Michele Mari, l’idiosincratico

28 Febbraio 2012

Abbiamo lasciato Michele Mari con un testo a più voci sui Pink Floyd, prima con una raccolta di poesia; ora ecco dei racconti (Fantasmagonia, Einaidi 2012) a dimostrazione di un’assoluta libertà creativa nel vasto mare della letteratura italiana dove da qualche tempo si osservano viceversa grossi banchi di scrittori in movimento. Lo spazio del visibile è stato via via occupato dallo splatter e dal noir, dalla storia nazionale romanzata e dall’autofiction; movimenti spontanei che rispondono allo spirito dei tempi o imitazione istantanea di potenti modelli da parte di epigoni, oppure ancora gonfiori dovuti ad impulsi meramente editoriali. A fronte di tali addensamenti sull’asse dei generi e della maniere, ci piace contrapporre l’idea dello scrittore idiosincratico.

 

Idiosincrasia significa intolleranza organica per cibi o medicinali, ed è proprio l’aspetto corporale che va sottolineato perché il più immediato, irriflesso e non costruito. Una reazione incoercibile a ciò che ci circonda, scatti eminentemente soggettivi, cosicché quanto vi è di più strutturale sembra nascere come carapace o perla da un’irritazione che tocca in profondità. Se è vero che, come sostiene Sartre, l’intellettuale non può lasciare in pace il mondo, sembra essere quest’ultimo a stuzzicare la reazione dello scrittore idiosincratico proprio a partire dall’udito, l’unico dei cinque sensi privo di difese naturali.

Mari è stato spesso definito un manierista capace di appropriarsi in modo originale delle forme della tradizione, dalle macrostrutture e dai generi ai molti elementi lessicali o fraseologici provenienti soprattutto dalla lingua antica. Una particolare sensibilità alla lingua che contempla anche il fastidio per l’approssimazione, la storpiatura o semplicemente quanto contrasta col proprio gusto: “la minaccia del gavettone è la più ricorrente, l’odiosa formula essendo: - Stai bagnato -, cioè (in italiano meno barbaro) ritieniti già bagnato, sappi che questa notte verrai inevitabilmente bagnato, docciato, inzuppato” (Filologia dell’anfibio, Laterza 2009).

 

Dalla degenerazione quotidiana o settoriale consegue un generale svuotamento a cui contrapporre l’utopia retrodatata del rapporto necessario tra parola e cosa: “Parole, parole, vuotissime parole che non significano nulla. Potessi averne di piene, che corrispondano ai fatti e ne serbino gli spigoli acuti, la pesantezza, la grana”(ivi). Si transita allora naturalmente a una precisa predilezione in campo letterario che non va presa solo dal lato estetico: Mari elenca una serie di parole perdenti e uscite dall’uso per la cui reimmissione “non ci sarà nulla di arcaico o di libresco o di ermetico (come se si trattasse poi di difetti), ma ci sarà solo la precisione”. Ecco che i modelli nello scrittore idiosincratico, sempre nevrile e combattivo, sono inscindibili da quelli negativi che gli ripugnano, il giudizio di gusto, bizzoso e sferzante, rivolto ai colleghi, è suo tratto distintivo. Può esserci un’affinità, o una contrarietà, di poetica o di stile, a farlo scattare, o anche un atteggiamento proprio alla personalità dell’autore: “nella lingua di uno scrittore come Manganelli (o Landolfi) non so fare a meno di sentire una fortissima componente etica che non trovo invece, ad esempio, in Manzoni (l’uso! l’uso “vivo”! l’uso “medio”! l’uso razionale perché reale, cioè semplicemente perché vincitore, che è invece la logica di Giulio Cesare e di Pizzarro” (I demoni e la pasta sfoglia, Cavallo di ferro 2010).

 

L’autore idiosincratico è dunque naturalmente soggettivo e autobiografico, combattente e anche razionale e moralista. Il suo tendere a un’armonia, che comprende di necessità la giustizia, entra in rotta di collisione con l’esterno. La babele dilagante dei linguaggi, l’approssimazione e le perversioni che invadono anche il suo campo d’azione ne sono le tracce. Ciò che lo circonda si dà essenzialmente come disordine perché, dicendolo al modo del gran lombardo, “non il Gadda è barocco, bensì il mondo”. Di qui una battaglia, inevitabilmente perdente negli esiti, col mondo di cui non si capiscono né accettano i meccanismi. Capostipite moderno di questa genia tragicomica è di certo Don Chisciotte, Don Gonzalo ne è un lontano discendente e anche in Mari si registra il tic di chi cerca di razionalizzare lo spazio attorno a sé e di dominare parallelamente il tempo; ecco dunque il protagonista di Filologia dell’anfibio che, in attesa del servizio militare, scandisce il prima da conservare e si prepara per il dopo: “Ogni mio gesto significava chiusura, archiviazione, congedo: ordinai i diletti quaderni di appunti e li disposi come poi restaron per anni; selezionai, tipologicamente aggruppai ed acconciamente allogai materiali di ogni tipo; spolverai e ricopersi tutti gli scaffali di libri con velari formati da giornali incollati insieme. […] la mia agenda si riempì di lunghissimi elenchi di quanto mi sarebbe stato bagaglio”.

 

Il mondo sconfigge però in partenza l’ansioso e meticoloso personaggio idiosincratico per il quale il catalogo è la figura elettiva sia del disordine disperante, sia dell’impulso alla sistemazione universale. L’ordine è segno della vocazione razionalista, ma pure di quella alla giustizia, perché nelle cose umane ci dovrebbe essere il posto esatto per ciascuno e, dato che non è quasi mai così, nasce la ribellione idiosincratica. In Rondini sul filo (Mondadori 1999) il protagonista fruga nel passato dell’amante per conoscere volto, carattere, fatti dei suoi precedenti amori secondo una paradossale prospettiva tassonomica: “Wolmer! il fidanzato ufficiale… regolare… la domenica invitato dai genitori di lei a mangiare il pollo arrosto, portava le pastarelle… poi si chiudevano in camera, parlavano di libri… uno colto, studioso, futuro architetto… il migliore del mazzo, al postutto… gentile, preciso, un mezzo tedesco… rigoroso, tranquillo… tutti i requisiti per piacermi, lo approvo, sì… finalmente uno coi titoli… il mio sistema è fondato sulla meritocrazia, mica si procede a caso noi, abbiamo del metodo…”. Se la sconfitta è il destino di scrittori e personaggi idiosincratici, la tentazione del passato diventa forte e si collega ai tratti del moralismo e della satira. Quanto a Mari la riflessione sul passato è particolarmente complessa e attraversa tutta la sua opera; meriterebbe quindi ben altro spazio, ma qui ci si può concentrare sul rapporto tra il passato e la vocazione letteraria. In Euridice aveva un cane (Einaudi 2004) Michele, per difendersi dai Baldi, portatori di un’aggressiva modernità, si rinchiude nella biblioteca di casa. In Filologia dell’anfibio il riferimento alla letteratura viene irriso come qualcosa di superato e incomprensibile: “- Ah, Palazzeschi. Quello della Fontana malata… cik ciak… la fontana che è stanca… si è stancata la fontana e anche Palazzeschi ha stancato… - Io non replicai, allibito a tanta irriverenza: me ne ricordai dolorosamente quando Palazzeschi morì, nell’estate del ’74, e mi rammaricai di non averlo difeso in quell’occasione, sembrandomi di averlo in qualche modo tradito”. Menzio, simbolo della concretezza più terragna che vuole impadronirsi della nave, dice sprezzantemente del superiore che “lui pensa che non me ne accorgo, ma io lo so che perde tempo con l’antico” (La stiva e l’abisso, Einaudi 2002).

 

Perfino nelle raccolte critiche il Mari filologo ed erudito, che fatalmente si deve confrontare con autori da grande pubblico, mostra simpatia per l’Ottocento e i generi legati a letture infantili o adolescenziali. Così i fumetti e le copertine di Urania sono i mattoncini dell’infinito Lego di una babelica torre di letture. Oppure si solidarizza con un personaggio come Dracula: “ci è simpatico perché, come Alien, è solo, e perché, malinconico esteta, difendendo se stesso difende il passato”. Insomma l’autoironia non viene mai risparmiata per relativizzare la passione passatista e letteraria, ma certo essa comporta, nascosta dal pudore e dagli sfregi rivolti all’idolo decaduto, un lato di sconfitta e di solitudine propria agli idiosincratici: “Ci sono persone per le quali il passato è la sola dimensione reale. Per queste persone vivere significa essenzialmente aggiornare il proprio passato; di tale aggiornamento esse hanno coscienza discontinua, apparendo loro talvolta come conservazione, talvolta invece come perdita. È in simili momenti di lutto che queste persone, inorridite dal dilapidante cangiare della vita, chiedono soccorso alla letteratura. Ma la letteratura è dea intollerante, e gelosa della vita esige da loro il sacrificio che più le ricorda la rivale: va così che quelle persone debbano rinunciare a ciò che più premeva loro, riprodurre la continuità della vita fra il suo accendersi nella nascita e il suo spegnersi nella morte” (Filologia dell’anfibio).

 

Nel racconto Fantasmagonia, che dà titolo alla raccolta testé pubblicata, si ricapitolano i motivi sopraddetti: le offese del mondo a partire dal “memento acustico”, la ricerca e la condanna “della solitudine perfetta”, che diventa pure “inesauribile odio per se stesso”, “un superstizioso terrore conservativo”, passatista ed autoironico, che si fa forza “dell’inventario e della catalogazione”, infine l’essudazione da sé in un’opera paradossalmente antagonistica e morale. Non confondiamo dunque Mari, l’idiosincratico, con un mero manierista o linguaiolo, prendiamolo come i suoi fratelli, a partire dall’Alfieri della Vita, inventore dell’individualità moderna, quale recettore dei mali dell’aria, sintomo quanto mai acuto a cui porgere attenzione. Solo così lo si potrà redimere dall’angolo, facendo risaltare la paradossale pedagogia che nascostamente lo anima.

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