La Biennale come archivio universale / L’enciclopedia interminabile

10 Giugno 2013

Il Palazzo Enciclopedico del Mondo è un gigantesco modello alto tre metri e mezzo, fatto di legno, ottone, plastica e celluloide, una strana torre cilindrica a più stadi, una specie di missile circondato da un porticato e quattro incongrue cupole dorate, a metà strada tra un’architettura visionaria del primo modernismo e un grattacielo staliniano. È il sogno della vita di Marino Auriti, emigrato dall’Abruzzo in America negli anni trenta del Novecento per sfuggire al fascismo: un museo “per contenere tutte le opere e le scoperte dell’uomo”, passate e future, da edificare sul Mall di Washington, un archivio labirintico e vertiginoso come la borgesiana Biblioteca di Babele.

 

Marino Auriti

 

L’impresa impossibile di Auriti – la cui vicenda singolare è narrata qui da sua nipote – è l’emblema della 55a Biennale di Venezia e il suo paradossale modello di riferimento: che forma può avere, se non appunto iperbolica e fallimentare, un’enciclopedia nell’età immateriale che attraversiamo? Non è forse la stessa nozione di “enciclopedia”, col suo ingombrante retaggio illuminista e il suo olezzo di accademia, ad aver infine ammesso la sua inconsistenza di fronte agli smaliziati osservatori postmoderni? E il sapere, e il sapere dell’arte nello specifico, non si è forse oggi, nell’era liquida di Google e di Wikipedia, ormai dissolto nella nebulosa della Creatività tanto da divenire inafferrabile e perpetuamente intercambiabile?

 

Sono tutti interrogativi cui è difficile sottrarsi sostando nell’Arsenale veneziano di fronte un monumento così stravagante come il Palazzo Enciclopedico, col suo umanesimo fuori tempo e la sua ingenua fiducia nelle virtù del Museo come luogo di memoria e celebrazione della civiltà. Ma quale memoria, e quale museo, appunto? Viviamo oggi, scrive Alexander Nagel nel catalogo, nell’era del più intenso scambio reciproco tra musei immaginari e musei reali, tra luoghi fisici sempre più visibili e raccolte smaterializzate sempre più estese. In effetti, se l’accessibilità universale delle immagini resa possibile da internet sembra aver realizzato il museo immaginario di André Malraux, essa ha anche enormemente allargato la domanda per quella particolare esperienza che del museo rappresenta oggi la versione concentrata e intensificata: la mostra temporanea. Un “evento” ormai ineludibile in cui alla retorica pedagogica e all’inevitabile gravitas degli allestimenti museali si sostituisce una “esperienza” che punta in primo luogo a creare nello spettatore, in un formato convenientemente ristretto, l’emozione di una falsa intimità con opere, artefatti, documenti, ecc., opportunamente inscenati e coreografati al fine di ottenere il massimo effetto espressivo. L’allestimento, il dispositivo della mostra in senso tanto plastico quanto comunicativo, diventa così insieme un generatore di desiderio scopico e un essenziale attivatore della “visibilità” delle opere stesse, antiche o contemporanee che siano, cui fornisce l’agognato, indispensabile supplemento in grado di strapparle simultaneamente ai due estremi del già-visto e del non-ancora-immaginato. A farle apparire insomma, per quanto già conosciute, risolutamente nuove, e per quanto ignote, assolutamente indispensabili, e come tali meritevoli del culto di massa che viene loro tributato: perfette e inevitabili epitomi del meccanismo di perpetua generazione e rigenerazione del valore proprio del capitalismo avanzato e al tempo stesso esemplificazioni della condizione estetica contemporanea dominata dal meccanismo dell’appropriazione, al cui interno l’opera d’arte con può che presentarsi nella forma al tempo stesso attraente e irritante di un procedimento indiziario, di un’interrogazione aperta, di un paradosso.

 

Eugene Von Bruenchenhein

 

La Biennale curata da Massimiliano Gioni rappresenta in questo senso un ulteriore passo verso l’ibridazione tra la tradizionale forma del museo e la mostra temporanea: del primo, nelle due sedi dell’Arsenale e dei Giardini, presenta la struttura nettamente profilata, la tendenza a stabilire percorsi obbligati in spazi rigorosamente ordinati, l’organizzazione discorsiva tanto più efficace quanto meno vistosa; della seconda, il ricorso costante alla sorpresa, al gioco degli accostamenti inediti, l’andamento rizomatico, l’esotismo intellettuale, un gusto insieme cool e sofisticato che tocca il suo apice nell’inclusione delle numerose figure di outsiders, negli accostamenti inusuali e nei recuperi inaspettati.

 

Guo Fengyi

 

I lavori del visionario pittore, scultore e fotografo Eugene Von Bruenchenhein, gli straordinari disegni cosmografici di Guo Fengyi, una della presenze più intense di questa edizione, o anche artefatti ibridi ed eterogenei, prodotti in contesti periferici, come il bestiario fantastico scolpito tra Otto e Novecento dall’intagliatore e cantastorie Levi Fisher Ames in Wisconsin (precursore segreto della serie What is a Monster di Domenico Gnoli, pure in mostra), sono così avvicinati a opere di artisti molto più noti, come l’irresistibile serie di piccole sculture umoristiche Plötzlich diese Übersicht di Peter Fischli & David Weiss (già vista a Milano nel 2008 in una mostra della Fondazione Trussardi) o lo stravagante, ironico “arazzo” di Jean-Frédéric Schnyder, Apocalypso.

 

Fischli & Weiss

 

Le distinzioni tra artisti e dilettanti, tra opere e artefatti, tra indagine concettuale e folklore, tra etnografia e misticismo, tra documento e narrazione, diventano fluidi, le distinzioni abituali perdono peso. La forza enunciativa della mostra di Gioni, la sua persuasiva “orizzontalità”, la sua stessa dichiarata iconofilia, sono altrettanti punti forti di una strategia che propone (e si allea con) l’autoevidenza di una condizione ormai generalizzata: un regime scettico dell’immaginario, in cui si annullano le distinzioni tra alto e basso, tra centrale e periferico, tra autoriale e anonimo, e si esaltano invece le capacità di tradurre e assimilare, lo sguardo laterale, la disponibilità all’avventura, il “flusso” ininterrotto, il brivido dell’eccentrico, dell’obsoleto e dell’inclassificabile, tutte attitudini di cui, in anni recenti, sono state testimonianza paradigmatica imprese editoriali di Maurizio Cattelan come “Charley” e “Permanent Food”.

 

René Iché e André Breton

 

In questa dimensione, l’ibrido mostra-museo diventa dunque un vero e proprio nuovo testo, in cui i caratteri peculiari delle immagini, il loro spazio storico e simbolico, sono riletti e trascesi alla luce della nuova configurazione concepita dall’exhibition maker, figura assimilabile a quella di un meta-artista (ruolo esplicitamente teorizzato nell’ultimo decennio, tra gli altri, da un coetaneo di Gioni come Jens Hoffmann). Un’operazione che punta a estrarre o proiettare nuovi potenziali di significato su materiali di natura ormai inevitabilmente eterogenea, fornendo alla contemporaneità un essenziale, ancorché provvisorio, background iconologico, un’archeologia istantanea si potrebbe dire, con tutto il fascino e l’ambiguità che l’operazione inevitabilmente comporta. La serie che apre la mostra ai Giardini è in questo senso emblematica: il Libro rosso di Carl Gustav Jung, la pseudomaschera funebre del volto di André Breton realizzata da René Iché, i disegni su carta nera di Rudolf Steiner, le enigmatiche sculture di Walter Pichler e l’azione di Tino Sehgal, non si dispongono in un percorso evolutivo, non illustrano una genealogia: piuttosto, forniscono in forma icastica la chiave di lettura della mostra come territorio in cui immagini interiori, ricerca esoterica, ossessioni individuali, didattica trascendentale, quotidianità, paura, desiderio, ripetizione e caos si rispecchiano gli uni dentro gli altri senza soluzione di continuità, come pure senza apparenti linee di frattura si possono leggere nelle sale successive reperti singolarissimi come i minerali figurati della collezione di Roger Caillois e La Grande Biblioteca  di Gianfranco Baruchello, in cui Jean-François Lyotard riconobbe un precoce emblema della condizione postmoderna, i Diari di Kafka illustrati da José Antonio Suarez Londoño nei suoi taccuini, i disegni terapeutici realizzati dalla medium Emma Kunz, le due stele dorate di James Lee Byars dedicate alla Filosofia e alla Morte e i disegni-dono, vere e proprie mappe soteriologiche, prodotti nell'Ottocento dalle comunità Shakers americane.

 

 

Tino Sehgal; in secondo piano Walter Pichler e Rudolf Steiner

 

Ancora, solo in chiave di un’anarchica esaltazione scopica, sospesa tra innocenza, rivelazione e perversione, si possono accostare immagini reciprocamente remote come le fotografie a infrarossi di incontri sessuali nei parchi di Tokyo, scattate da Kohei Yoshiyuki negli anni settanta e raccolte nella serie The Park, il video di Artur Żmijewski, Blindly, in cui alcuni ciechi sono ripresi mentre dipingono con le dita su larghi fogli di carta poggiati sul pavimento, immagini intrise della strana miscela di crudeltà e bellezza tipica del lavoro dell’artista polacco, gli affascinanti ritratti fotografici di bagnanti dalla serie Relationship, realizzata da Nikolay Bakharev in una Russia ancora sovietica, o i disegni erotici, insieme espliciti e ingenui, del Leningrad Album di Evgenij Kozlov (questi ultimi due lavori già esposti nella mostra Ostalgia, curata da Gioni al New Museum di New York nel 2011).

 

Nikolay Bakharev

 

Se la tonalità dominante, soprattutto ai Giardini, è sostanzialmente malinconica e postuma, una luce iridescente ma come ingrigita, attutita da una distanza, all’Arsenale viene in primo piano la dimensione corporea, la sua opacità e pesantezza, come nel caso dell’imponente, minacciosa forma biomorfa di Roberto Cuoghi, Belinda, o al contrario il suo potenziale metamorfico, la sua affinità originaria con l’immagine, il riflesso, il doppio, il fantasma.

 

Roberto Cuoghi

 

Sono caratteri visibili ad esempio nella vasta, inquietante e assai teatrale installazione di Paweł Althamer Venetians, dove calchi dal vero sono inseriti in spettrali corpi di plastica grigia a grandezza naturale, ma soprattutto nella sezione centrale dell’Arsenale, dove è incastonata una mostra-nella-mostra curata da Cindy Sherman, un museo delle ossessioni in cui l’artista americana, che ha fatto del travestimento allegorico la propria cifra caratteristica, raccoglie immagini, fotografie d’autore e anonime, quadri, sculture, sino a comporre un paradossale autoritratto in assenza. Si allineano nella “sezione” più di duecento lavori di trenta diversi autori, dai paños, gli intricati disegni a biro su fazzoletti realizzati nelle carceri messicane, ai trionfi feticisti dei photocollage di Pierre Molinier, dagli acquarelli freneticamente erotici di Carol Rama agli album di fotografie anonime di una comunità di travestiti, passando per le sculture iperrealiste di John De Andrea, Duane Hanson e Charles Ray, i volti sulle copertine del rotocalco sovietico “Огонёк” trasformati in maschere atrocemente deformi da Sergey Zarva, i perturbanti manichini in cera fotografati negli anni venti del secolo scorso da Karl Schenker, antichi ex-voto italiani, bandiere voodoo haitiane e molto altro ancora.

 

Carol Rama

 

La selezione di Gioni, per quanto possa apparire inconsueta nella tradizione della Biennale, attinge a un vasto retroterra di ricerche, studi e collezionismo che vanno da tempo documentando le pratiche espressive e le personalità artistiche marginali, le zone di attrito culturale e le sopravvivenze di tradizioni estinte. La Biennale 2013 in questo senso segue un’evoluzione del gusto (e delle strategie di mercato) che ha progressivamente aperto negli ultimi venti anni il campo dell’arte a tematiche iconologiche e antropologiche (come ha fatto ad esempio una mostra recente, Animismus, recensita su doppiozero da Maria Bremer), alle tradizioni popolari e ad ambiti culturali extraoccidentali, ma anche portando a un grado molto più consapevole e culturalmente produttivo quella strategia del montaggio e della sorpresa di cui, proprio a Venezia, è un esempio la serie di esposizioni ideate negli ultimi anni da Axel Vervoordt a Palazzo Fortuny, tra cui Artempo (2007) e Tra. Edge of Becoming (2011), ambiziosi congegni a tema in cui l’abile miscela tra opere d’arte contemporanea, ambienti storici e allestimenti smaccatamente scenografici non riusciva peraltro a occultare la fumosità delle premesse e l’inconsistenza dei riferimenti culturali.

 

Levi Fisher Ames


Altro riferimento per la mostra veneziana è certamente la serie di mostre curate tra anni novanta e duemila da Jean Clair, come L’Âme au corps al Grand Palais di Parigi nel 1993, in cui veniva proposta una rilettura in chiave già esplicitamente enciclopedica del percorso della modernità, osservato da un punto di vista ristretto, appunto la relazione tra “mente” e “corpo”, che permetteva una serie di incursioni in territori limitrofi, dalla fotografia giudiziaria alla frenologia, dallo spiritismo alla caricatura ecc. Esposizione molto criticata al tempo per la suggestiva disinvoltura degli accostamenti e le dubbie prospettive politiche e storiche che la sostenevano, ma certamente modello di una rilegittimazione, all’interno di una mostra d’“arte”, di materiali, immagini e tempi eterogenei.

 

Molte scelte e direi l'orientamento generale del Palazzo Enciclopedico appaiono inoltre vicine alla sensibilità culturale di una delle più brillanti riviste contemporanee, “Cabinet”, i cui editors, Sina Najafi e Jeffrey Kastner, sono di fatto i curatori del catalogo. Del magazine newyorchese la mostra veneziana riprende e amplifica interessi e filoni di indagine, dalla microstoria all’iconologia, la grande curiosità visiva, l’attenzione per il quotidiano, per il collezionismo minore, per le tradizioni marginali e per quella cultura vernacular di cui l’American Folk Art Museum di New York è stato in anni recenti uno luoghi emblematici. Altra importante influenza, riconosciuta da Gioni nel suo testo in catalogo, sono le  ricerche di Georges Didi-Huberman, in particolare l’accento che lo studioso francese, riprendendo concetti elaborati da Walter Benjamin, ha costantemente posto sulla natura anacronica e dialettica della storia dell’arte. In questa prospettiva, le immagini che ci giungono dalla tradizione artistica diventano leggibili proprio grazie allo scontro con un presente che le apre e mostra al loro interno “sopravvivenze”, fossili che contraddicono ogni concezione evolutiva della storia e la configurano piuttosto come assemblaggio di tempi e modelli visivi eterogenei, un modello teorico particolarmente adeguato a quella condizione insieme scettica e senza limiti apparenti che caratterizza, come dicevo prima, la produzione artistica e più in generale la cultura visiva contemporanea.

 

Gianfranco Baruchello

 

L’ispirazione più decisiva per questa edizione della Biennale è però senz’altro l’attività curatoriale di Harald Szeemann, di cui Gioni riprende, aggiornandolo, l’interesse per le forme d’arte popolari o non convenzionali, per l’art brut, per i dilettanti e gli emarginati, per le tradizioni teosofiche ed occultiste, per le culture non occidentali, ecc. Ma con una essenziale distinzione. Come altri intellettuali europei della sua generazione, Szeemann aveva meditato sulle conseguenze dei totalitarismi e della guerra e sulla necessità di rifondare la “coscienza” occidentale rileggendo la modernità da punti di vista non ortodossi, rivalutando intere tradizioni culturali interrotte o rimosse, come appunto l’antroposofia steineriana, viste come alternative possibili, o nuclei di resistenza, alla contrapposizione tra capitalismo consumista e socialismo “reale” e al modernismo autoritario cui entrambi i mondi di fatto aderivano. Come il suo contemporaneo Joseph Beuys, Szeemann aveva inoltre compreso quanto la fine della spinta utopica del modernismo avesse reso più fragile e incerta la pratica dell’arte e insieme avesse aperto nuove e più ampie possibilità di azione per gli artisti, estese a modi e ambiti radicalmente estranei alla tradizione autoriale dell’arte post-rinascimentale. L’accento posto dal curatore svizzero sulle capacità individuali di creazione e narrazione, sul valore poietico delle mitologie personali, sulla necessità di nuove geografie culturali, sull’allargamento della pratica espositiva a materiali non artistici, la stessa, costante spinta a pensare l’esperienza estetica in connessione alla biografia e alla trasformazione del quotidiano, sono tutti tratti che il Palazzo Enciclopedico fa tuttavia propri solo in superficie, restringendoli alla misura di una presentazione impeccabile, in linea con lo standard professionale dei grandi musei internazionali. Ciò che non viene raccolto dell’eredità di Szeemann è in effetti proprio il potenziale politico delle sue suggestioni, la loro conflittualità con il sistema istituzionale dominante, il loro stesso implicito e significativo destino di fallimento e insieme il loro valore di scommessa cognitiva lanciata al futuro. Il progetto di “riforma” dell’identità visiva contemporanea che appare sullo sfondo del Palazzo Enciclopedico tiene in effetti accuratamente a distanza conflitti e crisi del mondo attuale, o li osserva al massimo attraverso il filtro di un multiculturalismo ormai appreso a memoria, come pure evita accuratamente il confronto con la componente traumatica, militante e sperimentale che aveva occupato la scena della Biennale di Berlino del 2012, e si mantiene prudentemente lontano dall’invadente, ambiziosa ma tutto sommato inefficace armatura critica e dal radicalismo filosofico che hanno contrassegnato l’ultima edizione di Documenta.

 

Artur Żmijewski

 

Questa 55a edizione della Biennale segna il punto finale dell’evoluzione della rassegna veneziana da vent’anni a questa parte, un processo che l’ha vista trasformarsi da termometro della ricerca artistica più avanzata  in appuntamento prestigioso ma certo non più centrale in un panorama cha vede ormai destinate altrove, ad altre manifestazioni periodiche e forse ancor più risolutamente alle grandi fiere internazionali, le novità più fresche e controverse. Se l’edizione del 1993 aveva annunciato l’avvento della nuova stagione globale per l’arte contemporanea, quella del 2013 – con la sua sintesi anacronica e il suo approccio centrato più che sull’energia della novità sulla capacità di fornire al visitatore un’esperienza caleidoscopica ed emotivamente coinvolgente – stabilisce un sicuro punto di riferimento per le Biennali a venire, in difficile bilico tra sperimentazione e astuto marketing culturale. Disancorate da ogni tessitura storico-politica, lasciate libere di fluttuare in uno spazio privo di asperità e di contrapposizioni radicali, le immagini di questa esposizione irradiano una luce seducente, un senso di meraviglia e un’aura sensuale che attutisce o fa dimenticare le loro nascite faticose, il loro sapore così spesso amaro, la loro straordinaria resistenza alla mostruosa antropofagia della Storia. Esse ci offrono nel complesso un’interpretazione del nostro presente che sarebbe confortante poter ritenere credibile.

 

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