Torino / Paesi e città

15 Giugno 2011

Pensavo che camminare per Torino è un modo come un altro per vederla e per fare strani collegamenti. Oggi per lavoro dovevo andare in Strada del Fortino presso un hotel, dove si teneva una riunione che dovevo seguire e di cui dovevo scrivere.

Strada del Fortino taglia via Cigna, che è la continuazione di corso Palestro. All’incrocio tra via Cigna, corso Palestro e corso Regina si apre il Rondò della Forca, così nominato perché era quello lo spiazzo dove venivano eseguite le condanne a morte.

 

Sono due le ipotesi di spostamento a piedi.

La prima: il mio ufficio è in piazza Albarello, potrei fare due passi, lasciarmi sulla sinistra la Biblioteca Civica, prendere corso Palestro,arrivareal fondo e accorgermi che c’è una statua del Beato Cottolengo, poi attraversare il Rondò, fare qualche passo in via Cigna girare a sinistra e prendere Strada del Fortino, un po’ di passi ed ecco l’Hotel.

La seconda è prendere via della Consolata precorrerla tutta, passare davanti alla Consolata, attraversare corso Regina, costeggiare il Cottolengo, passare San Pietro in Vincoli, detto altrimenti il Cimitero degli Impiccati – e d’altronde come chiamarlo se non così?, sorge vicino, anche se un po’ discosto, al Rondò ed è facile figurarsi che il corpo morto dell’impiccato finisse qui il suo cammino –, quindi attraversare via Cigna, poi strada del Fortino per essere davanti all’hotel dove c’era questo incontro che io dovevo seguire.

Dal punto di vista delle distanze i due percorsi si equivalgono, così questa volta mi sono deciso per la seconda opzione: Consolata, San Pietro in Vincoli, Fortino.

 

Una ragione apparente in questa scelta non c’è. Uscito mi sono diretto, meccanicamente, da una parte piuttosto che dall’altra: ecco,ci vorrebbe uno statistico, un matematico, qualcuno che spiegasse e trovasse una sorta di legge che regola i movimenti delle persone nelle città. Io credo che questi movimenti, studiati bene, ci potrebbero dire cosa è per noi la città che viviamo.

La verità è che noi normalmente ci costruiamo delle mappe ben precise, ricreiamo nel nostro piccolo una sorta di ‘ambiente strapaesano’: facciamo colazione sempre nello stesso bar, comperiamo il giornale dal medesimo edicolante, prendiamo i mezzi alla solita ora, il supermercato dove facciamo la spesa è sempre quello. Se questo ipotetico matematico, che si è messo a studiare i flussi dei nostri movimenti, potesse guardarli, concluderebbe che abbiamo bisogno dei luoghi comuni nei quali la città smette di essere città, balena che ci inghiotte, biancore luccicante che tutto confonde, e si trasforma un microcosmo accettabile. Difficilmente qualcuno si avventurerebbe fuori da questi percorsi. E quando questo avviene, subentra la paura dell’incognito, del non più nostro, ma è lì, quando ci muoviamo fuori da questo reticolo di abitudini, che noi facciamo esperienza della città. Ne facciamo un’esperienza profonda.

 

Pensavo a questo, mentre camminavo.

E poi mi dicevo: la città non può essere altro rispetto a quello che è, e non c’è modo migliore per dire questo che percorrerlaa piedi. Mentre ero intento a fare questa enorme quantità di cose, che mai immaginavo di scrivere – queste stramberie le penso mille volte al giorno,confusamente,a folate, è difficile che mi ricordi di dirle, forse mi può capitare di raccontarlo al telefono, ma finisce lì – sono stato testimone di un fatto, che per qualche motivo merita di essere detto, e che ho percepito legato, in un modo certamente non chiaro ma non per questo meno cogente, a tutto quello che ho pensato e vi ho scritto fino ad ora.

 

Attraverso velocemente via Cigna e sono in Strada del Fortino. Il marciapiede è piuttosto ampio e oltre a me ci sono altre persone. Siamo gli uni accanto agli altri, disposti in modo vario, senza una logica precisa. Anche qui basterebbe sollevarsi alti sopra le mura, guardarsi da una prospettiva verticale, prendere due assi ortogonali per scoprire una funzione che spieghi il modo in cui gli esseri umani si distribuiscono all’interno di una piccola porzione di spazio. Ci separiamo gli uni dagli altri con una distanza minima, come se ognuno di noi (ognuna di queste persone ora con me sul marciapiede) fosse avvolto da uno spesso strato di vuoto, trasparente quanto invalicabile, che mantiene una zona di sicurezza. Mentre passeggiamo, vedo alcune persone entrare in un bar, un’altra – una donna – mi sorpassa visibilmente di fretta; io la riconosco, sta andando alla medesima riunione, potrei fermarla, ma invece preferisco che se ne sparisca.

 

Mentre cammino arrivo ad un condominio, è uguale ai molti che si vedono a Torino: ha un’entrata piuttosto elegante in marmo grigio. Ed è normale a quest’ora trovare vicino all’entrata o nelle sue immediate vicinanze un fiorino, o un furgoncino di quel tipo, di solito dal colore spento con dentro secchi, scope, detergenti, guanti e quant’altro sia necessario per pulire scale, porte e pavimenti. Se alzo lo sguardo trovo precisamente questa macchina a non più di cinque metri da me e se ruoto il capo verso destra vedo infatti una ragazza che pulisce l’entrata. È accovacciata e sta lavando con forza energica il marmo. Per un attimo quel movimento elastico del corpo mi fa ricordare la disciplina olimpica del Curling, tanto che mi viene da sorridere. Passo oltre, sono in ritardo e devo andare.

Faccio tre passi, giusti, e sento la voce di un uomo che urla qualcosa in una lingua straniera. Mi giro,vedo l’uomo che cammina verso di me, nel medesimo istante vedo la ragazza che si alza e colpisce l’uomo con un mocio vileda, una botta violenta tra il collo e la nuca.

Dopo aver detto qualcosa all’uomo disteso a terra, la donna torna a fare quello che stava facendo, noncurante che il tipo si tenga la testa con le mani, lamentandosi come un sussurro.

 

Io rimango fermo e ho un unico pensiero: come è possibile che il bastone del mocio vileda non si sia rotto? Rivedo nella testa il movimento e lo scompongo: sono sempre più stupefatto dell’elasticità con cui la donna si è mossa, la rapidità del gesto, la potenza e la coordinazione del colpo. Vedo come ha spostato il peso sulle gambe, leggermente flesse, e come ha accompagnato il tutto con una forte torsione del busto così da caricare maggiormente, quasi fosse un congegno a molla, la bastonata che aveva deciso di dare. Tutto questo – decisione di colpire e colpo – avviene in pochi secondi, è qualcosa di assolutamente esatto, di felino: una perfezione che cancella la violenza del gesto, tanto che mi pare di essere davanti alla televisione a guardare un documentario. In quei casi assistiamo alle azioni più crudeli come affascinati: vediamo una leonessa che bracca un’antilope e si getta sulla preda e la sbrana, ma il nostro pensiero non si sofferma su questa violenza, ma sull’eleganza della corsa, sulla rapidità del gesto.

 

Ora provo la medesima ammirazione, che non mi fa giudicare moralmente questo gesto, perché lo trovo bello e compiuto; una sorta di eleganza della violenza, come l’abilità del matador nell’uccidere un toro.

E poi mi convinco che sono proprio figlio di questa città, che in queste vie ha fatto della violenza un rito condiviso, in cui ognuno recita la sua parte.

E io non sono da meno.

Allora entro nel un bar, che stava a pochi passi dall’entrata del condominio,e dico: “Guardate c’è un uomo a terra, credo che sia meglio chiamare un’ambulanza”. Il barman non chiede niente e fa il numero, dall’altra parte gli chiedono la via e il resto, lui fornisce tutte le informazioni. “Hanno detto – mi fa – che tra cinque minuti arrivano”.

Io poi me ne sono uscito e sono andato alla riunione, anche se ormai ero in ritardo.

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