Giù la maschera cheFare!

28 Marzo 2014

Si sta concludendo la seconda edizione di cheFare e tra pochi giorni si saprà chi vincerà il premio. Non è quindi fuori luogo, dopo questa esperienza e quella dello scorso anno, fermarci a riflettere su quanto stiamo facendo, cercando di capire se sta producendo i risultati sperati e, più prosaicamente, chiederci che senso ha tutto questo.

Perché montare una struttura per un bando rivolto a progetti culturali di innovazione sociale non è una scelta facile o scontata. Diciamolo chiaramente, non ce lo fa fare nessuno! Se non la voglia di buttarci nella mischia e dare un nostro contributo per uscire dalle secche in cui si trova la cultura in questo paese. Un desiderio che nasce dopo molti anni passati in prima linea nell'industria culturale, avendone saggiato, per così dire, vizi e virtù e volendo fare quanto possibile per cambiare, e possibilmente migliorare, la situazione in atto.

 

La prima cosa di cui ci siamo resi conto è stata che dovevamo mettere tra parentesi tutta una serie di istanze politiche e sociali che fanno parte dei nostri trascorsi personali se volevamo davvero creare qualcosa che potesse funzionare come una piattaforma di servizi aperta a tutti. Quindi ci siamo guardati intorno, abbiamo cercato quanti e chi si stava muovendo nella stessa direzione e ci siamo posti delle domande che ci permettessero di orientarci. Come, per esempio: questo sfacelo è congiunturale? È strutturale o episodico? Come uscirne? Ci siamo così resi conto che avremmo dovuto ribaltare il nostro solito modo di pensare per essere il più vicino possibile alle vere dinamiche economiche legate al mondo della cultura, riscoprire e reinterpretare un certo pragmatismo, identificare i punti deboli dei tradizionali modelli organizzativi, guardarci intorno per cercare di capire se e fino a che punto era – ed è – possibile replicare anche in questo contesto le pratiche in essere negli ambienti dell'innovazione sociale, dell'economia della condivisione, dell'open source e del free software. Per questi motivi, da subito, ci è parso più interessante dare risalto non tanto ai soggetti e alla loro storia (elementi molto importanti in sede di valutazione) quanto alle progettualità, ai metodi, al “come”.

 

Di conseguenza abbiamo adottato una strategia di apertura e inclusione, per togliere i paletti che solitamente limitano l'accesso alla partecipazione dei bandi istituzionali, e abbiamo costruito un sistema di selezione articolato che ci permettesse di individuare il progetto da premiare attraverso fasi distinte. Una complessità che rispecchia gli elementi che i progetti devono presentare per rispondere ai bisogni della contemporaneità.

Con lo stesso spirito abbiamo individuato gli strumenti necessari per creare il bando che avevamo in testa, e questo ci ha immediatamente posto la necessità di trovare dei compagni di viaggio abili e visionari come noi che avessero quelle competenze che ci mancavano: così si è creata la rete dei partner e per questo motivo sul nostro sito si legge che il bando è “co-prodotto”.

 

E quindi? Ce l'abbiamo fatta? CheFare è uno strumento che riesce a identificare i punti critici per risolvere i problemi legati al finanziamento della cultura? Il riscontro che abbiamo avuto in queste prime due edizioni ci fa pensare in una risposta affermativa ma la strada da percorrere è ancora lunga, c'è molto lavoro da fare. Sicuramente una competizione di questo tipo può svolgere un'attività formativa e indicare una direzione ma se ci limitassimo a questo non potremmo dirci soddisfatti. L'aspetto più interessante è legato invece al cooperare, al fare rete, allo sviluppo di interazioni e collaborazioni che si sviluppano tra i partecipanti e al mutuo scambio di pratiche e idee valide, in modo analogo a quanto può avvenire in un laboratorio o in un co-working. Se il nostro obiettivo fosse stato organizzare un concorso come mille altri, basato su una selezione e un giudizio calato dall'alto, ci saremmo risparmiati tempo e fatica. In qualche modo invece, e grazie all'impegno di molte persone che hanno creduto in noi, abbiamo dato vita a qualcosa di particolare; per sperimentare formule diverse, per dare spazio alla creatività, alla ricerca, all'inventiva. La competizione non è tutto, non è il fine, è un mezzo come altri e ci siamo abituati a pensare che i mezzi e i fini vadano insieme.

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