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11 luglio a Torino: che cos'è un maestro? / Un maestro credibile

25 Giugno 2016

 

Pubblichiamo oggi il primo dei quattro interventi, legati all’incontro Che cos’è un maestro? promosso dal progetto Hangar Piemonte e da da doppiozero: l’11 luglio, a Torino, un’occasione di confronto e riflessione sulla figura dei maestri, sulla comunicazione oggi dei saperi pratici e teorici a partire dal racconto di alcune esperienze concrete dei partecipanti in realtà non istituzionali. 

 

Giusi Marchetta vive a Torino, dove insegna. Autrice di racconti e romanzi: Dai un bacio a chi vuoi tu (Terre di Mezzo, 2008); L'iguana non vuole (Rizzoli, 2011); Lettori si cresce (Einaudi, 2015).

 

Mi capita a volte di attraversare la strada di corsa perché sono in ritardo e non posso permettermelo: il verde e la presenza di strisce diventano un optional gradito ma non necessario; per una manciata di secondi contano solo la velocità, la distanza delle auto in arrivo e la possibilità di approfittare di quell’intervallo di tempo e di spazio. Niente di estremo, ovviamente: la banale routine del ritardatario. 

Va sempre così tranne quando ad aspettare con me sul marciapiedi c’è un bambino. Io attraverso, mi dico, e lui penserà che le regole non vadano rispettate per davvero. Penserà che non servano. Attraverso e penserà che le regole valgano solo per qualcuno mentre altri fanno quello che vogliono. Farà lo stesso quando la madre non lo vede e resterà spiaccicato sull’asfalto. Farà lo stesso senza finire ucciso, capirà che può farlo sempre, si cercherà un’altra regola da non rispettare. Io attraverso e lui penserà che io sia una persona orribile che non rispetta una cosa facile come il codice della strada mettendo in pericolo se stessa e gli altri. Per questo non attraverso. Lui continua a tormentarsi una crosticina sul ginocchio e quando scatta il verde ci avviamo tutti insieme sulle strisce. 

 

Sono maestri tutti quelli che da piccoli abbiamo guardato e che ci hanno insegnato qualcosa sullo stare al mondo. Qualche volta se ne sono accorti, più spesso non ci hanno fatto caso. È buffo perché io sono diventata un’insegnante dopo due anni e mezzo di specializzazione e due concorsi, ho consumato mesi interi su manuali di pedagogia e didattica cercando di imparare tutto quello che c’era da sapere sulla trasmissione dell’italiano, della storia, del latino e del greco; non ho mai pensato ai tempi morti dell’entrata, delle uscite, delle pause, quando i ragazzi ti fissano dai banchi e teoricamente non stai insegnando nulla. Invece negli anni quegli sguardi hanno pesato più di una convocazione ricordandomi in ogni momento di rappresentare una piccola parte di mondo su cui si affrettano a trarre conclusioni feroci quanto approssimative. Quest’anno, l’ultimo giorno di scuola, è venuto fuori il discorso. 

– Da quando entra dalla porta – hanno detto e io mi sono rivista in certe mattine sulla soglia della classe con i libri in mano, la testa da un’altra parte. 

 

Ricordiamo tutti il maestro che da piccoli abbiamo sentito cantare; per un po’ abbiamo creduto che la maestra dormisse a scuola, incapaci di immaginarla al di fuori dal suo habitat. I nostri maestri non erano casuali compagni di viaggio da cui imparare qualcosa: erano lì per quello. Dovevamo guardarli e ascoltarli, poi qualcosa sarebbe successo. La meraviglia: due più due che faceva quattro, le parole che suonavano una dopo l’altra e davano un senso ai manifesti per strada, alle scritte sui muri. Il mondo che appariva più chiaro perché loro te l’avevano spiegato. 

 

 

 

Si è maestri senza volerlo, quindi, e maestri con intenzione. Il secondo caso mi sembra più difficile. Se penso a registi, fotografi, musicisti, a tutti gli artisti chiamati maestro mi immagino un grande talento e una passione per la propria materia che schiaccia qualsiasi altra cosa, persone comprese. E invece chi vuole insegnare deve entrare in relazione con l’altro, fare in modo che da lui emerga qualcosa che si sviluppi e cresca; non teme il confronto, anzi lavora per essere superato. Il maestro che intende insegnare ha un’anima duplice: ha passione per la materia e cura per l’allievo. Se non ha in sé entrambe le cose diventa come l’insegnante di batteria in Whiplash che tortura a sangue il suo studente più dotato per trasformarlo in un grande musicista. Alla fine del film ci riesce, ma a livello puramente tecnico, come se il ragazzo stesso fosse uno strumento da suonare in modo eccelso. La passione senza la cura. 

(Eppure una parte di me lo ama questo maestro che ha tirato fuori il batterista dal ragazzo a furia di scorticargli le mani; mi fa pensare a tutte le volte che mi hanno chiesto di fare un salto più alto, di stringere i denti, di aprire quel libro, di finire quell’espressione, di provare che potevo farcela e ce l’ho fatta. Lo amo perché adora la sua materia, la conosce e la vede riflessa negli occhi del ragazzo: anche questo è insegnare. L’opposto di quello che fa Keating ne L’attimo fuggente quando declama poesie come se fossero affascinanti estensioni di se stesso, travolgendo gli alunni senza mai vederli davvero, lasciandone uno a terra e uscendo tra gli applausi degli altri in piedi sui banchi come tante sue piccole imitazioni). 

 

Il maestro non è il prodotto finito, il modello, il punto di arrivo. È il ponte tra l’allievo e quello che l’allievo deve apprendere. Capita anche che quello che insegna sia più grande di quello che si vede e più nascosto. 

Sono entrata al Ferrante Aporti una volta. C’era una stanza senza banchi o lavagna con il maestro, Mario Tagliani, e i suoi ragazzi intorno a un tavolo: la scuola in carcere. 

– Non si riesce a fare nessun programma vero ovviamente: stanno qui qualche mese poi escono – mi ha raccontato. – Certo, dopo un po’ qualcuno ritorna. 

L’ho ascoltato fare lezione di italiano, l’ho visto correggere un compito, indicare su una cartina la città di un magrebino appena arrivato, tradurre una comunicazione del tribunale in parole più semplici e umane. Anni dopo ho letto il libro che ha scritto, Il maestro dentro, e l’ho rivisto girare attorno a quel tavolo, passare da un alunno all’altro insegnando che nella vita ti può andare tutto storto, eppure può succedere che qualcuno ti ascolti e se sei perso ti ricordi chi sei cercandoti su una vecchia cartina del Marocco. 

Mario Tagliani e tutti gli insegnanti come lui mi hanno mostrato che ci sono tanti modi di essere maestro, ma forse solo uno di esserlo davvero: diventare “un adulto credibile”. Così Eraldo Affinati, in un’intervista contenuta ne La scuola è aperta a tutti di Emiliano Sbaraglia, definisce una persona “che ha fatto una scelta”, “un individuo saldo, un adulto di riferimento”. 

 

Cresciamo facendo la guerra con noi stessi e con quello che ci circonda: abbiamo bisogno di qualcuno di cui fidarci quando le domande si fanno troppo difficili. A questo adulto chiediamo coerenza, amore per quello che insegna, attenzione per noi, suoi studenti. Non vogliamo che impari da noi più di quanto stiamo imparando da lui. Vogliamo che resti saldo nell’acqua mentre noi testiamo la corrente; che ci afferri se stiamo andando alla deriva. Ma soprattutto vogliamo credergli, cioè intravedere nelle cose che fa e ci chiede di fare una verità che va oltre l’abitudine e la routine scolastica. Per questo i Maestri di strada escono dalle aule, i Piccoli maestri sconfinano l’ora di italiano, leggendo o raccontando una storia a classi di ogni età riunite per l’occasione. Davanti a questi ragazzi il libro e la mano che lo stringe sono una cosa sola: quella persona legge perché ha amato leggere, racconta perché lo vuole; testimonia con la voce e con la presenza l’effetto che la lettura ha avuto su di lei e potrebbe (potrebbe) avere su ognuno dei presenti. Soprattutto, li guarda, è lì per loro: perché Il giovane Holden è importante, ma ancora più importante è leggerlo tutti insieme stamattina. 

 

Mia madre cambia per sempre il verso alle mie esse che sembrano zeta. Il nonno mi spiega cos’è un innesto, mi dice di non toccare. Letizia mi passa Musica per organi caldi sotto il banco. Papà aspetta, paziente, che faccia ripartire la macchina. E così via, di maestro in maestro. Ne immagino uno ideale che li contenga tutti: è immerso in un libro e nulla può distoglierlo. Ne legge un altro a un suo alunno; gli insegna, paziente, a sillabare. Gli chiede quale libro si sia scelto da solo in libreria. Gliene presta uno bellissimo. 

Mi piacerebbe un giorno essere una maestra o perlomeno un adulto mediamente credibile. Potrebbe non succedere, ma io, intanto, devo provarci. È come un appello al quale si è scelto di rispondere. Da un mese c’è una piantina sul mio davanzale cui do l’acqua tutte le sere. Non so se la bagno poco o troppo. So che ha bisogno d’acqua, comunque.

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