Dal gourmet ai foodies

17 Settembre 2014

Che cos’è la gastromania? Presto detto: la fregola per il cibo, la cucina, il gusto, la buona tavola. La mania della gastronomia. Oggi l’alimentazione ha oltrepassato la sfera, pur ampia, che le è stata propria per lungo tempo (quella che dal bisogno di nutrizione porta ai piaceri del palato, ai riti culinari e ai loro radicamenti culturali) e ha invaso ogni altra dimensione della nostra esistenza, individuale e collettiva.

 

Mangiamo, beviamo, gustiamo e degustiamo, assaggiamo, assaporiamo, sbafiamo, centelliniamo, apprezziamo, gozzovigliamo, ma anche e soprattutto ne parliamo, descriviamo tutto ciò, lo raccontiamo, commentiamo, giudichiamo, rappresentiamo, fotografiamo e filmiamo e condividiamo, immaginiamo, sogniamo, in un vortice dove l’esperienza del cibo e il discorso su di essa si fanno un’unica cosa: gastromania, appunto. Si mangiano la parole, verrebbe da dire, come si parla del mangiare: in famiglia, con gli amici, al lavoro, in vacanza, in libreria, al parco, al centro commerciale… dovunque. Un tempo c’era il gourmet, avido ed elegante: adesso è la carica dei foodies, appassionati cultori del cibo per svariate, innumerevoli ragioni.

 

Io, per esempio. Ogni giorno ricevo decine di mail, sms, tweet e simili che m’invitano a degustazioni di vini esclusivi, a cene in ristorantini très chic, a showcooking in insolite location metropolitane riadattate per l’occasione, a gite fuori porta alla ricerca delle osterie d’una volta, a reading di poesia con annesse verticali di Sassicaia e orizzontali di Gaia, a gite in sperdute cantine da raggiungere con l’ultimo modello di quattroperquattro ecologica, a viaggi per le routes sudafricane del vino per mirabolanti avventure enogastronomiche fra gli ultimi watussi. Leggo racconti gastronomici, poemi conviviali, inni al vino. Sfoglio ricettari e li confronto fra loro.

 

E poi gioco ai fornelli, seguo corsi di cucina, m’impegno in lezioni di degustazione, guardo in tv le centinaia di cuochi cappelluti e signore perbene che spadellano pietanze di qualità, m’appassiono per i game show culinari, giro per internet compulsando blog e raccolte di ricette, invito gli amici a spartire tutto ciò… In ufficio ci allunghiamo ricette tra colleghi, discutiamo sulle cocotte migliori, ci scambiamo informazioni sulle pentole in ghisa. Nello smartphone ho decine di app che geolocalizzano ristoranti ed enoteche, baracchini di street food, salumerie di lusso e aziende biologiche sperdute nel deserto. Sono iscritto ai social che organizzano gruppi di acquisto solidale per vini cileni, georgiani e neozelandesi doc.

 

 

Vado settimanalmente al mercato del contadino, appena posso mi imbuco al supermarket del gusto, ogni giorno entro nel negozio di roba organic, nottetempo ispeziono le ultime novità in tema di enoteche virtuali. Posto su Facebook la scoperta di un nuovo supper club. Parto per workshop culinari organizzati da tour operator naturalisti, dove blogger ipercliccati illustrano forme esoteriche di preparazione collettiva di pietanze curative a base di muschi e licheni, trasmettendo l’evento in streaming per centinaia di siti web sparsi nel pianeta – oltremodo da nutrire. Mi confondo. Ingrasso. Vado dal dietologo. Lo cambio. Sospendo. Mi dispero. Ci penso. Torno in cucina, a tavola, al ristorante, in cantina. Sono sopraffatto dal cibo, dai sapori, dagli odori, dai suoni, dalle temperature e dalle consistenze…. Che fare?

 

È quello che sto cercando di capire, partendo dall’assunto – o dalla pia speranza – di non essere l’unico a esser vittima di tutto ciò. La smania è collettiva, prende tutto e tutti, ed è forse arrivato il momento di fermarsi a riflettere, raccogliere le idee, catalogare le emozioni, suggerire possibili spiegazioni e vie d’uscita.

Così, l’ipotesi che provo a discutere in questo libro è che la gastromania non sia soltanto una moda che, come tutte le mode, sarà presto fuori moda. Per molti versi si tratta di un fenomeno sociale più ampio e complesso su cui, appunto, ragionare.

 

Ci sono, certo, le straripanti tendenze nell’universo dei consumi, pompate dal marketing e dalla comunicazione di brand, che ci portano compulsivamente a collaudare l’ennesimo nuovo ristorante con annesse sperimentazioni d’ordinanza nei menu e nei vini. Con tutta la retorica legata ai nuovi supereroi del nostro tempo: gli chef, accigliati e creativi, pronti a barattare tradizioni secolari e simboli antropologici per una stella in più nel carnet personale. Ma al di sotto di pose snob e posizioni di mercato, la gastromania garantisce, almeno in linea di principio, una maggior consapevolezza di quel che accade nella lunga catena che dalla silenziosa elaborazione delle sementi tutte uguali porta ai gorgoglii sempre meno discreti dei nostri stomaci appesantiti.

 

Ne deriva che, per esempio, apprezzando il colore di un nuovo cru sedicente biologico, valutandone sentori e sapori, non ci si sta soltanto pavoneggiando in un esclusivo salotto trendy provvisoriamente traslocato in una qualsiasi enoteca della nuova periferia urbana. Si sta nel contempo, fors’anche involontariamente, esprimendo un giudizio di gusto sui processi di produzione enogastronomica, sui nessi fra appetiti e giustizia, piaceri della tavola e rispetto dell’ambiente, gozzoviglie sfrenate e rivendicazioni sindacali. Analogamente, quando si affrontano cervellotiche riduzioni molecolari o mirati recuperi di tipicità iperlocali, cucine etniche o menu della memoria, è tutto un andirivieni fra papille e sinapsi, affetti e concetti, gourmandise e politica.

 

Così, abbandonando le più banali pose da intenditori sopracciò, e recuperando quell’ironia critica che caratterizzava, all’alba della scienza gastronomica, i gloriosi almanacchi dei buongustai, occuparsi di mitologie degli chef e thriller intorno ai fornelli, nostalgie dell’infanzia e nonne cuciniere, nevrosi da dieta e invenzione delle calorie, ideologie naturiste e sogni d’ingenuinità, performance culinarie televisive ed eterni chiacchiericci in rete, narrazioni pubblicitarie e ritmi del mangiare, bar d’aeroporti e street food, può voler significare qualcosa molto più ampio e ambizioso: ritrovare il desiderio di esserci, rispettando e promuovendo al tempo stesso quello degli altri.

 

 

La questione della convivialità, da tempo indicata come strada maestra per incrinare le irritanti sicumere dei tecnocrati, diviene nel nostro contesto centrale, e torna a più riprese nel corso del libro, riprendendola nel suo senso più letterale: prima ancora che desiderio di condividere beni comuni, reale capacità di star seduti insieme al desco, reimparando a far funzionare il senso del gusto, apprezzando sapori e sentori, ritrovando nel cibo sintonie e conflitti, affetti profondi e conoscenza del mondo.

 

Per evitare il rischio dell’enfasi, trappola frequente in discorsi come questi, ho scelto, appunto, la strada dell’ironia critica: con una leggerezza che non rinunci a porre interrogativi laddove tutto sembra scontato, e un’attenzione al dettaglio che eviti di prendersi troppo sul serio. Il libro procede per continue intermittenze, alternando momenti di variegato storytelling ed altri di più astratta teoria. Cercando di far giocare il cortocircuito fra i vari toni che ne derivano – alto e basso, serio e faceto, globale e locale, saggistico e narrativo – in modo da lasciar trasparire la continua ambivalenza delle questioni che volta per volta emergono.

 

Se la gastromania, a partire dal tema del cibo e della cucina, si rivela un ammasso tutt’altro che coerente di idee, passioni e fenomeni anche molto diversi – dalla moda più effimera alla rivendicazione politico-sociale più dura, passando per il marketing mediatico o i processi storici di costituzione delle identità locali – lo stile del libro prova a mimarne le fattezze. Da qui il ricorso a materiali e testimonianze eterogenei, che vanno da testi di filosofia gastronomica o sociologia dell’alimentazione a romanzi, film, trasmissioni televisive, pubblicità, marchi ma anche, spesso, storie di vita, frammenti di esperienza vissuta, personali o altrui, nel tentativo di dar voce a gran parte dei soggetti, individuali e collettivi, che nella gastromania si agitano a più livelli e per più ragioni.

 

Il percorso del libro non ha un punto di partenza e uno di arrivo, ma serpeggia fra temi e problemi di varia natura, provando a prendersi gioco dei toni troppo seriosi e considerando con attenzione quelli frivoli e scanzonati. Nella certezza che la verità, come sapeva Kafka, non sta nel fiore e nemmeno nelle sue radici, ma nel filo d’erba che, agitato dal vento, li tiene insieme. L’intreccio di fili come questi ha dato adito al libro: sul resto non so.

 

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