Quando il nero si vede bianco

13 Aprile 2011

 

Tra i privilegi di chi svolge un’attività fuori dall’orario di ufficio vi è quello di poter viaggiare sui mezzi pubblici stando comodamente seduto, senza essere stipato come una sardina. Di questo privilegio anche il nostro sguardo ne trae giovamento, perché può spaziare liberamente all’interno della vettura e posarsi su ciò che al momento meriti attenzione. Qualche giorno fa, durante la traversata della città in tram, il mio sguardo vagante venne attratto da una coppia di indumenti identici, indossati da un ragazzo e da un uomo adulto, il cui tono colloquiale lasciava supporre fossero padre e figlio. Si trattava di due giubbotti di cotone cerato, molto di moda quest’anno, ai quali, in pendant avevano accostato entrambi un paio di scarpe anch’esse di vernice nera lucida. Per chi vive nelle grandi metropoli, sono sempre più frequenti le occasioni per registrare quanto la moda plasmi e modifichi non solo il comportamento degli adolescenti ma anche degli adulti, al punto da non riuscire più a distinguere, in molteplici circostanze, gli uni dagli altri. Ma in verità il mio sguardo non era interessato al fatto che i due capi di abbigliamento fossero due novità alla moda che hanno avuto un discreto successo commerciale. Il motivo per cui li osservai con particolare attenzione visiva non era assolutamente collegato al desiderio di cogliere l’occasione per esercitare una critica dei costumi, né era sollecitato dal tentativo di trovare una qualche spiegazione al perché i prodotti della moda esercitino una così evidente capacità di condizionamento dei comportamenti e un così forte potere di modellizzazione delle coscienze, bensì dal fatto che questi indumenti presentavano una particolare colorazione. Il nostro modo abituale di guardare ciò che ci circonda non è intenzionato, né motivato a rilevare quanto di inconsueto si presenta sotto i nostri occhi, o a verificare se quanto diciamo di vedere corrisponda a quanto di fatto ci appaia. Il nostro sguardo è stato progettato dall’evoluzione per darci sempre una risposta chiara e definitiva di tutto quanto gli capiti di incontrare: l’occhio vede sempre qualcosa ovunque guardi e difficilmente si sofferma sugli aspetti delle cose che non sono immediatamente riconoscibili.

Fin dal primo colpo d’occhio, e in tutta la loro piena ed immediata evidenza, i due giubbotti e le scarpe annesse ostentano il loro nero lucido, e la sensazione trova conferma nel fatto che non si paventa alcun’altra possibilità tale da indurci a dubitare o a sospettare che possano essere colorati di una tinta differente. Nonostante ciò il mio occhio sente di dover osservare con maggiore attenzione il singolare modo di apparenza di questo colore, avverte che su quel tessuto si manifesta un fenomeno percettivo particolarmente interessante e singolare, noto agli studiosi della percezione visiva come fenomeno della costanza cromatica. In breve, i due giubbotti e le scarpe di vernice sono decisamente colorati di nero, ma il loro modo di riflettere la luce che li illumina manifesta sulla maggior parte della loro superficie una ricchissima gamma di toni grigi, che la chiazzano letteralmente qua e là con striature di grigio chiaro alternate ad altre di grigio molto più scuro, e, inaspettatamente, incastonati al loro interno, anche molti punti di riflessi luccicanti la cui apparenza è incontrovertibilmente di un puro bianco splendente. Se il nostro occhio si limitasse ad un puntuale rilievo del puro dato fenomenico, di ciò che di fatto appare, dovremmo constatare che le chiazze di bianco e grigio incidono otticamente la superficie dei capi al punto da farla apparire come se fosse ammaccata, solcata e striata, dovremmo cioè convenire di trovarci davanti ad un capo di abbigliamento difettato nella verniciatura. Inoltre, se focalizzassimo la nostra attenzione visiva al rilevamento di quanta parte della superficie che diciamo di vedere colorata di un nero monocromo ed omogeneo ci appaia effettivamente nera, scopriremmo con stupore quanto questa sia minima, mentre la restante maggior parte, se osservata attraverso un filtro riduttore del campo visivo (attraverso una piccola aperture praticata in un foglio di carta bianco o grigio chiaro), ci rivela di essere colorata prevalentemente di grigio e di bianco. Eppure nonostante l’incontrovertibile oggettività fenomenica, nonostante quest’evidente discontinuità di chiarezza, nessuno è disposto a prendere questi dati, questi fatti percettivi, come attendibili, e contro ogni evidenza, continuerà a sostenere di vedere un indumento completamente colorato di nero. Ma il nero che asseriamo di vedere è un dato pienamente fenomenico oppure è in gran parte un fatto mnemonico, un dato cioè mentale? Vediamo ciò che abbiamo davanti agli occhi oppure ciò che sappiamo di quel che appare davanti a noi? Dove finisce l’uno e dove comincia l’altro? La costanza di colore è un fenomeno ottico o mentale? Attiene a ciò che appare o a ciò che si conosce?

Proviamo a dare una spiegazione del fenomeno in termini fisici: la vernice sovrapposta al colorante essendo composta da un materiale trasparente e lucido allo stesso tempo si comporta in due differenti modi rispetto alla luce incidente: per la parte che ci appare grigia lascia passare i raggi della luce incidente e nelle parti in cui si formano i riflessi bianchi la luce incidente viene riflessa con un angolo di circa 42° rispetto al nostro asse visivo, diversamente nelle parti in cui appare colorata di nero, il colorante sottostante alla pellicola trasparente assorbe quasi tutta la luce rifratta dalla vernice sovrapposta. Abbiamo quindi che una superficie colorata di nero lucido presenta una ricca fenomenologia dei modi di interazione della luce con la materia, che si alternano e si combinano nei diversi punti del tessuto dando luogo a fluidi e imprevedibili fenomeni ottici generati da complesse interazioni di altri fattori. I materiali colorati di nero lucido costringono la luce incidente ad essere sia riflessa, sia rifratta, sia assorbita nello stesso punto e nello stesso momento. Ovvero, determinano, una situazione ottica evidentemente molto complessa in termini fisici e particolarmente incongruente in termini visivi. Per fortuna il nostro modo di vedere quotidiano, progettato dalle necessità adattive, è in grado di fornire sempre una risposta pronta, efficace ed affidabile, anche se per far ciò impone al nostro occhio di guardare ciò che ha davanti come se conoscesse già quello che vede. Questo modo di vedere concepito per processare con velocità ed economia visiva tutto quanto rientri nel campo visivo, emancipa l’occhio dall’obbligo di dover focalizzare analiticamente ogni singolo dettaglio; lo porta a privilegiare e selezionare soltanto gli aspetti e le proprietà di senso stabile e definito, e lo autorizza a tralasciare e perfino ignorare tanti altri fenomeni, tante altre proprietà che renderebbero molto più lento e dispendioso il processo del riconoscimento delle cose. In breve è come se il prezzo che l’occhio deve pagare per vedere in modo rispondente alle nostre esigenze quotidiane fosse quello di dover essere cieco ad una gran parte di altri aspetti pur presenti nel suo campo visivo. Provate ad immaginare quale lavoro immane si troverebbe a svolgere l’occhio se dovesse perlustrare e discriminare tutte le diversità di forma, dimensione, colore, chiarezza, posizione e orientamento di ciascun singolo riflesso o penombra di quelli che in numero imprecisabile si formano tra le innumerevoli pieghe del giubbotto e che ad ogni minima variazione dell’intensità del flusso luminoso illuminante, della sua direzione, dell’orientamento del corpo illuminato, della distanza di osservazione muterebbero incessantemente per gran parte il loro aspetto visivo. La loro discriminazione richiederebbe una velocità di processione visiva assolutamente fuori dalla portata dei processi fisiologici di trasduzione degli stimoli fisici in segnali fisiochimici, sortendo come unico effetto di annientare l’occhio, annichilendo ogni sua possibile elaborazione visiva del mondo osservato. Paradossalmente tanto più l’occhio è in grado di vedere bene quanto più è capace di selezionare ciò che c’è da vedere, isolandolo da ciò che deve rimanere nello sfondo del non-visto, la cui funzione, seppure in negativo, non è da trascurare, dato che costituisce la condizione senza la quale ciascuna singola cosa non avrebbe modo di emergere in tutta la sua chiara e distinta visibilità, ma si troverebbe confusa assieme a tutte le altre in un indistinto caos di sensazioni visive, che affastellandosi le une alle altre e susseguendosi in un incessante flusso renderebbero il mondo che ci circonda del tutto indiscernibile. Il comportamento visivo dell’occhio dovrebbe essere preso a modello anche dal nostro comportamento sociale e culturale, perché ci insegna che occorre sempre saper distinguere il fugace dal duraturo, l’effimero dal consolidato, l’apparenza momentanea da ciò che, seppure non immediatamente visibile, possiede una sua ben più importante realtà e consistenza. Oggi più che mai occorrerebbe tenere in debito conto l’insegnamento dell’occhio, di quell’organo che, pur facendosi carico di alimentare per il novanta per cento la memoria e la cultura dell’uomo, fin dall’antichità è stato considerato da tanti filosofi come la vittima dei soggiogamenti delle apparenze, limitato al rilevamento di “qualità secondarie” e quindi responsabile di fornire informazioni ingannevoli all’intelletto, il quale, a differenza dell’occhio, è il solo ad avere il compito di saper discernere e valutare con precisione ciò che è vero, buono, bello e meritevole di attenzione. Considerata l’epoca in cui viviamo forse sarebbe il caso di affidare questo compito più al nostro occhio, che, in virtù del suo sapiente modo di agire, si rivela essere l’organo più adatto a svolgere tale funzione. Non a caso per gli antichi Greci conosce, oida , soltanto chi ha visto.

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