Addii / Karl Lagerfeld: icasticità e innovazione

20 Febbraio 2019

Se dovessi descrivere Karl Lagerfeld con una sola parola non avrei dubbi, la mia scelta cadrebbe subito su "icastico", non solo assonante con il suo soprannome kaiser, ma anche significativa rispetto alla sua rappresentatività immediata ed efficace, composta da tratti riconoscibili.

L'icasticità di Lagerfeld è racchiusa proprio in alcuni segni distintivi del suo total look: camicie con il colletto alto e inamidato, rigorosamente bianco, in abbinamento a una cravatta nera con su spille barocche, giacche e pantaloni, ovviamente neri, slim fit, occhiali scuri, mezzi guanti di pelle borchiati, stivali di pelle nera con la punta allungata, capelli cotonati ad altezza fronte, raccolti in una coda semplice. Indubbiamente il colletto, i guanti e gli occhiali ricoprono una funzione estetica di nascondimento dei punti da cui traspare l'età anagrafica, un argomento controverso per il designer, visto che sul suo sito personale è indicato come anno di nascita il 1938, mentre la stampa mondiale gli attribuisce 85 anni. Negando le sue forme del corpo e le occasioni d’uso – vista la formularietà dello stesso outfit, il dress code per Karl è un optional – il designer nega anche l’essenza della sua professione, ma solo ed esclusivamente per la sua individualità, per cui non sono mai valse regole, tendenze, tempi e modi della vita “normale”, perché l’imperativo da seguire è sempre stato unico e solo: lavorare per lasciare il segno in ogni ambito.

 

Lagerfeld alla fine della sua ultima sfilata di chanel

 

Ed è proprio da alcuni segni distintivi che si dirama uno dei saggi emblematici dell'analisi semiotica della moda “La libertà e il mantenimento. Estetica ed etica del total look di Chanel” scritto da Jean-Marie Floch nel 1995, le cui battute iniziali sono incentrate sugli “elementi di identificazione istantanea di Chanel” accuratamente selezionati e illustrati da Karl Lagerfeld nella prima edizione del catalogo della Maison, pubblicato nel 1993. Lagerfeld intraprende il progetto per semplificare l'estrema complessità della storia di Coco Chanel come designer, cercando di rendere giustizia al suo patrimonio spirituale comunicandolo e condividendolo con il pubblico. Nella prima tavola del catalogo il direttore creativo sceglie come elementi fondamentali le scarpe con la punta nera, la borsa matelassé con la catena dorata, il little black dress, la spilla a forma di croce, la giacca con lo scollo tondo, il fiocco, la camelia e il bottone dorato con impressa la doppia C, mentre nelle tavole successive fa vivere questi elementi e li disegna indossati, proprio per sottolineare il loro far parte di un sistema perfettamente funzionante e replicabile in tutte le epoche, pur se pensato per gli anni Cinquanta e Sessanta. Floch sposa il punto di vista di Lagerfeld, definendo questi capi e accessori segni identificativi e metonimie dell'iconico marchio, che oggi sicuramente si possono considerare dei paletti dell’universo tematico Chanel, ridistribuiti e piantati da kaiser Karl per evitare di disperdere la sua eredità nel corso dei vari cicli di eterno ritorno del nuovo.

Lagerfeld considera la moda un linguaggio che si sostanzia negli abiti come tramite per interpretare la realtà, tanto da affermare, nel 2004, di aver preso il codice peculiare di Chanel e averlo messo a soqquadro, sovvertendolo, risemantizzandolo, attualizzandolo. Come ricorda lo stesso Floch, Lagerfeld introduce il jeans nelle collezioni Chanel, fino ad allora inesistente non perché a Coco non piacesse, ma semplicemente perché lei realizzava solo abiti che avesse già indossato, cosa che non le era mai capitata, mentre per lo stesso Karl quel particolare capo era molto significativo. Secondo il suo amico Florentine Pabst è stato il primo a far indossare alle modelle le sneakers in passerella – oggi presenti stabilmente nelle collezioni Chanel – e ciò dimostra quanto la sua propensione a innovare fosse in accordo con lo spirito del tempo, però nel rispetto degli animi e delle atmosfere delle case di moda con cui ha lavorato.

Il discorso su Lagerfeld come agente innovatore non si può limitare solo agli oggetti, ma, come egli stesso afferma, visto che la moda è un linguaggio deve estendersi anche alla sua capacità di governare le tipologie di quest’ultimo, vale a dire i suoi sistemi di segni secondari, come l’audiovisivo, la fotografia o, addirittura, la comunicazione visiva digitali e i cartoni animati. Gli esempi sono molteplici, ma sicuramente il più lampante è rappresentato dalla fumettizzazione – finalizzata alle collezioni del brand Karl Lagerfeld – di se stesso e dell’amata gatta birmana Choupette, una dei suoi eredi, pet influencer e protagonista della collezione Chanel AI 2016-17, in versione emoji. Destreggiandosi tra diversi linguaggi, Lagerfeld ha improntato la sua carriera come un agente della dinamicità della moda, capace di utilizzare l’innovazione come novità trasformativa del suo nucleo di significati portante, radicato nel patrimonio delle maison con cui ha lavorato, e volta per volta creolizzato con culture, generi, e stili. Ormai tutti sapranno che Lagerfeld inizia a lavorare nella moda con Pierre Balmain a 17 anni, dopo aver vinto un concorso per merito del figurino di un cappotto e che la prima carica di direttore creativo l’ha ottenuta per Jean Patou, nel 1957, mentre non credo sia noto il suo avere inventato, nel 1962, la professione del designer freelancer, contribuendo ai risvolti creativi di molti marchi, tra cui Fendi, con cui, a partire dal 1965, ha lavorato per tutta la vita. Si tratta del sodalizio più duraturo di tutta la sua carriera, nato probabilmente durante un periodo di crisi creativa passato a Roma. Dopo vent'anni da Chloé, nel 1983 incomincia il suo percorso di direzione creativa da Chanel, per poi creare, solo un anno dopo, il suo marchio omonimo. In seguito Lagerfeld mette alla prova il suo multiforme ingegno sperimentando qualsiasi professione artistica possibile: fotografo, regista, editore, scrittore, illustratore, designer di interni, sino a diventare, nel 2000, addirittura una sorta di beauty-guru, dopo aver perso 42 chili in 13 mesi, e pubblicato The 3D Diet, il racconto autobiografico della sua esperienza. La moda entra in gioco anche nel suo dimagrimento improvviso, perché doveva plasmare e trasformare il suo corpo per renderlo adatto ai capi realizzati da Hedi Slimane, di certo non ideati pensando alla forma fisica di un uomo non più nel fiore negli anni e sovrappeso.

 

Lagerfeld e Choupette ©Annie Leibovitz, Vogue usa. settembre 2018. Lagerfeld e Choupette ©Annie Leibovitz, Vogue usa. settembre 2018.

 

L’ossessione per la gioventù e la forma fisica determina l’icasticità di Karl, che, similmente a quella di Chanel, sta proprio nei suoi segni distintivi, invarianti, ma innovativi nei dettagli. Avere uno stile vestimentario fondato su una solida base di tratti caratterizzanti non significa costringersi nel sempre uguale, bensì costruirsi uno stile attorno a nucleo stabile in grado di rinnovarsi, senza tradire personalità e individualità. Nel 1979, infatti, Lagerfeld si rifiuta di descrivere il suo stile in un'intervista, bypassando la domanda con la citazione della canzone di Marlene Dietrich “Another spring, another love”, in pieno accordo con lo spirito capriccioso, volubile ed effimero della moda. Ha sempre saputo che stagione dopo stagione sarebbe cambiato qualcosa, quindi perché perdere tempo a classificare un eterno divenire? Come abbiamo visto, l’avrebbe fatto con Chanel anni dopo, ma si trattava, appunto, di un viaggio già concluso, da lui ampiamente documentato in varie forma, fino a rendere il sito Web della maison un museo commemorativo in rete.

Non solo icastico, ma anche inarrestabile, mediatico, mai soddisfatto, e, come riportato anche nel controverso libro di Alicia Drake, The Beautiful Fall: Fashion, Genius and Glorious Excess in 1970s Paris (Bloomsbury 2006) – ritirato dal mercato francese dopo un’azione legale dello stilista – si dice che Lagerfeld avesse paura della morte, di scomparire, e perciò lavorava tanto, sia per dimenticarsi dello scorrere del tempo sia per lasciare un segno, un segno distintivo.

Di segni distintivi ne ha lasciati parecchi, così tanti che la sua assenza dal sistema moda pone la parola fine a un’era, da cui se ne genererà una successiva proprio a partire dai paletti sapientemente posizionati da Lagerfeld, per delimitare il suo universo tematico e il poter fare della dinamicità dell’innovazione trasformativa.

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