Chi ha orecchie per intendere

3 Ottobre 2011

Girando per le bacheche di musicisti presenti in rete è facile in questi giorni imbattersi in “condivisioni” accompagnate da commenti per lo più entusiastici di un articolo di Quirino Principe intitolato “Quest’Italia non ha più orecchio”.

Si tratta dell’appello lanciato l’11 settembre scorso sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore dal musicologo milanese per difendere la presenza dell’insegnamento musicale in ogni ordine e grado scolastico, un appello a cui do la mia completa adesione.

Non voglio però entrare nel merito degli elementi che stimolano la discussione di cui l’articolo è piuttosto affastellato e su cui spero di coinvolgere lo spirito critico di qualche collega.

Come dicevo, l’iniziativa è di per sé lodevole, come sono lodevoli tutte le iniziative, petizioni, progetti che sono state avviate negli ultimi anni e che hanno lo scopo di consolidare la presenza dell’educazione musicale nella scuola dell’obbligo e non.

Fin qui nulla da dire.

Purtroppo, e qui mi riferisco proprio all’appello di Principe, urge la necessità di capire e di far capire perché mai una disciplina tipicamente relegata a funzioni di intrattenimento dovrebbe stimolare nei nostri politici, ma anche nell’opinione pubblica, la necessità di un investimento, per nulla a costo zero, come invece vorrebbe farci credere Principe, ma di portata non certo trascurabile.

 

L’opinione espressa nell’appello è quella musicologicamente più tradizionalista e cioè che esiste una musica con la “emme” maiuscola e una con la “emme” minuscola o, come preferisce chiamarle Principe, una musica “forte” e una musica “debole”. Inutile dire che a dispetto dei termini scelti, a quanto pare è proprio la presunta musica “forte” a essere in condizioni di debolezza e lo scatto d’orgoglio e di ribellione di chi questa musica ha sempre “onorato e servito”, come Principe e con lui tutti i musicisti, docenti e ascoltatori che si uniscono al suo appello, si trasforma in una supplica disperata:

 

“si chiede soltanto che la musica debole e banale non spinga ai margini la musica energica e inventiva”.

 

L’involontaria comicità paradossale di questa affermazione che descrive quasi come un’allegoria satirica d’altri tempi la situazione veramente tragica dell’istruzione musicale italiana come una lotta tra due personaggi, la musica “forte” contro quella “debole”, nasce, temo, da un subdolo sentimento, imparentato con il razzismo. Non a caso per giustificare le proprie affermazioni il musicologo si sente in dovere di premere in modo del tutto gratuito il tasto emotivo del presunto Scontro di Civiltà, secondo cui la cultura occidentale e i paesi islamici sarebbero separati da un divario di democrazia e civilizzazione.

Un divario che si intuisce non troppo differente da quello tra la musica banale e ripetitiva e la musica energetica e di grande impatto emotivo, quella appunto “forte”.

 

Insomma siamo alle solite, ad un’altra manifestazione della “sindrome di Bob” (quella dell’episodio dei “Blues Brothers” citato nel precedente articolo di questa rubrica) secondo cui “la musica che piace a me e ai miei amici è più bella della tua, anzi: la mia è musica, la tua no”.

Naturalmente non voglio screditare il valore storico e anche attuale della millenaria tradizione musicale della nostra cultura. E d’altro canto non potrei farlo neanche volendo senza essere giustamente accusato di superficialità e ignoranza.

 

Forse non è la migliore strategia retorica quella di insultare qualcuno, la musica “debole” e i molti politici che presumibilmente la apprezzano, prima di rivolgere una supplica.

Ma non sospetta forse l’autore dell’appello, che una educazione musicale di qualsiasi livello debba partire proprio dalla musica che ci circonda? Che è la sensibilità all’ascolto, che deve essere educata e che la capacità di ascoltare si nutre prima di tutto di umiltà e curiosità? Questi sono elementi di base per chi vuole avvicinarsi a una qualsiasi musica o suono o anche rumore, siano essi parte di ciò che conosciamo e ci piace, ma soprattutto di ciò che non conosciamo e da cui ci sentiamo aggrediti o annoiati.

Questo vale per la musica che ci circonda in tutte le vastissime sue espressioni, compresa la musica “classica”, “colta” o come vogliamo chiamarla, ma per favore, non chiamiamola “forte”!

 

La musica va studiata a scuola perché è pensiero e non intrattenimento.

Perché è educazione all’uso di un senso primario che ci accompagna in ogni situazione della vita e non solo quando ascoltiamo musica, sia essa banale o meno.

Perché è un imparare ad accorgerci delle cose che altrimenti diamo per scontate: dei suoni e rumori che ci accompagnano in ogni momento, dell’inquinamento acustico che ci circonda, del martellamento a scopo essenzialmente pubblicitario con cui veniamo bersagliati dai media, della nostra stessa voce e di quella degli altri, della natura insomma profondamente sonora del mondo in cui viviamo.

 

Quindi: viva la musica nelle scuole e viva gli insegnanti di musica. Questi avranno il difficile compito di aiutare con cognizione lo sviluppo della sensibilità all’ascolto degli studenti, una sensibilità critica che si sviluppa pienamente solo se è a tutto tondo e senza pregiudizi anche, ma non solo, a partire dalla conoscenza delle espressioni musicali di oggi, come il pop e la dance tra le tante, e di tutto il pianeta.

Un compito veramente difficile che non può essere affidato all’improvvisazione a costo zero, perché se il docente conosce male la musica che ci circonda o ha la stessa capacità critica dei propri studenti, allora sì che la cultura musicale sarà costretta alla deriva in balia di correnti e mode decise dell’industria dello spettacolo e di chi vuole e può guidarci.

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