Grande retrospettiva al LAC di Lugano / Rodčenko. Sperimentazione e realismo

7 Aprile 2016

“Ogni percorso artistico è una somma di impressioni: infanzia, adolescenza, ambienti vicini e illusioni di gioventù. […] Io sono nato sul palcoscenico di un teatro, il Club russo di Pietroburgo, sulla prospettiva Nevskij, dove mio padre, dopo molte avversità, lavorava come trovarobe. La vita del teatro, cioè il palcoscenico e le quinte, erano la vita vera, e non avevo idea di quel che c’era fuori. L’appartamento era di proprietà del teatro e si trovava al quarto piano, con un accesso dalla scena: a rigor di termini, era una semplice soffitta. Se scendevi giù per le scale strette ti trovavi direttamente sul palcoscenico. Lì ho visto il mio primo paesaggio, e i primi fiori che erano fatti da mio padre.” 

 

 

Questa frase di Aleksandr Michajlovič Rodčenko (1891-1959), ora in mostra al LAC di Lugano, sembra avere poco a che fare con un autore dal forte impegno politico e sociale. A un’analisi più attenta invece emergono le analogie con tutto ciò che anima nel profondo la sua produzione, frutto di una fortissima tensione intellettuale: la volontà di rendere possibile – e quindi reale – l’utopia. L’atto di creazione, per dirla con Deleuze, dà vita a ciò che manca e pone dei mondi come possibilità. L’operazione attuata in Russia per un ventennio a partire dal 1913 (poco prima della Rivoluzione d’Ottobre del 1917) da parte di intellettuali e artisti costruttivisti apre questo ventaglio di possibilità: è un grande atto di immaginazione e di progettazione del futuro. Vengono esaltati i cambiamenti verso la modernità, resi possibili grazie ai progressi tecnologici. Il modello dell’arte è la vita quotidiana: è pensata non per i musei ma per lo spazio pubblico e per la massa. Lo stesso Rodčenko progetta il Worker’s Club per una delle mostre sovietiche all’Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes di Parigi del 1925. Il club, con un’estetica spartana e funzionale, riconosce il tempo libero come occasione di attività personale e collettiva ed è impostato affinché i lavoratori possano studiare e leggere o giocare a scacchi. 

 

 

Questo impegno nella progettazione della società non emerge in maniera troppo esplicita dalla mostra, almeno non con schizzi e progetti; si cercano invece analogie con le istanze moderniste presenti nel resto dell’Europa, dai collage di Heartfield alle sperimentazioni di Lazlo Moholy-Nagy. Sì, Rodčenko possedeva una copia di Malarei, fotografie, film e numerose riviste occidentali; è stato anche accusato di plagio nel 1928 per aver copiato i formalisti borghesi, ma non è questo il punto. Non ha nemmeno senso ridurre questa complessità a un dualismo tra approccio ludico/formale per l’Occidente e politico per l’Est. A mio avviso è più utile focalizzarsi sulle specificità di un autore e di un contesto storico che per forza di cose è estraneo alle logiche eurocentriche. Solo così si può comprendere perché certe innovazioni di linguaggio non riguardino solo la dimensione estetica ma siano un’autentica necessità. 

 

La produzione di Aleksandr Rodčenko (1891-1959), generalmente considerato il padre della fotografia modernista nell’Unione Sovietica, va ben oltre le fotografie alle quali normalmente è associato, come Gradini, Scala antincendio, Ragazza con una Leica o tutt’al più qualche ritratto (celebri quelli alla madre o al poeta Vladimir Vladimirovič Majakovskij). Egli attua una fusione tra le diverse discipline, con una profonda riflessione sui linguaggi e sulle arti. Ciò è già evidentissimo nei primi collage del 1918-22 e nei fotomontaggi, come quelli che illustrano il poema sull’amore di Majakovskij Pro Eto (1923), le locandine del film Kino-Pravda (1924) di Dziga Vertov, le copertine della rivista LEF (Fronte di Sinistra delle Arti) o la pubblicità della Casa Editrice di Stato Knigi (Libri, 1925) con le mani di Lili Brik che formano un megafono. I fotomontaggi lo portano ad interessarsi alla pratica fotografica, sempre con un forte impegno propagandistico. 

 

 

 

Analizza in maniera puntuale una società in trasformazione, in rapido cambiamento. Come foto reporter (compra la prima macchina, una lochim medio formato 9x12, nel 1924) indaga la spinta verso la modernità e le trasformazioni tecnologiche dell’URSS, il modo in cui cambia la vita quotidiana e l’architettura. È una realtà nuova, indescrivibile con l’antica arte del cavalletto, un’arte ridondante, esclusiva, di nessuna utilità alle masse, che ha bisogno di un nuovo linguaggio in grado di indicare a tutti un nuovo modo e moderno di scoprire il mondo della scienza, della tecnologia, della vita di tutti i giorni. Questo per Rodčenko è lo scopo della fotografia, non considerata uno strumento di descrizione ma di sperimentazione, in grado di far emergere punti di vista nuovi sulle cose, necessari per cogliere la complessità del mondo circostante. Perché questo si realizzi bisogna adottare uno sguardo nuovo sul reale, nuove visuali e prospettive: dal basso verso l’alto o dall’alto verso il basso, prospettive angolari e composizioni geometriche.

 

 

 

Questi punti di vista comunicano la profondità e le proporzioni dello spazio urbano ed esaltano gli elementi strutturali della realtà industriale. Sono necessari alla resa visiva di un inedito impatto percettivo, determinato dalla nuova conformazione dello spazio urbano. Rodčenko ritrae una moltitudine di soggetti: l’aeronautica, l’armata rossa, lo sport, le manifestazioni, le fattorie collettive, le nuove fabbriche, la natura, i giovani pionieri… Famoso e controverso è il reportage del 1933 dedicato alla costruzione del canale tra Mar Bianco e Baltico, un progetto di lavori forzati amministrato dalla polizia sovietica segreta. In queste fotografie, pubblicate sulla rivista di propaganda SSSR na stroike (URSS in costruzione), Rodčenko, in un eccesso di idealismo, celebra il sistema dei gulag mentre molti altri artisti e intellettuali sono perseguitati dal regime (e, quando non sterminati, costretti ai lavori forzati). Dedica nel 1941 una serie al circo russo: sembra essere un ideale ritorno a quel mondo dell’immaginazione dell’infanzia, all’universo fittizio del teatro e alle quinte del palcoscenico. È un luogo dove la fantasia trova spazio. Da queste fotografie, mai pubblicate su SSSR na stroike perché l’URSS entra in guerra, emerge un senso di rifiuto del mondo reale; sono una fuga nell’immaginazione perché l’utopia si è rivelata impossibile. 

 

Aleksandr Rodčenko. (27 febbraio – 08 maggio 2016 LAC Lugano Arte e Cultura. A cura di Olga Sviblova)

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