Emigrare oggi: la fuga dei cervelli tra mito e realtà

31 Ottobre 2014

Nel 2013 hanno lasciato il nostro paese 94.126 cittadini italiani, il 16,1% in più rispetto all’anno precedente. La maggioranza dei questi emigranti aveva un’età compresa tra i 18 e i 49 anni, ossia era in età produttiva e, quindi, alla ricerca di un lavoro. Il Rapporto Italiani nel Mondo (RIM) del 2014 traccia un quadro del fenomeno di grande interesse soprattutto per chi voglia capire l’emigrazione come forma della crisi del nostro presente: e ciò appare con tutta evidenza se si tiene conto che da alcuni decenni gli espatri non superavano mediamente quota 40.000. Per trovare valori analoghi a quelli odierni occorre cercare tra le serie statistiche degli anni Settanta.

 

Se le mete principali dei nostri connazionali sono oggi il Regno Unito, la Germania, la Svizzera e la Francia, le partenze interessano sempre più le aree centro-settentrionali. Infatti, sebbene le regioni del Sud continuino a fornire il maggior numero di emigranti, nel 2013 i più consistenti incrementi percentuali degli iscritti all’Albo degli Italiani Residenti all’Estero si sono visti in Lombardia (6,1%), Piemonte (5,3%), Emilia Romagna (5,1%) e Toscana (4,8%). Ciò non significa necessariamente che emigrino i settentrionali: una parte di questi espatri riguarda emigranti meridionali che si erano trasferiti negli anni scorsi al Nord e che ora, in tempo di crisi, cercano in una nuova emigrazione la via d’uscita ai loro problemi.

 

Tuttavia, non stupisce che gran parte dei migranti parta dal Settentrione se si pensa che la tendenza a emigrare riguarda soprattutto chi proviene da famiglie agiate e chi risiede in grandi centri urbani, come Milano e Roma. Anche questo è del resto un dato frequentemente riscontrato dagli storici delle migrazioni: in contrasto con le rappresentazioni dell’emigrante con la valigia di cartone, chi parte dispone rispetto a chi resta di un numero maggiore di risorse famigliari per affrontare una partenza, un viaggio e un periodo di protratta incertezza. E, sempre in continuità con quanto già accaduto in passato, chi lascia il paese è spesso dotato di qualifiche e di un livello di formazione professionale più alto della media: il reclutamento di lavoratori specializzati all’estero, per esempio, avveniva negli Stati Uniti di fine Settecento, come nella Svizzera degli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento. Non è quindi una novità.

 

Dall’Italia di oggi, però, sembrerebbero partire sempre più scienziati, ricercatori, dottorati, in quella che viene sovente descritta come “fuga dei cervelli”. Merito del RIM di quest’anno è quello di problematizzare tale formula. Da un’analisi compiuta sui contributi scientifici prodotti dai ricercatori italiani tra il 1996 e il 2011 risulterebbe che, a fronte di una loro emigrazione permanente pari al 5,1%, ci sarebbe in Italia un’immigrazione omologa del 4,3%. Se questi dati fotografassero la realtà, il drenaggio di cervelli dal nostro paese sarebbe molto contenuto. Altri autori e altre ricerche sostengono la tesi opposta, ossia che tale drenaggio sia particolarmente intenso. Come chiarisce Maria Carolina Brandi, le differenze dipendono dalle difficoltà che gli studiosi incontrano nell’individuare indicatori affidabili per indagare il fenomeno. Certo è che l’emigrazione dei dottorati italiani è consistente, soprattutto in alcune discipline, come le scienze fisiche: e si parte perché non si trovano centri di ricerca e imprese interessate a lavoratori con le proprie qualifiche.

 

Il nostro sistema universitario, insomma, sembrerebbe produrre più persone con alta qualificazione di quante il sistema economico, i centri di ricerca e, in particolare, le imprese, siano in grado di assorbire (la gran parte dei nostri dottorati all’estero trova lavoro nelle aziende, non nella ricerca). Si tratta del fenomeno descritto da alcuni studiosi attraverso il concetto di overeducation: un eccesso di formazione rispetto a quanto il mercato nazionale possa assorbire. Secondo alcuni analisti questo fenomeno segnalerebbe anche un eccessivo desiderio di miglioramento della propria posizione sociale da parte di chi si dottora. In questo senso sarebbe però interessante domandarsi fino a che punto possa considerarsi eccessivo un desidero di apprendimento e di qualifica, al di là degli esiti professionali immediati.

 

Deve essere considerato come limite o come un merito dello Stato italiano quello di garantire un’alta formazione a un numero di cittadini superiore a quello che il suo sistema produttivo è in grado di assorbire? Un sistema educativo deve necessariamente rispondere alle esigenze di breve periodo del suo sistema economico? Costerebbe di meno? Al di là di altre considerazioni, siamo certi che una scelta del genere renderebbe di più nel medio lungo periodo?

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