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Case / Ripensare l'abitare

27 Aprile 2020

In queste ultime settimane (ormai siamo entrati nella sesta) si sono moltiplicate sui giornali e nell’infinita giungla dei social, le immagini, le parole, i suoni e le testimonianze provenienti dall’universo domestico in cui più di metà dell’umanità vivente è reclusa.

Si tratta di un fenomeno planetario come mai era avvenuto nella nostra Storia: quattro miliardi di persone, distribuite lungo i cinque continenti, totalmente connesse, chiuse in casa.

È un’esperienza di cui coglieremo la potenza simbolica ed emotiva solo nei prossimi tempi, quando ricominceremo a uscire per strada. Solo allora i risultati di questo trauma individuale e collettivo globale emergeranno, decretando un cambiamento d’uso e percezione dei luoghi che sarà tutto da comprendere, decifrare ed elaborare.

 

Per il momento la casa è una prigione dorata per tutti quelli che dichiarano che stanno benissimo isolati e che non uscirebbero più; un buon ritiro per i fortunati che hanno deciso di rifugiarsi in campagna in attesa che l’epidemia finisca (una memoria nobiliare e contadina evidentemente appena assopita); un denso recinto familiare in cui si sono costruite lentamente complesse relazioni territoriali ed emotive tra i componenti del gruppo; un cerchio magico per quanti sono terrorizzati dal male che si muove nell’aria all’esterno; un problema per chi ha pochi metri quadri e bambini sotto gli otto anni; una sofferenza muta per chi ha dovuto ripartire la casa in altrettanti cubicoli per i familiari ammalati; un incubo per i tanti che vivono in appartamenti piccoli e nessuno spazio vitale a disposizione; un inferno per chi è costretto a vivere con i propri carnefici (non è un caso che le chiamate ai centri sulla violenza domestica siano crollate nell’ultimo mese); una quasi condanna per i troppi anziani destinati dall’insipienza politica a un tragico destino. Poi c’è chi la casa non ce l’ha proprio, e sono tanti, troppi visti i fantasmi che si aggirano per le nostre strade, che non sono deserte ma piuttosto abitate dai senza tetto e da quei migranti che il precedente governo aveva trasformato in esseri invisibili, comodi solo per le statistiche del Ministero degli Interni. 

 

È interessante notare come la maggior parte delle testimonianze di molti scrittori che leggiamo quotidianamente o le migliaia di immagini postate sui social si concentrino soprattutto sulle soglie delle nostre case: finestre, porte, balconi, abbaini, davanzali, terrazzi.

Si tratta della naturale espressione di un desiderio di quello che non possiamo avere, quella città che osserviamo per piccoli frammenti dalle nostre imboccature domestiche e che fa emergere tutti i ricordi che nutrono la nostra identità e la nostra vita. Stando in casa ci accorgiamo di quanto siamo cittadini e dell’importanza che la città, grande o piccola che sia, ha nella nostra vita di tutti i giorni, offrendoci spazi di libertà, scoperta e occasioni che nessuna abitazione potrebbe mai offrirci.

Affacciandoci alla finestra esprimiamo tutto la nostra bramosia di strade, piazze, persone, colori, rumori, fastidi, contatti che da troppo tempo sono sospesi come in un incantesimo. E allora ci scopriamo a guardare nelle vite degli altri attraverso altrettante finestre e balconi, come se fossimo tanti James Stewart con la loro finestra sul cortile (uno dei film più citati, linkati e copiati nell’ultimo mese) e quella macchina fotografica armata di un potente zoom, che diventa il microscopio con cui decifriamo ogni gesto e azione che rubiamo furtivamente al mondo esterno.

 

Opera di Joel Meyerowitz.


Un altro elemento da interno/esterno che ritorna ossessivamente è quello legato alla cucina e alle migliaia di piatti prodotti in cattività. Ci deliziamo di aver imparato a fare il pane in casa pensando quanto si potrà risparmiare negli anni a venire, tiriamo la pasta o facciamo gli gnocchi come la nonna, ci scambiamo furtivamente il lievito madre o le bustine di lievito per dolci che sembrano essersi volatilizzate nei supermercati insieme a uova, farina, zucchero e acqua. Cuciniamo per dimenticare; cuciniamo per la famiglia; cuciniamo per tornare alle memorie d’infanzia; cuciniamo in streaming perché ci piace sentire la voce di chi amiamo e combattiamo la solitudine; cuciniamo perché abbiamo più tempo; cuciniamo per il piacere di sentire il proprio corpo utile; cuciniamo per mangiare e poi lamentarci che stiamo ingrassando, trasformando poi il soggiorno o la camera da letto in uno spazio temporaneo per sessioni di yoga, ginnastica, pilates e boxe.

Mangiamo sognando cene luculliane anche perché il cibo è un’altra di quelle pratiche sociali e di condivisione che ci fa sentire abitanti del mondo e cittadini, anche se momentaneamente reclusi.

La cucina è una piccola piazza in cui trovarsi e mangiare insieme.

 

In questo ultimi mesi si sono poi moltiplicati gli ordini di piante, fiori, concimi, terriccio, vasi e sementi perché migliaia di persone hanno riscoperto il proprio pollice verde colonizzando ogni possibile angolo assolato della casa con nuove specie vegetali capaci di lenire il rimpianto dell’Eden perduto e il senso di colpa da Antropocene in fase terminale. Si dice della nascita di nuove start-up per vivai bio-eco-green capaci di rispondere all’incremento di una domanda montante di specie rigorosamente autoctone, selvatiche, nutrite solo con concimi organici e protette da buonissime coccinelle istruite contro ogni forma di afidi. 

 

Cura del cibo, del corpo, dell’aria contro ogni forma d’impurità che possa annidarsi in casa in nome di una sanificazione domestica che non sembra conoscere limiti nella pulizia ossessiva di ogni oggetto, mensola, libreria, angolo nascosto della casa in cui possa nascondersi l’ombra di una possibile minaccia per la nostra salute, oltre a trasformarsi in un’utile valvola di sfogo per le nostre nevrosi represse.

A concludere la gamma degli scenari domestici che cercano di riprodurre frammenti di vita pubblica non poteva mancare quel micro ambiente dedicato allo “smart work” e alle decine di riunioni in Zoom, Meet, Skype, Teams, Webex ed Hangouts che hanno il potere di incollare ognuno di noi alla scrivania per ore, come forse non era mai stato nella nostra vita. L’effetto positivo di questa condizione paradossale è stato quello di far capire a molti di noi l’importanza del tempo speso in inutili spostamenti per brevi riunioni o alle migliaia di persone obbligate a passare una parte importante della propria giornata in faticosi sposamenti dalla periferia al centro per andare a lavorare. L’effetto immediato è un crollo dell’inquinamento atmosferico e un miglioramento della vita delle persone, con l’augurio che tutto questo possa insegnare a molte aziende ed amministrazioni a ripensare al tempo del lavoro e ai suoi flussi.

Anche questa esperienza ha avuto un potere deflagrante all’interno dell’ambiente tradizionale con la colonizzazione forzata delle stanzette dei bambini o delle cucine in sale riunioni, o in alternativa con l’esposizione pubblica delle “pareti nobili” della casa ornate di diplomi, foto di famiglia (matrimonio, battesimi, comunioni, cresime in batterie), quadri che spaziano dall’artista locale all’azzardata opera contemporanea, piatti del buon ricordo, vere o finte librerie, lampade d’autore, poster anni ottanta, fino alla semplice parete bianca, tutto illuminato dal riflesso bluastro dello schermo del computer, vero cordone ombelicale con il lavoro e le comunità che noi frequentiamo, le nostre paure e il flusso montante d’informazioni che nutre speranze e timori quotidiani.

 

Eppure le migliaia di parole e immagini sfiorano appena il cuore intimo della casa, come se nessuno, in fondo, avesse voglia di toccare lo spirito più privato e inaccessibile che segna i luoghi che abitiamo. Nessun riferimento al bagno e ai suoi riti, al letto e a tutto quello che di più segreto portano con sé.

Quasi nessun contatto con il corpo e i suoi sensi, se non per parlare di diete, ginnastica, salute e buona alimentazione. Il ventre caldo, intimo, sensuale, ambiguo, silenzioso, spesso problematico che nutre la natura profonda delle nostre case è stato messo da parte, quasi nascosto con pudore per tutto quello che di violento e doloroso avviene fuori da quelle finestre.

In fondo questo è un elemento positivo da constatare perché ci mostra che stiamo preservando istintivamente l’essenza della casa da ogni invasione e cambiamento comandato dall’esterno. 

Probabilmente le nostre case cambieranno, e in parte questo fenomeno è già cominciato intaccando gli ambienti di relazione con i mondi che ci circondano. 

Cominceremo con forme di sanificazione temporanea e la costruzione di strumenti che la possano rafforzare nel tempo come lavabi esterni, trattamenti ultravioletti e camere di compensazione verso il mondo esterno. Passeremo a trasformare i balconi e le nostre finestre con micro giardini, sedute comode, elementi di arredo mobile e compresso. Cambieremo le nostre “zone giorno” in luoghi ancora più multipli e flessibili, integrandoli con wifi potenti, connessioni distribuite ovunque, pareti attrezzate che cambiano configurazione lungo la giornata e nell’uso.

 

Opera di Joel Meyerowitz.


Le nostre cucine si amplieranno con dispense capienti, macchine per il sottovuoto, surgelatori ampi per soddisfare le nostre paure da fine del mondo e accaparramento delle riserve alimentari. 

È ancora da capire se l’ossessione della protezione rafforzerà lo spessore delle nostre porte in nome di una privacy sanitaria assoluta o se si trasformerà nella creazione di tribù conformi, sane, simili e vicine che allargheranno i confini domestici per diventare spazi protetti comunitari covid-free. 

Quest’ultimo scenario potrebbe avere un impatto interessante perché inciderebbe in maniera profonda sul ripensamento del patrimonio residenziale esistente e la costruzione delle nuove abitazioni che seguiranno, portando a una trasformazione dall’interno di spazi dedicati alle comunità di chi abita quei luoghi. 

Immaginiamo spazi comuni per lo studio e l’incontro, orti ricavati sui tetti, portinerie abbandonate modificate in spazi di compensazione con l’esterno dove raccogliere le sempre più frequenti spedizioni online, ma anche dove tenere una libreria o dispensa comune, un luogo per micro-eventi aperti al quartiere, oppure aree collettive dove collocare lavanderia potenziata per la sanificazione o altre funzioni complementari per la casa, che ne verrebbe così alleggerita, guadagnando spazio utile per altre funzioni necessarie.

 

Lavorare sulla casa nel prossimo futuro vorrà dire lavorare sulla diseguaglianza dello spazio per abitare e sulla riforma dell’esistente senza aggredire territori già esausti, perché solo una parte limitata della popolazione potrà permettersi questi cambiamenti, mentre nella maggior parte dei casi ci sarà bisogno di un intervento delle amministrazioni pubbliche.

La sfida sarà quella di riformare le migliaia di metri cubi di edilizia costruita nel secondo dopo-guerra, invecchiata e incapace di corrispondere al profondo cambiamento che la nostra società sta vivendo. Edifici da riformare dal punto di vista energetico, da modificare nella loro mono-funzionalità (solo abitazioni) innestando funzioni differenti che incrocino persone ed esperienze diverse (non solo abitazioni, ma laboratori, spazi di lavoro, mini-asili, ambulatori, spazi per il micro-commercio e lo scambio), paesaggi metropolitani che comportino una radicale riforma dei piani terra con funzioni integrate per lo sport, il gioco e la vita comunitaria.

 

L’emergenza covid è paradossalmente l’occasione per ripensare il nostro patrimonio edilizio del dopo-guerra e portarlo a essere un frammento di città abitata e amata dai suoi abitanti, evitando di allargare ulteriormente una forbice sociale che si potrebbe ampliare in maniera drammatica.

Non sogniamo borghi abbandonati ripopolati da colonie di esuli metropolitani, ma una politica nazionale che ripensi lo squilibrio tra aree urbane e aree agricole e sub-alpine, pensando a forme di infrastrutturazione dolce e sostenibile che permetta alle valli alpine e appenniniche, oltre agli entroterra di Sardegna e Sicilia e alle troppe aree naturali abbandonate, di diventare un patrimonio realisticamente accessibile, risorsa vera per il Paese e le generazioni di giovani che potrebbero trovare in queste parti d’Italia un’occasione concreta per lavorare e produrre qualità ambientale, sociale ed economica.

È importante guardare alla nostra casa come occasione di ripensare al mondo fuori da noi, perché comporta un’idea di cura e attenzione che è spesso mancata nelle nostre città in questi ultimi decenni, circondati da architetture sempre più aggressive e indifferenti ai luoghi che trasformano.

Case e città sono gemelli siamesi, unite e differenti, non potremmo difendere l’intimo della nostra abitazione senza essere cittadini dei luoghi che attraversiamo, perché esiste un legame profondo e inscindibile tra di loro. E questa potrebbe essere una delle lezioni che porteremo nel nostro intimo una volta che torneremo a camminare nelle nostre strade.

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