Dall’epifania del divino alla favola mediatica / Verso il post-simbolico

12 Dicembre 2017

Che cosa accade al simbolico nelle attuali società ipermoderne? Questa dimensione fondante delle civiltà umane tende a sparire o comunque a indebolirsi in un mondo sociale che si presenta come sempre più dominato dalle narrazioni e dalle rappresentazioni mediatiche? Il filosofo Fulvio Carmagnola ha tentato di dare una risposta a questa rilevante questione con il denso volume Il mito profanato. Dall’epifania del divino alla favola mediatica (Meltemi). Entrando in profondità all’interno delle analisi sviluppate dai più importanti studiosi dell’area antropologica, è arrivato in sintesi a sostenere che oggi è in atto un progressivo indebolimento del simbolico, al punto che si può parlare dell’ingresso delle società odierne in una condizione «post-simbolica».

 

Vale a dire che il simbolico, cioè una particolare dimensione della società che facendo uso del mito, della magia e dell’irrazionale tende a produrre una separazione tra la cultura umana e la natura, sembra perdere la sua sfida rispetto all’enorme potere di fascinazione posseduto oggi dall’immaginario mediatico. Ne consegue che il mito vede progressivamente dissolversi quei legami con la dimensione del sacro che lo caratterizzavano e si trasforma in materia liberamente plasmabile, pronta per essere ridotta in favola e fiction. Cioè, se il mito può essere considerato una forma di racconto che è stata storicamente essenziale per la creazione della vita comunitaria all’interno della società, noi «nel presente, possiamo forse ancora accedere al mito, ma (solo) nella forma di una ripetizione del racconto» (p. 78). 

Riprendendo una tesi sostenuta in precedenza da Giorgio Agamben nel volume Profanazioni (Nottetempo), Carmagnola ritiene che il mito sia stato «profanato», cioè riportato dalla sfera del sacro allo spazio dell’uso comune, ed è proprio tale processo di profanazione che consente al sistema capitalistico di recuperarlo e di integrarlo al suo interno attraverso l’esibizione spettacolare. Insomma, come ha affermato lo stesso Carmagnola, oggi «La macchina mitologica è anche una parte della potente macchina economica» (p. 249).

 

Non è un caso che la dimensione estetica, la quale aveva trovato nel corso del Settecento uno spazio autonomo all’interno della società contrapponendosi frontalmente all’economia, oggi tenda sempre più a indebolirsi, perché va progressivamente a confondersi con l’economia stessa. Questa infatti, nel momento in cui propone le sue merci, più che come strumenti d’uso, su un piano puramente spettacolare e mediatico, si propone anch’essa come linguaggio estetico. Ciò è valido in particolare per tutte quelle che Pierre Bourdieu ha chiamato le «merci simboliche», ma è valido anche per l’intero universo contemporaneo del consumo. 

Carmagnola ha ripreso da Agamben anche l’esempio di profanazione contemporanea del simbolico che tale autore ha proposto e cioè quello della pornografia. Questa infatti è in grado di disinnescare la forza profanatoria dell’erotismo, la capacità cioè di quest’ultimo di allontanare e dunque anche di “profanare” i comportamenti erotici rispetto a un fine immediato, e di consentire perciò al sistema mediatico e consumistico di catturarli per i suoi scopi commerciali.

 

La tesi sostenuta da Carmagnola non è nuova. D’altronde, lo stesso Carmagnola mostra che già Roland Barthes aveva affrontato in Miti d’oggi (Einaudi) il processo di attualizzazione che riguarda la funzione sociale delle costruzioni mitologiche arrivando alla conclusione che il mito odierno si è trasformato in una «parola». Tale trasformazione però necessariamente impoverisce la forza simbolica tradizionalmente posseduta dal mito. E, ben prima di Barthes, Claude Lévi-Strauss e altri studiosi strutturalisti avevano pesantemente indebolito la forza sociale del simbolo, considerando quest’ultimo nient’altro che una forma di linguaggio. Mentre autori come Karoly Kerényi e Mircea Eliade hanno parlato da tempo di «pseudomiti» per indicare i miti contemporanei, che non sono andati progressivamente maturando nel corso del tempo come i miti tradizionali, ma vengono fabbricati nella società per il perseguimento di specifici obiettivi. Carmagnola ha il merito di legare con precisione la trasformazione dei miti agli intensi processi di cambiamento che riguardano la cultura di massa e il nuovo ambiente di vita che è stato creato dai media contemporanei.

 

 

Non a caso, come sottolinea Carmagnola, film come quelli della saga di Guerre stellari concepita e diretta da George Lucas mettono in scena la relazione degli esseri umani con le forze primordiali della vita. Gli sceneggiatori di Hollywood sono cioè pienamente consapevoli della possibilità che hanno di sfruttare la grande importanza della dimensione mitologica nelle società contemporanee. 

Carmagnola si è posto anche il problema di cosa sia possibile fare di fronte all’enorme potere posseduto dalle mitologie contemporanee. Sembra escludere quella strada della critica che è stata già percorsa da Barthes, perché questa corre il rischio di sacralizzare lo stesso mito che mette sotto la sua lente. Allo stesso modo, anche la pratica della “rimediazione”, che trova un  esempio calzante nella strategia basata sulla creazione di cover, consente una sorta di “rifondazione” del mito attraverso la ripetizione. Nello stesso tempo, cioè, rinnega il mito e lo riproduce.

 

Restano, secondo Carmagnola, altre due possibili strade: la “resistenza” e il “gioco”. Nel primo caso, ci si dovrebbe affidare alle pratiche creative dell’arte, ma questa oggi appare essere totalmente governata dalla macchina economica. Non rimane allora che riprendere delle suggestioni direttamente provenienti da Walter Benjamin e praticare una strategia di tipo ludico. Forse l’unica che può consentire di allontanarsi dal simbolico, perché «Il gioco dis-opera la macchina, rende inoperante la finalizzazione del mezzo puro al consumo. Eppure fa anche altro: rende disponibile il dispositivo a un diverso uso» (p. 263). 

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