Gerusalemme / La fortezza della pace

28 Aprile 2019

A Gerusalemme, in primavera, c’è un sole irradiante e tiepido, che fa splendere gli antichi muri di pietra rosa e li rende luminosi quasi quanto sé stesso. Quella pietra rosa non sono andati a cercarsela lontano, ed è quella sulla quale è stata costruita l’intera Città: a Roma c’erano il tufo e il travertino, e di quelli si sono dovuti a accontentare. S’intende che, da qui in poi, quando parlo di città, mi riferisco alla Città Vecchia con tutti i suoi quartieri, compreso quello ebraico, e i suoi sacri luoghi di ritrovo, ma anche a Gerusalemme Ovest e Gerusalemme Est. 

 

In un vicolo della Città incantata passavamo, Elena e io, rimirando l’ombra oscura di una casa che tagliava in diagonale un alto muro senza finestre. Rosa. Dall’altra parte del muro tagliato di netto dall’ombra arrivava la voce profonda, dolce e paziente di un vecchio di Bukara che insegnava quieto a un bambino credo la canzone-preghiera dell’arrivo del Sabato. Che non è soltanto un giorno della settimana, il Giorno del riposo, ma anche il giorno bellissimo, Kushi, del ristoro dell’intero Universo, Dio compreso. 

Sarà stato giusto o sbagliato quel che intendemmo? Alla voce del vecchio, più che paterna, e al suo canto profondo si alternava la vocina titubante, squillante, volonterosa del bambino ansioso di imparare. E, quando sbagliava, arrivava l’attesa meraviglia del duetto, la voce scura del vecchio che lo correggeva, mentre Elena e io ci tenevamo le mani e appoggiavamo la fronte l’uno sull’altra senza andare oltre per restare immersi in quel cielo ebraico.  

 

Ci siamo poi allontanati in punta di piedi quando abbiamo sperato che la lezione di canto proseguisse all’infinito anche senza di noi. E infatti ogni tanto torniamo ad ascoltarla di lontano ancora adesso, che quel vecchio è morto e quel bambino è un vecchio che insegna la canzone del Sabato a un altro bambino nuovo. 

Questa è la Gerusalemme, Jerusalem coelestis, alla quale può salire nella realtà un incredulo illetterato lasciando giù in basso Babilonia, la città infernale dell’Impero del Mondo.

C’è un luogo, da qualche parte, un po’ fuori dalla Gerusalemme occidentale, dove si vede la roccia rosa con le sue chiazze arborescenti verde cupo. Proprio lì sono state costruite piccole case di stile gerosolimitano, belle e moderne, povere e coscienti di sé, tutte rosa come la loro vallata. Una di quelle case ha potuto essere acquistata da un mio cugino matto, che adesso è morto da tantissimo tempo. Lui, Meshulam, si salvò per miracolo, nella Torino barocca di mattoni, dalla deportazione, nell’istante in cui la madre e la sorella venivano acciuffate per essere portate alla morte ad Auschwitz, e la sua mente generò una pazzia così provvidenziale da permettergli, a Gerusalemme, camuffato da ebreo ortodosso, di esercitare per molti anni la professione di falsa guida della falsa tomba di re Davide del falso Monte di Sion che durò lo spazio di un mattino, e cioè i vent’anni di tempo tra la Guerra di Indipendenza del 1948 e la Guerra dei Sei giorni del 1967. 

 

Opera di Anna Valdez.


Con Gerusalemme vecchia i beduini della Legione Araba possedevano tutti i luoghi di ritrovo sacri, all’infuori di quello spicchio di monte con la tomba, che era rimasto miracolosamente in mano ebraica, azionando la nostra fantasia mistica senza confini. C’era chi sul serio andava lì su quella tomba per pregare il re Davide, nella sua momentanea assenza, di intervenire in certe faccende famigliari che dovevano essere tragiche per le lacrime che spargeva il querelante cercando di risvegliarlo con grandi pugni sul suo sarcofago rosa presumibilmente vuoto. 

Al tramonto, Meshulam, lasciato il suo strano lavoro di risarcimento dell’umanità, tornava nella striscia del suo regno, che serviva anche da asilo-nido privato che la moglie teneva per bimbi di famiglie molto, ma molto poco ricche di Gerusalemme. L’ho chiamato striscia il suo posto, perché il sole, al tramonto, faceva delle lunghe strisce coi suoi raggi nelle vallate di roccia. Forse i raggi del sole in quel punto trascinano il blu profondo del Mediterraneo a illuminare con la luce della vita la Valle del Kedròn, la Valle dei Morti e, giù giù, il Mar Morto. Il mio cugino pazzo comprò la casa con i danni di guerra per la mamma e la sorella assassinate, pagati dalla Germania redenta. 

 

Scrivere le glorie e le miserie millenarie della Città che cavalca la montagna di Giuda è cosa impossibile per tutti, figuriamoci per me da solo! Ma chiunque visita la Città si accorge del miracolo che essa celebra. Tutti i suoi conquistatori, dopo essersene impossessati, compresero che in qualche modo era imprendibile. E ne finirono ammaliati. E così accadde che prima gli antichi romani, Giustiniano, poi Saladino, Solimano il Magnifico fino ad arrivare agli inglesi del periodo mandatario, trasformarono l’impossibilità di possederla nella follia di adornarla nel rispetto inconsapevole ma assoluto delle sue leggi arcane. Tutto è rimasto di pietra rosa nella speranza di lasciare la propria testimonianza per il dopo: anche le costruzioni israeliane, tutte, la Kenesseth, lo Yad Vashem, tutte, sono edificate con la gloriosa, umile pietra color rosa. 

 

Le mura di Solimano sembrano difenderla dagli invasori del futuro ma anche del passato, di quando non erano ancora state concepite; quelle mura turche, con le loro porte che conservano i nomi dell’antichità millenaria, appaiono ricamate a merletto da mani di donne ebree. 

Nel ventennio di “dominio spezzato” dal 1948 al 1967, i nuovi conquistatori ebrei e quelli arabi rispettarono l’imperio delle regole comunali dell’epoca del dominio britannico. E così accadde che quando la Città si riunì nuovamente, la parte ebraica e quella araba si assomigliassero come sorelle. 

Dopo il vuoto editto di Trump assistiamo ora alle maledizioni corali dei paesi musulmani, alla cautela dei paesi confinanti, all’ira manovrata della Striscia di Gaza, alla prudenza della Cisgiordania, all’esile vanitas di cortei vittoriosi israeliani, al silenzio, o, forse, al bisbiglio della Diaspora. 

Molti sembrano aspettare il vero proclama, quello di Gerusalemme capitale dei sogni. Quelli buoni sono chiamati sogni rosa, come il colore dei muri della Città. 

 

Questo articolo è apparso nel gennaio 2018 su "Repubblica", che ringraziamo.

 

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