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Aqua / Elogio della plastica

30 Novembre 2019

Quando avviene un accoltellamento, gli inquirenti di solito non arrestano il coltello, ma chi l’ha usato. È evidente come il coltello non abbia colpe ma solo caratteristiche, che queste producano effetti positivi o negativi dipende esclusivamente da come vengono utilizzate, se per tagliare patate o gole. Eppure questa considerazione, che ha i caratteri della banalità, non viene presa in esame nel caso di un materiale che da qualche tempo nell’opinione pubblica pare incarnare il male assoluto: la plastica.

 

Le innumerevoli tipologie di materiali sintetici che vanno sotto il nome generico di plastica hanno una caratteristica comune: sono quasi tutte pressoché immortali. Restano così come sono per secoli, cosa che, detta nel linguaggio della sostenibilità, si traduce con: non sono biodegradabili. Avere a disposizione un materiale pressoché immortale è una cosa utilissima, con una materia estrema si risolvono problemi estremi, diventa presto insostituibile specialmente in campo medico, ospedaliero, sportivo, per esempio. È evidente che se con qualcosa di immortale si costruiscono cose destinate a essere usate poco o addirittura una sola volta, qualche problema ce lo si deve aspettare. E ora, dopo poco più di una cinquantina d’anni di uso sconsiderato di uno dei materiali più efficaci che abbiamo mai avuto a disposizione, i problemi sono arrivati. 

 

 

È il 1939 quando nei negozi di biancheria intima femminile di Wilmington, negli U.S.A., compaiono le prime calze di nylon. L’anno prima il chimico Wallace Carothers l’ha messo a punto nei vicini laboratori della Dupont e subito qualcuno ha pensato di usarlo per sostituire in modo più economico le calze di seta dando inizio a una progressiva sostituzione di cose e oggetti che mantenendo la loro forma mutano di sostanza per ragioni essenzialmente economiche. È quello il periodo in cui compaiono le prime fibre sintetiche e in una ventina d’anni si arriva alla messa a punto di molti materiali plastici, nel ’63 l’italiano Giulio Natta riceve il Nobel per la chimica per avere, qualche anno prima, sintetizzato il polipropilene isotattico, successivamente commercializzato come Moplen. Il tormentone di Gino Bramieri: «E mo', e mo', e mo'... Moplen!» è uno dei classici del Carosello degli anni del boom economico di cui le materie plastiche sono state ampiamente protagoniste. 

 

 

La plastica arriva negli anni Sessanta nelle case e dilaga, dai secchi ai guanti alle sedie, una serie infinita di oggetti abbandona i materiali originari per quelli sintetici, la plastica è moderna, pulita, colorata e soprattutto, economica. Costa poco, è alla portata di tutti, è flessibile, ci si possono fare oggetti nuovi, invenzioni prima inconcepibili, è il materiale ideale per il sistema industriale, è un fluido, prende la forma che le si vuole dare, è docile e incarna a meraviglia l’ideale della società dei consumi. Il design degli anni Sessanta e Settanta gioca con la plastica in maniera sublime creando alcuni degli oggetti che divengono icone del Novecento. Il fatto che sia indistruttibile, lungi dall’essere un problema, è comunicato come un valore. 

 

 

Ma dopo i primi decenni di entusiasmo, la nascente cultura ecologica inizia a guardarla con sospetto. Si scopre, per esempio, che alcuni materiali sintetici rilasciano nel tempo sostanze volatili che entrano nel corpo attraverso l’aria e provocano patologie. Ma la sua immagine è contraddittoria, c’è chi la preferisce al legno con la romantica idea che usandola non si distruggono le foreste e il pensiero animalista inizia a promuovere le cosiddette pellicce ecologiche, cioè di plastica, pur di non usare le pelli di animali veri. Quindi usare plastica è ecologico? Nel frattempo, il mondo è diventato di plastica, dai vestiti alle case alle innumerevoli cose che proteggono cose e che vengono ribattezzate packaging. Al sistema industriale non importa un fico di usare un materiale eterno per produrre oggetti che durano pochi minuti e anzi s’ingegna per fare in modo che gli torni e dopo aver inondato il pianeta usandolo per qualsiasi cosa pur di guadagnare, lo rivuole indietro per continuare a produrre spendendo meno di prima e anzi, con un salto mortale degno del miglior illusionista, si ammanta di virtù chiedendo a chi compra plastica di ridargliela gratis per il nobile scopo di salvare il pianeta da qualcosa che lui stesso ha prodotto. 

 

 

Restando all’interno dell’ideologia del consumo arrivano soluzioni divertenti come il divieto europeo che incolpa dei mali del secolo cotton fioc, cannucce e palloncini colorati, e che serve in tutta evidenza solo a prendere tempo mentre il sistema si riorganizza. Certamente ci aspettano tempi in cui gli oggetti usa e getta in plastica saranno venduti nei circuiti vintage e soprattutto saranno sostituiti da qualcosa che costerà il triplo perché per salvare il pianeta servono soldi. Già nei negozi bio si spacciano bicchieri e piatti per pic nic ecocompatibili che costano notevolmente più dei cibi destinati a contenere. 

 

 

La povera plastica ora è trattata a guisa di una vecchia amante che non si vuole più neppur sentire nominare. Dopo aver passato insieme decenni in cui ci ha accompagnato nei gesti quotidiani risolvendoci miriadi di problemi, ora è sul banco degli imputati con l’accusa di stare distruggendo gli oceani, la nostra salute e quella degli animali. Stiamo passando il tempo ad accusare il coltello mentre chi l’ha usato si organizza per costruire un altro coltello, ma biodegradabile e certamente molto più costoso. 

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