Claudio Tolcachir. Fra teatro e realtà

11 Agosto 2012

 

Per quali ragioni, al giorno d’oggi, ci ostiniamo a lavorare e a formarci in teatro, in condizioni sempre più insostenibili? Che senso ha fare teatro in tempi di crisi? Sono le domande con cui si è inaugurato il workshop teorico/pratico di scrittura critica condotto da Andrea Porcheddu. Ma sono anche interrogativi che, lo stesso Porcheddu, ha rivolto all’autore-attore-regista argentino Claudio Tolcachir, nell’incontro pubblico che l’ha visto protagonista alla Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian. Perché, in Argentina, la materialità della crisi (economica, sociale, culturale) che stiamo cominciando a conoscere di questi tempi, fuori e dentro i palcoscenici, è arrivata un bel po’ d’anni prima – proprio quando Tolcachir ha fondato Timbre4, la compagnia con cui lavora tuttora, e in coincidenza a quella rinnovata vivacità del teatro ibero-sudamericano che ha attirato la grande attenzione dei pubblici e degli studiosi del vecchio continente.

 

Un momento del laboratorio

 

«Il fatto che Timbre4 e il nuovo teatro argentino – racconta Tolcachir – siano nati durante la crisi argentina non è stato calcolato né progettato. Piuttosto, si è trattato di una sorta di reazione istintiva di fronte a quello che ci stava succedendo intorno: un vero disastro, un panorama a dir poco deprimente in cui le generazioni più adulte, come quella dei nostri genitori, non avevano più lavoro né futuro; e la nostra nemmeno poteva aspettarsi una possibilità di progetto. Molti miei amici e colleghi se ne andavano da un paese che non aveva più nulla da offrire. Quasi senza accorgercene, ci siamo riuniti a lavorare, senza sapere bene cosa stessimo facendo. Visto che non c’era alcun progetto di paese, siamo stati noi a inventarci un piccolo progetto, in teatro». Così, dalle parole di Tolcachir, è possibile comprendere contesti e provenienze di questa fortunata stagione, in casa e all’estero, del teatro argentino. L’artista insiste molto sui termini artigianali di tutta l’operazione, e del valore che simili condizioni possono rappresentare – se modellate secondo una certa prospettiva – per il processo creativo: «tutti avevamo un lavoro “vero”, di giorno, così potevamo dedicarci al teatro solo la sera; ma una delle attrici aveva una bimba piccola e non poteva venire alle prove. Così le ho detto: “Ci sentiamo alle 11 e un quarto, proviamo al telefono”. E da lì è nata una delle scene-chiave dello spettacolo».

Questa essenzialità del teatro, che lavora innanzitutto a scoprire ciò che di teatrale c’è in ognuno di noi; questo approccio intimo e a tratti sentimentale, che si interroga sulle debolezze che resistono fra attore e personaggio; questa prospettiva sospesa fra gioco e realtà – sono gli ingredienti del teatro dell’artista porteño che ritroviamo anche nel lavoro laboratoriale che si sta svolgendo in questi giorni a Venezia. Tolcachir si concentra, insieme ai 25 allievi attori, su uno degli elementi-base del fare teatrale: la costruzione del personaggio. In barba allo straniamento brechtiano e rimpastando i dogmi dell’attore creativo di matrice stanislavskiana, parte dalla singola individualità per sviluppare un lavoro di puntuale artigianato teatrale. Chiede di concentrarsi sui dettagli più minuti, di interpretare il proprio ruolo per quanto possibile anche fuori dal laboratorio; di immaginare com’era da bambino o come potrebbe essere fra vent’anni. Si potrebbe parlare di realismo e di tradizione, ma basta uno sguardo alla vivacità della nuova teatralità argentina per scuotere i limiti di queste categorie, che tante volte – in un Paese come il nostro che auspica (e esporta) l’avanguardia permanente e lo stato d’eccezione come routine – sono piuttosto luoghi comuni che sostanza.

 

Certo il rischio di incontrare un simile lavoro decontestualizzato – e quindi privato della sua stessa spinta, della propria ragion d’essere – è forte: dalla “casa chorizo” (questo il nome delle abitazioni operaie di Buenos Aires) di un barrio popolare e periferico ai fasti della Serenissima; dagli imprevisti che impongono le luci di scena fatte con scatolette di tonno alla capitale indiscussa del turismo di massa; dai tangueros ai gondolieri, dal teatro (in senso stretto) indipendente a uno dei profili più istituzionali del mondo, quello della Biennale. Ma è anche vero che, in questi tempi in cui la crisi non è più rimandata, sorpassata o soltanto nominata, forse l’approccio di Claudio Tolcachir può diventare un’opportunità per riflettere su che ruolo può avere il teatro in tempi duri come questi. Su quanto l’abc della scena – spazio, persone, storie – non siano mai elementi sorpassati o sorpassabili, quanto piuttosto spunti da cui è possibile rivedere e riassettare forme e linguaggi. E su come sia possibile, facendo di necessità virtù, rinnovare il teatro dall’interno, proprio a partire dagli elementi più basilari, dall’invenzione e dall’artigianato, dalla necessità stessa della messinscena. 

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