solo apparentemente alternativa, quella congerie di pensatori e pensatrici capaci di immaginare la assoluta alterità degli animali non umani e della Natura in generale, intesa come archetipo puro e incontaminato, tenuta lontana dalla nostra specie corrotta dalla cultura, dall’artificio, dalla tecnica. A questa visione speculare viene dato il nome di animal-straight. Due posizioni che hanno indubbiamente il vantaggio argomentativo di giustificare e motivare una reazione contro il maltrattamento e lo sfruttamento animale, ma lo fanno a partire da un presupposto incondivisibile: quello di considerare l’Uomo come unità di misura sia che lo si intenda in chiave empatica e continuista, sia in chiave dissociativa e luciferina.

 

Nel primo caso, parleremo, appunto, di antropocentrismo, nel secondo di antropodecentrismo. Qui torniamo al punto da cui siamo partiti. La relazione, nel primo approccio, è fusionale e irrispettosa delle vere differenze, mentre nel secondo caso è proprio il rapporto ad essere sacrificato sull’altare della diversità assoluta, che tira fuori l’Uomo dal campo delle correlazioni, dei concatenamenti, dei contagi, e delle reciproche influenze.

Quale dunque la proposta che ricaviamo dai saggi qui raccolti? La risposta più articolata e persuasiva viene dal lungo saggio di Karen Barad dal titolo La performatività queer della natura. La posta in gioco è impegnativa. Si tratta di sovvertire alcuni presupposti dell’ontologia classica: il postulato dell’esistenza di entità discrete dall’identità e dai confini ben stabiliti; dello spazio come una sorta di contenitore entro il quale si verificano gli eventi; del tempo inteso secondo parametri lineari; degli effetti che seguono le cause. “I tagli agenziali – le intra-azioni – non producono separazioni (assolute), ma si fanno carico della separabilità agenziale – differenziazione e correlazione (che sono un solo e unico movimento, non processi consecutivi). I tagli agenziali rielaborano radicalmente le relazioni di giunzione e disgiunzione. Intesa in questo senso la separabilità, la separabilità agenziale, è una questione di eterogeneità irriducibile, per nulla inficiata da relazioni ereditarie che tengono insieme il disparato e senza ridurre la differenza all’identità” (Barad, p. 105).

 

Lo studio dei fenomeni di performatività queer della natura, i fulmini, le cellule dei trigoni, gli atomi e gli umani evidenziano forme di interazione correlativa che rendono inservibile e scardinano il concetto tradizionale di causa, prospettando un modello di causalità “sconcertante” ispirato ad un’ontologia quantistica: una causalità a distanza, quella che Einstein non esitava a definire spooky action in distans per riferirsi al principio dell’entanglement che nei nostri giorni affanna da un punto di vista epistemologico la teoria quantistica, poiché mette in scacco il principio di località. Quest’ultimo affermava che oggetti distanti non potessero avere influenza istantanea l’uno sull’altro, poiché il passaggio di informazioni tra diversi elementi di un sistema può avvenire soltanto grazie a una sequenza di interazioni causali che agiscono spazialmente dall’inizio alla fine senza tagli, senza interruzioni. L’entanglement, o correlazione quantistica, presuppone invece che la misura di un’osservabile di un sistema agisca simultaneamente sul valore di altri che si trovano spazialmente separati. Nel primo caso, per sostenere la catena causale, occorre la prossimità, nel secondo caso la correlazione non classicamente causale si produce anche ad enorme distanza. L’ipotesi è che osservando in profondità, fuori dai luoghi comuni e dalle abitudini di pensiero, l’interazione tra entità faccia collassare la causalità classicamente intesa e richieda una propensione ad accogliere nel pensiero la chiaroveggenza della natura: quella disseminazione di forme di vita, di intelligenze differenti che non fanno serie, come osserva Claudio Kulesko (pp. 29-47), perché non ripetono modelli archetipici ma moltiplicano l’esistente in infinte variazioni.

 

Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido, a cura di Massimo Filippi e Enrico Monacelli, ombre corte, Verona 2020, pp. 160.

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