“Che senti?”. “Silenzio.” / Storia della mia depressione

6 Settembre 2017

Dopo molti giorni in cui mi svegliavo di cattivo umore, con un peso nel petto, difficoltà a deglutire, senso di oppressione, una mattina mi sono svegliato chiedendomi: perché mi sveglio sempre di cattivo umore? E ancora: perché dovrei invece svegliarmi di buon umore? Ma soprattutto: cos’è il buono e il cattivo umore? Dove sta la verità dell’umore? Fingo di più quando sto di buono o di cattivo umore? E fingo rispetto a cosa? Rispetto alla realtà del mio umore, o rispetto alla fisionomia oggettiva della realtà che mi circonda? E quindi come dovrei essere, una volta accertata la fisionomia oggettiva della realtà che mi circonda, di buono o di cattivo umore? E se riesco con ragionevole obiettività ad accertare la fisionomia della realtà che mi circonda, ossia se mi riscopro dotato della qualità psicologica necessaria a giudicare con ragionevole obiettività la fisionomia della realtà che mi circonda, perché allora il mio umore sembra insensibile a questa realtà, perché il mio umore reagisce come se questa realtà non esistesse, ma anzi come se la realtà di riferimento fosse un’altra, come se quest’altra realtà fosse, diciamo, tendenzialmente più brutta della realtà oggettiva? 

 

Di norma nella genesi del nostro umore sono coinvolte diverse componenti che si combinano tra loro in modo imperscrutabile. Per esempio se me ne sto seduto in giardino considero questo: la brezza tiepida che mitiga l’afa d’agosto; quattordici piante vive, una morta, due in via di avvizzimento; la signora del palazzo di fronte che sbraita all’indirizzo di un cane che abbaia ininterrottamente da due mesi; le punture di zanzara che fioriscono sulle mie gambe e sulle mie braccia; il cielo limpido; l’erba infestante che cresce in mezzo al ghiaino; il canto delle cicale. Elementi questi che nella composizione del mio stato d’animo possono avere segno + o segno – e che sommati o sottratti stabiliscono il tono del mio umore. 

Tuttavia un computo del genere vale per gli animali, ma non per gli uomini. Soprattutto non per me. Il meccanismo che contribuisce a costruire il mio cattivo umore è il seguente. La brezza tiepida che mitiga l’afa d’agosto mi ricorda le agghiaccianti, infinite estati solitarie di quando ero bambino e la testa mi tuonava in un vuoto ancestrale.

 

Le quattordici piante vive, quella morta, e le due in via di avvizzimento sono il segno che nell’arte del giardinaggio, come in tutte le forme d’arte in cui mi sono cimentato, sono destinato al fallimento (tempo due settimane e il numero delle piante morte supererà quello delle piante vive). La signora esasperata dall’abbaiare del cane è la materializzazione di ciò che accade di norma nella mia testa (c’è un cane che abbaia ossessivamente, nella mia testa). Le punture di zanzara, il cielo limpido, l’erba infestante, il canto delle cicale mi riportano col ricordo alla parte disabitata e selvaggia di un’isola greca che visitai all’età di diciotto anni, a una madonnina sul bordo della strada che digradava verso il mare, agli occhi della madonnina fatti con due pietruzze bianche, i quali, nel biancore della luce mediterranea e nell’ampio silenzio soffice di quel vuoto terracqueo mi restituì l’impressione della più vasta, totale, assoluta solitudine concepibile in natura, all’atto di vandalismo che compì uno dei ragazzi che erano con me il quale scagliò una pietra contro la madonnina spaccando il vetro che proteggeva quegli occhi gelidi. Tutto questo accade mentre me ne sto seduto in giardino convinto di non essere immerso in una fase particolarmente riflessiva né drammatica né emozionante, ma in uno stato che giudicherei neutro. 

Eppure, ecco, è così che prospera il mio cattivo umore. Non è quasi mai in connessione con la realtà che mi circonda, e se lo è, lo è solo perché quella realtà è il treno sul quale salgo per arrivare a più remote destinazioni. Tutto questo, mi è stato spiegato di recente, avviene per delle infinitesimali produzioni di sostanze chimiche, per questioni “organiche”, “cromosomiche”, “genetiche”. Quindi il cane, le estati di quando ero ragazzino, la madonnina con gli occhi di pietra, non sono altro che delle entità molecolari, ioni, miscele. Niente è vero, nessuna realtà. Solo il mio cattivo umore è vero.

 

Quello che chiamo cattivo umore è in realtà una vera e propria malattia. Tuttavia non ha la forma di una vera e propria malattia, e dunque per secoli è stata relegata al rango di non-malattia. Una non-malattia il cui effetto era, per Teresa d’Ávila, “di oscurare e disturbare la ragione, cui non riesce a far arrivare le nostre passioni”. Più una bizzarria della mente quindi, un capriccio, se non addirittura uno strumento nelle mani del demonio. Ma anche una devianza congenita, di quelle forme di devianza che, nelle loro manifestazioni più gravi ed evidenti, meritavano di essere trattate in manicomio. La mia malattia non ha una fisionomia precisa. Due malati della mia stessa malattia possono mostrare sintomi totalmente differenti l’uno dall’altro, provare dei propri sentimenti, esacerbazioni, sempre nuove corruzioni del sistema nervoso. 

Soffro di questa malattia che la comunità scientifica definisce sommariamente depressione maggiore da quando ho coscienza del mondo, da quando cioè ho occhi e cuore per decifrare la realtà che mi circonda, perciò direi dalla più tenera età. Il mio problema è sempre stato quello di non attribuire dignità di malattia al modo in cui, appunto, decifro la realtà. Nella mia famiglia questa percezione è sempre stata bollata in quattro parole: “Hai un carattere difficile”. Qualcosa che, di volta in volta, aveva a che fare con la suscettibilità, con la timidezza, con l’ombrosità, con l’asocialità, con il peso di un’infanzia travagliata, con una generale intrattabilità, nei momenti peggiori con un’inguaribile indolenza. Ma non era niente di tutto questo, o forse era la somma di tutto questo, il complesso dei sintomi caratteristici della mia malattia, la malattia che la mia famiglia non riconosceva come tale. La mia ostilità, il cattivo umore, sono stati i cupi compagni di viaggio con cui ho condiviso tutti i miei giorni. La presa d’atto di cosa si nascondesse in realtà dietro tutto questo è avvenuta molto presto. Sapevo che c’era qualcosa in me che non poteva essermi attribuito come una colpa, ma non trovavo le parole per spiegarlo. E quindi per decenni mi sono preso la colpa, la colpa di avere un carattere difficile.

 

Nell’epistolario di Freud si legge: “Nel momento in cui un individuo si interroga sul significato e sul valore della vita, egli è malato, dato che oggettivamente non esiste nessuna delle due cose”. Questa, che è la tipica frase di un depresso, è un’istantanea realistica e feroce della depressione, poiché contiene in sé il gioco assurdo, il paradosso impazzito in cui si dibatte il depresso. Sono malato nell’istante in cui dico a me stesso che la vita non ha significato. Ma se è – oggettivamente – così, ossia se la vita è realisticamente priva di significato, allora gli altri, coloro che invece intravedono nella vita un significato, sono colpevoli di rimozione. Dunque si può dire che la malattia è insita negli esseri umani, ma solo coloro che riconoscono di essere malati vengono considerati tali, tutti gli altri si ritengono integri, e quindi l’integrità è la loro malattia. Il depresso si dibatte tutta la vita in questo cortocircuito alimentato dal proprio realismo e dalla propria lucidità.

 

Nell’ultimo anno la gravità della mia malattia si è estesa, ha subìto, per così dire, un’accelerazione significativa; nell’ultimo anno la mia malattia ha fatto un salto di qualità. Con l’arrivo della primavera i sintomi sono emersi a un grado mai sperimentato prima. Il male che si era radicato in me silente per quarant’anni mi ha tutt’a un tratto mostrato i segni di una sconvolgente fioritura. Apatia, nausea, panico, dolorosa percezione di insignificanza, sono esperienze che ho provato più e più volte nel corso della mia vita, ma sempre accompagnate da una traccia più o meno evidente di malinconia – chiamiamola – sentimentale, il segno che qualcosa dentro di me fosse inequivocabilmente, perfino eccezionalmente, vivo. Ma con l’arrivo della primavera il dolore ha perso questa coloritura, è diventato esso stesso insignificante. Se prima la percezione che la vita è realisticamente priva di significato era accompagnata da tormento, amarezza e inquietudine, ora l’insignificanza non mi suscitava più nulla, era diventata a sua volta insignificante. La presa d’atto dell’irrilevanza della realtà non mi toccava più i gangli vitali, e perciò io non potevo più ritenermi, a rigor di logica, un essere vitale. 

 


Dopo settimane di crisi nervose, di vuoti mentali, di spossatezza, di avvisaglie, tutto ciò ha avuto il suo apice alla fine del mese di giugno. Una mattina mi sono ritrovato a vagare nel parcheggio deserto della scuola in cui lavoro, e tutt’a un tratto ho provato il dolore più acuto e al contempo irrazionale, il dolore che deriva dal non essere più qua, su questa terra, in questo luogo fisico, ma fuori dal mondo, in una landa abbagliante di sole, privo di pelle, esposto a feroci scottature, con la sensazione di percepire una specie di colata di metallo gelido che scende nell’esofago. In quel momento la vita, il mio essere al mondo, la somma delle attività umane, il dispositivo stesso di natura che alimenta le creature viventi dell’universo, in una parola sola, tutto – un “tutto” che il lettore, per comprendere fino in fondo ciò che voglio dire, dovrà estendere al punto da contenere grandezze inconcepibili per la mente dell’uomo – era privo di valore. E questa grandiosa presa di coscienza, a sua volta, al di là del dolore fisico, non era accompagnata in me da alcun senso di avvilimento o di inquietudine. Era piuttosto una realtà chiara e pacifica, indiscutibile, una realtà che semplicemente non prevedeva che io fossi ciò che sono, vale a dire un essere senziente capace di provare gioia e paura e tristezza e tutte le infinite voci presenti nel catalogo delle passioni. Insomma, nell’immensa, assurda architettura della realtà, che io fossi o non fossi non aveva alcuna importanza.

 

Allora ho chiamato A., mia moglie. Le ho detto che quella mattina, in quel parcheggio, vedevo qualcosa che non avevo mai visto prima. O meglio, quella cosa l’avevo vista centinaia di volte, ma mai con una tale precisione, in una prospettiva così netta, soffusa di una luce così estesa. Che cosa vedevo? Vedevo una completa, farsesca mancanza di senso. Nella mia testa non c’era più niente, e intorno un’afa repellente, trentasei gradi all’ombra, una luce bianca che confondeva tutto, la mente e lo stomaco, un silenzio da disastro nucleare, una riga orizzontale, tremula, che mi attraversava i pensieri come un filo di metallo arrugginito, una morte bianca, i vecchi che uscivano dal vicino centro anziani arrancando con le camicie sbottonate fino all’ombelico e le ginocchia slavate, gli occhi arrossati, le bocche asciutte e nere, le strade del quartiere che puzzavano di cadavere, i fiumi secchi, le lamiere delle macchine incandescenti, i cumuli di aghi di pino ammassati ai bordi dei marciapiedi, gli insetti succhiasangue. Intorno a me c’era questo, e dentro di me, dentro, niente

 

Allora A., che pure è a conoscenza della mia malattia, che ne ha per così dire dimestichezza, stavolta si è intimorita. Mi ha imposto di non muovermi di là, di non fare niente, di restare assolutamente immobile finché non mi avesse richiamato, cosa che sarebbe successa non più tardi di un quarto d’ora. Nel frattempo ha fatto delle telefonate e ha preso appuntamento per la sera stessa con questo medico psichiatra – consigliatissimo, dice – mi ha imposto di andare la sera stessa, senza concedermi il diritto di replica, perché ne ha abbastanza di questo mio cattivo umore, e forse stavolta davvero temeva che potessi fare qualche follia. 

E così, la sola idea di avere un appuntamento con un medico psichiatra, un appuntamento per la sera stessa, questo un poco mi ha calmato l’animo, e mentre continuavo a vagare senza meta nel parcheggio deserto della scuola in cui lavoro ho provato a rimettere ordine nella mia testa squassata dagli assalti, e lentamente, con pazienza e disciplina, sono ritornato tiepido, imperturbabile. 

 

Il mio medico psichiatra riceve i pazienti in uno studio al secondo piano di un bel palazzo umbertino nel quartiere Prati. È un appartamento vecchio stile, di quelli che piacciono a me, soffitti alti con modanature, pavimenti in graniglia, infissi di legno bianco. La porta era aperta e dentro non c’era nessuno. Mi sono infilato nel primo stanzino sulla destra, c’erano delle sedie di plastica nere, un separé a vetro con una piccola scrivania, telefono, computer e tutto. Sul soffitto roteavano lente le pale di un ventilatore. Faceva molto caldo e sudavo, mi sono asciugato la fronte con un fazzoletto di carta e ho sbirciato sulla bacheca in cui erano esposti vecchi programmi di convegni di psichiatria. Ho aspettato così per venti minuti, finché dal corridoio non ha fatto capolino il medico psichiatra col quale avevo l’appuntamento. È un uomo alto e magro, capelli bianchi e fisico da maratoneta, mi ha teso la mano e si è presentato, poi mi ha fatto strada verso lo studio, una stanza grande, con una scrivania in un angolo fra due finestre, librerie alle pareti, una bella luce vespertina che faceva tremolare l’aria. Lui si è seduto e io ho fatto altrettanto. 

 

“Ho sentito sua moglie stamattina”, ha esordito. “Mi ha accennato qualcosa, ma vorrei che me ne parlasse lei più diffusamente”. 

Allora ho iniziato a parlare e gli ho raccontato dell’episodio del mattino, ma non trovavo le parole giuste, e soprattutto badavo al suono della mia voce, ovverosia ascoltavo la mia voce come se fosse la prima volta, la rilevavo, aveva un tono lento e basso, ogni parola si concludeva con una scia roca, la mia voce era quasi salmodiante, la tipica voce di un malato di depressione, uno che però si sforza di avere ancora il controllo, un malato calmo, che sa di essere giunto nel porto e che per oggi non dovrà attraversare altre burrasche. Il medico psichiatra mi ha chiesto soprattutto una cosa, mi ha chiesto di raccontargli la storia della mia depressione. E così mi sono imbarcato in questo racconto, parlando della mia malattia come se fosse un personaggio di una storia più grande, un personaggio tra i più importanti, come se illuminassi questo personaggio con una luce talmente potente da isolarlo da tutto il resto, rendendolo l’unica cosa veramente interessante di tutta la mia vita, e soprattutto come se i fatti accaduti nella mia vita fossero totalmente irrilevanti nella costruzione della mia malattia, come se la mia malattia insomma fosse la gramigna, spuntata e proliferata largamente e in fretta e in modo del tutto scollegato dalla mia volontà. Ho parlato della storia della mia malattia come se la malattia non fosse un aspetto di me, ma un altro me fuoriuscito per gemmazione, un altro me parassita che ha occupato il tempo della mia vita succhiandomi la linfa vitale destinata alle cose migliori.

 

Ho parlato della mia malattia attribuendole un volto, un carattere, addirittura una certa fama, il nemico sfidato a un interminabile duello, noi due da sempre spalle contro spalle, e, al segnale, caricare, sparare. Sparare in eterno, in eterno voltarsi l’uno verso l’altro, me stesso verso il mio nemico, la mia malattia, e ogni volta, all’arrivo del segnale, nell’atto di voltarsi, non trovare nulla, nessun nemico, solo un campo desolato, un refolo di vento, la pistola scarica che fa un roboante, gelido clic, e perciò chiedersi se il nemico non sia stato più veloce, non abbia sparato per primo, e quel non trovare nulla non sia in realtà nient’altro che la faccia spoglia della morte. 

Ho parlato di questo, e il medico psichiatra mi ha ascoltato, mostrando perfino un certo interesse, ma credo che fosse un aspetto del tutto professionale, una qualità sviluppata in anni di servizio. Mi ha fatto domande del tutto prevedibili, niente che potesse sorprendermi o interessarmi più a fondo alla scienza della psichiatria. Una su tutte mi è sembrata la più scontata, mi ha chiesto: “C’è stato un momento della sua vita in cui può dire di essere stato BENE?”. Lo ha detto calcando con la voce sull’ultima parola, gonfiandola di senso. Ci ho pensato un po’, ma era del tutto evidente che stessi concedendo qualcosa che altrimenti non avrei concesso. Vale a dire una riflessione.

 

Come quando cerchiamo qualcosa che sappiamo di avere perduto ma facciamo comunque un tentativo, nella speranza di esserci sbagliati, o nella speranza che, per un misterioso e incomprensibile caso, la cosa che stiamo cercando e che ormai davamo per perduta si trovi in realtà in un posto al quale non avevamo mai pensato. Tuttavia il massimo che sono riuscito a dire è stato: “Sono stato bene ogni volta che sono uscito per andare a correre”. E lui è sembrato perfino soddisfatto della mia risposta, come se la mia risposta gli avesse fornito la conferma a qualche sua teoria, o a qualche idea indiscutibile appresa sui libri negli anni di studio. Dev’essere anche lui un patito della corsa, ho pensato. In effetti erano passati molti mesi dall’ultima volta che ero andato a correre, “L’ultima volta è stato prima del trasloco”, ho sospirato. Al che mi ha chiesto del trasloco, e io ho fatto come se mi fossi appena risvegliato da un coma profondo. Ad aprile ho cambiato casa. È stata un’impresa superiore alle mie forze, e credo che la cosa non sia estranea a questa violenta ricaduta nel male di cui soffro.

 

Il medico psichiatra mi ha osservato con attenzione, respirando con assoluta calma. Era del tutto a suo agio nella posa sghemba, rilassata, nel modo in cui riempiva la poltrona girevole in vacchetta nera, il viso cauto e disteso, il brillio appena mosso negli occhi attraverso il quale lasciava intendere di aver già compreso tutto, di avere una diagnosi bella e pronta, e tutto il tempo delle chiacchiere che mi stava concedendo sembrava non avesse altro scopo che dare un senso ai cento euro che avrebbe preteso al termine della visita specialistica. Ha annuito a ogni frase che pronunciavo, convalidando ogni mia teoria. Il vero medico psichiatra qua sono io, ho pensato. Ho una capacità di autoanalisi formidabile, non sono ancora del tutto fottuto. Forse in definitiva non mi occorreva neppure recarmi da un medico psichiatra. Mi occorreva bensì uno specchio, o qualcuno che semplicemente annuisse a ogni mio sproloquio. 

Il punto a cui non potevo tuttavia arrivare è la somministrazione di una terapia farmacologica. Non ne possiedo la scienza. Il medico psichiatra invece sì, la possiede. C’è un gesto elegante, bello, che mi incanta da quando ero ragazzino, è il gesto che fanno i medici quando prendono il blocco di fogli bianchi e iniziano a scrivere la terapia, il modo in cui scrivono su quei fogli bianchi è una delle meraviglie dell’universo, un apice glorioso delle qualità umane, il movimento sciolto del polso, quelle penne che non si inceppano mai, dalle quali scaturisce un inchiostro incantevolmente blu, riempiono il foglio in pochi secondi, poi lo strappano e te lo porgono, ripetendo a voce alta posologie e nomi di farmaci che suonano come personaggi da fantasy medievale.

 

Tutto qui. Alla fine era un caso semplice la mia depressione maggiore, una cosa da perderci pochi minuti, nulla di tanto grave e complesso da non poter essere curato con tre farmaci: un inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina, un ansiolitico e un ipnotico simil-benzodiazepinico. Gocce e pillole capaci di sfidare l’oscuro abisso turneriano in cui appena poche ore prima avevo gettato l’universo intero con dentro me stesso. Ho provato un senso di profondissima delusione, ma anche di sollievo, come se due dita enormi e leggere sgravassero Atlante pilastro del cielo del peso del mondo che porta sulle spalle, un peso che per il padrone di quelle dita dev’essere del tutto irrilevante. E mi sono sentito un organismo minuto, un granello di sabbia riflesso in una singola goccia chimica. Uscendo dallo studio medico con in pugno la ricetta su cui era trascritta la soluzione al mio male sentivo che le cose d’ora in avanti sarebbero andate meglio.

 

Nelle pagine conclusive di Questo buio feroce, Harold Brodkey ha scritto: “Trovo che il silenzio di Dio sia bellissimo, anche quando il silenzio è diretto a me”. In questo libro Brodkey, condannato dall’aids, narra del suo cammino verso la morte e della sua condizione di malato terminale. La terminalità, ossia la fase irreversibile di una malattia mortale, è una delle esperienze umane più alte e più significative. Il depresso vive la propria condizione come perenne terminalità, ricorre continuamente al pensiero dell’immaterialità del proprio essere e del proprio destino, è ateo nei confronti di Dio e dell’uomo. Un giorno mia madre, dopo aver infine ceduto all’idea che la depressione è una categoria delle malattie umane, mi ha chiesto: “Che senti?”. Non mi ha chiesto Come stai?, ma Che senti?, che a me pare una meravigliosa prova di empatia. In quel momento in me non c’erano parole abbastanza esaurienti per fornire una risposta alla sua domanda. Ma se ci penso adesso, il termine esatto che avrebbe incluso le infinite venature della mia depressione è silenzio, come il silenzio di Dio che Brodkey trovava “bellissimo”.

“Che senti?”.

“Silenzio.”

(Frastornante, immoto silenzio).

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