Stati Uniti / Dollari e no dopo la fine del secolo americano

8 Giugno 2020

In questi giorni le fiamme degli Stati Uniti ci colpiscono e ci interrogano. Nella scia della più grave crisi sanitaria e all’inizio di una grande depressione economica, l’uccisione di George Floyd, la rivolta generalizzata e la repressione che ne sono seguite, riportano alla luce e intrecciano “i fili della rabbia americana”, come ha scritto sul manifesto Bruno Cartosio. Dello stesso autore arriva in libreria un saggio, Dollari e no. Gli Stati Uniti dopo la fine del secolo americano (Derive e approdi, aprile 2020), che funziona come una guida di lettura all’incendio. I due fili della rabbia sono il razzismo e la disuguaglianza. La pandemia, colpendo prima e di più, sia nel contagio fisico che nelle conseguenze economiche, gli afroamericani perché più poveri, ha tirato entrambi questi fili. E insieme ha teso all’estremo le contraddizioni della democrazia statunitense. Su queste il lavoro di Bruno Cartosio (lungo e ben conosciuto ai lettori di Doppiozero) indaga, con due premesse. La prima è la visione storica: “La repubblica statunitense non è nata democratica e la sua storia non è stata una progressione lineare verso il migliore dei mondi possibili”. La seconda è evidente sin nel titolo, e sta nell’intreccio tra la dimensione politica e quella economica; in sostanza, nella tendenza del sistema statunitense verso una plutocrazia, o – termine coniato dentro l’ufficio studi di una banca di investimento, Citigroup – una “plutonomia”: la legge dei ricchi.

 

Da Jefferson a Trump

 

Il racconto americano di Cartosio parte dalla fine, dall’elezione di Trump. Ne indaga e narra la campagna elettorale, le ragioni della sua vittoria nascoste negli apparenti punti di debolezza (nelle sue “deficienze” che sono diventate armi formidabili, come quella sintetizzata nella frase “io amo gli ignoranti”), il contributo del nuovo mondo dei media e dell’informazione (anche questo viene al pettine in questi giorni, con le opposte reazioni di Twitter e Facebook alle bugie presidenziali), ma soprattutto il suo retroterra storico: perché “il tronco stesso della democrazia su cui si è innestato il successo di Trump era fiaccato da prima della sua entrata in scena”. Le risposte a domande come: “Donald Trump è fascista?” – che suona provocatoria solo nel banalizzante dibattito italiano, mentre è stata profondamente discussa in quello nordamericano – e agli interrogativi sulla persistenza del razzismo non sono possibili senza andare alle radici della formazione della Repubblica e della democrazia americana. Percorso che Bruno Cartosio compie nel libro, offrendo strumenti che sono nella letteratura sulle istituzioni americane, sui meccanismi elettorali, sulle lotte civili e sociali, sulle dinamiche economiche e del lavoro.

 

Alle radici, c’è l’idea jeffersoniana e repubblicana “dell’eguaglianza di tutti e privilegio di nessuno” e la fondamentale cesura tra l’idea astratta e la realtà: “Nella società agraria di allora, per lo stesso Jefferson e per gli altri Padri fondatori l’espressione We the people… con cui si apre la Costituzione voleva dire: noi maschi bianchi possidenti”. Ma già allora l’esclusività del privilegio, affermata proprio nel principio che lo negava, era contestata, sia dalle donne che dai non-bianchi e non-possidenti: la storia sintetizzata nel saggio è una storia dei conflitti che hanno fatto esplodere queste contraddizioni, alternando passi avanti e marce indietro, in una tensione continua e non sempre, ma per lungo tempo, progressiva. Cartosio rintraccia la fine di questa tensione progressiva negli anni ’70 del secolo scorso, con la sconfitta del movimento organizzato dei lavoratori, e ne affida l’epitaffio alla celebre frase del miliardario Warren Buffett: “Certo che c’è la guerra di classe, ma è la mia classe, la classe dei ricchi che la sta facendo e la stiamo vincendo”. Ma a dispetto della forza di questa affermazione, che l’autore pone in premessa al libro, non ne emerge un giudizio, né un’atmosfera, da “fine della storia”, ma un’attenzione costante e documentata a tutte le reazioni e – per usare una parola buona in questi tempi – agli anticorpi che la malattia genera. Come dimostrano i movimenti seguiti all’elezione di Trump, partiti da quello delle donne, e anche le proteste di oggi. 

 

 

È la disuguaglianza, stupido

 

Se il francese Thomas Piketty è diventato il più famoso studioso delle diseguaglianze al mondo lo si deve al suo successo di vendite negli Stati Uniti, ancor più che al monumentale database messo su – con altri economisti – sui numeri dei divari economici nel mondo. Se il tema delle diseguaglianze è entrato in tutti i consessi anche mainstream, fino alle nevi di Davos, lo si deve al fatto che c’è, come mostrano quegli stessi dati e l’evidenza della cronaca, e minaccia non solo la tenuta sociale ma anche quella economica. Eppure, continua a essere considerato a sé, come “un problema”, non come la guida di una linea politica (al pari dello slogan “It’s the economy, stupid”, dello stratega elettorale del primo Clinton), né come la condizione che spiega e aiuta a interpretare quel che ci succede intorno. Un esempio è proprio la crisi da Covid 19. Nel secondo dei due capitoli che il libro di Cartosio dedica alle disuguaglianze, c’è una frase tratta da La salute disuguale, nella quale l’epidemiologo Michael Marmot percorre la metropolitana dal centro di Washington ai sobborghi residenziali ricchi, quantificando l’aumento dell’aspettativa di vita che si conquista a ogni stazione: “un divario di vent’anni tra i due estremi del viaggio”. A Chicago hanno fatto un esperimento simile: “Nella prevalentemente bianca Streetville, gli abitanti possono aspettarsi di vivere fino a 90 anni. A Englewood, dove la popolazione è praticamente tutta nera, l’aspettativa di vita è di 60 anni”. Alla luce di tutto ciò, ci si può meravigliare della “disparità razziale” del Covid 19? 

 

L’occhio cade, dati i tempi, su questi numeri. Ma ce ne sono altri per ogni aspetto della disuguaglianza: reddito, patrimonio, abitazioni, scuola, università. La lettura del libro offre dati, spiegazioni, narrazioni focalizzate sui drammi delle città del disagio e sulle illusioni di quelle “creative”. E connette direttamente – torniamo a Trump, all’inizio del discorso – la disuguaglianza e la crisi politica. Lo fa articolando la semplice constatazione di Stiglitz: “la disuguaglianza economica determina una disuguaglianza politica”. E andando più indietro, con la citazione del giudice della Corte suprema negli anni ‘20 e ‘30 Louis Brandeis: “Dobbiamo scegliere. Possiamo avere la democrazia o possiamo avere la ricchezza concentrata nelle mani di pochi; ma non possiamo avere entrambe”. Non a caso Brandeis dà il nome – neo-brandeisian – al movimento culturale e scientifico che chiede un’azione radicale contro le concentrazioni di potere sul mercato, una sorta di “ritorno alle origini” dell’antitrust americano per combattere la nuova era dei monopoli. Non è solo questione di influenza del potere economico sulle decisioni politiche, o di presenza di ricchi in parlamento (anche se fa una certa impressione il dato, citato da Cartosio, per cui per la prima volta nella storia la maggioranza dei membri del Congresso sono milionari). Il punto è l’ininfluenza della politica, nel momento in cui tutto è già deciso altrove. Una questione che ovviamente non riguarda solo gli Stati Uniti e non mette alla prova solo quella democrazia, che ha “affidato” il suo disagio proprio a un esponente della plutocrazia. Ennesima e forse primaria contraddizione, nella quale la lettura di Dollari e no ci guida.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO